La Repubblica 15/01/2006, pag.52-53 Giuseppe Videtti, 15 gennaio 2006
Naghib Mahfuz. La Repubblica 15/01/2006. Il Cairo. Domani Hassan ammazzerà il cammello. La bestia sarà macellata e la carne sarà pronta per il primo giorno di Eid el-Adha, la festa del sacrificio, due mesi dalla fine del ramadan
Naghib Mahfuz. La Repubblica 15/01/2006. Il Cairo. Domani Hassan ammazzerà il cammello. La bestia sarà macellata e la carne sarà pronta per il primo giorno di Eid el-Adha, la festa del sacrificio, due mesi dalla fine del ramadan. I bambini sono tristi, si sono affezionati all´animale che da quasi due anni vive nella stanza al primo piano della palazzina intasata di polvere e sabbia nel quartiere di Gamaliya, al Cairo, alle spalle della moschea di Husseyn. Celato ai turisti dal più caotico Khan El Khalili, il bazar dove comprano oro, argento e souvenir. Per i vicini Hassan è un uomo arrivato, fa il facchino in un grande albergo. La prima moglie è morta partorendo il terzo figlio e lui, per salvare la famiglia, ha sposato un´altra donna che gli ha dato altri tre figli («ha preteso quel che avevo dato all´altra», dice). Ha 40 anni, il più grande dei ragazzi 20, la più piccina 6. Come tutti i fratelli maschi, ha problemi renali. Gli hanno già impiantato la cannula per la dialisi ed è in lista per in trapianto. «A volte la pressione arriva a 260, gli occhi bruciano. Ma non ho paura», dice Hassan con un sorriso onesto, privo di spavalderia e di rassegnazione. «La famiglia ora può farcela anche senza di me». Suo padre è morto ieri sera, è stato interrato stamattina dopo le preghiere delle donne. Ora la stradina sterrata dove abitano è addobbata a lutto. Stoffa azzurra con sure del Corano ricamate in verde, oro e porpora coprono le mura scrostate. Gli uomini del quartiere salutano uno a uno i tredici figli maschi del defunto e si accomodano su sterminate file di sedie sistemate una di fronte all´altra. Alla fine del tunnel di raso si ode il muezzin salmodiare. «Accomodatevi», dice Hassan, «la morte non deve sconvolgere i piani della vita». Ci ha invitato a visitare Gamaliya, il quartiere dove nel 1911 è nato il premio Nobel per la letteratura Naghib Mahfuz, e vuole mantenere la promessa. La veglia degli uomini dura molte ore, poi nella notte il quartiere riprende il suo ritmo abituale. Nelle botteghe torna la vita, il venditore avvita la lampadina e illumina i contenitori di cartone pieni di uova e i barattoli di conserva. Grande compostezza, nessuna lacrima. «La civiltà egiziana è tutta costruita sull´idea della morte e su come sopravvivere a essa», ci spiegava Mahfuz poche ore prima. Già nell´88, quando gli fu assegnato il Nobel, lo scrittore non viveva più a Gamaliya. Per ragioni di salute si era spostato a Agouza, un quartiere più salubre sulla riva del Nilo. «Mi manca la vecchia Cairo», dice. La voce profonda, l´aspetto ieratico, le migliaia di minuscole rughe del viso e delle mani che si contraggono e si distendono impercettibilmente incutono rispetto. Il maestro ha 94 anni, sente poco, non vede quasi nulla, ma la mente è lucida, la memoria intatta. Non scrive più romanzi, solo piccole storie che detta ogni mattina alla sua segretaria. L´ultimo libro, pubblicato l´anno scorso, è una raccolta di sogni (The dreams, ed. The American University in Cairo Press), 104 in tutto, nessuno più lungo di una pagina. «Ho nostalgia dei vecchi caffè, mi manca il contatto diretto con la gente del quartiere, il vociare dei bambini, le giornate scandite dall´attività degli artigiani, i richiami delle donne. Gli interminabili, afosi pomeriggi estivi a El Fishawi, davanti a un tè alla menta. Abbandonare Gamaliya fu per me una decisione penosa. E più doloroso è il fatto che adesso, nelle mie condizioni, non posso tornarci. A volte un amico mi dice: "Andiamo Naghib, ti ci accompagno con la mia automobile". Ma io declino l´invito, perché troverei insopportabile essere lì senza poter vedere la gente e le case. Mi mancherebbero i suoni che mi sono familiari. L´olfatto no, quello non mi ha tradito, è un sollievo respirare a pieni polmoni gli antichi profumi. Mi consola il fatto che El Husseyn, il cuore della nostra città, non sia stato travolto dal modernismo. Forse solo un palazzo o due sono stati demoliti, ma le stradine in cui giocavo da bambino sono rimaste le stesse. Se fa un giro nel quartiere, troverà ogni cosa come l´ho lasciata. Ci vada, anche per me». Il palazzo dove abita, proprio davanti al fiume, è costantemente presidiato dalla polizia. L´appartamento ha una doppia porta, la seconda non si apre finché la prima non si è chiusa alle spalle di chi bussa. Nel 1994 Mahfuz fu ferito alla gola da un fondamentalista che si era avvicinato alla sua automobile. Lo scrittore l´aveva scambiato per un amico, forse un lettore, e aveva abbassato il finestrino. Sarebbe morto se a cento metri non ci fosse stato un ospedale militare, ma la riabilitazione è stata lunga e dolorosa. Eppure, se c´è una cosa che odia è essere considerato un martire, una vittima. «Mi è successo quel che potrebbe succedere a chiunque in un tempo malato», dice. Da anni ormai non riceve visitatori. Nel 1993, quando la scrittrice Nadine Gordimer visitò il Cairo per incontrare gli intellettuali egiziani, non riuscì ad avere l´agognato incontro con il maestro, in quei giorni febbricitante. Oggi gli occhi di Mahfuz sul mondo sono quelli dell´amico Mohamed Salmawi, 60 anni, redattore capo del quotidiano Al Haram, l´uomo che dopo molte indecisioni e una trattativa durata quasi due anni ha acconsentito ad accompagnarci da lui nel giorno in cui il baram islamico del sacrificio e il Natale copto quasi coincidono. «Lo vidi per la prima volta al giornale nel 1970», racconta Salmawi, scrittore anche lui, «ma diventammo amici la volta che gli consegnai un mio manoscritto per un parere. Me lo riportò la settimana dopo: "Mi è piaciuto, ho fatto delle correzioni a matita, così se non ti sembrano giuste puoi cancellarle con la gomma", disse. Io non solo ho accettato i consigli, ma conservo ancora gelosamente quei fogli con la sua calligrafia». Salmawi è il figlio maschio che Mahfuz non ha avuto. Protettivo a rischio di poter sembrare autoritario, tratta il vecchio maestro con tenerezza e rispetto. Grida ogni domanda in arabo, e affinché lui possa udire traduce anche le risposte in inglese a voce altissima, scandendo le parole. «Mi manca la musica», dice lo scrittore, quasi a scusarsi per il suo problema di udito. «Una volta ascoltavo le canzoni di Oum Kalthoum ogni giorno, dopo la siesta. Poi uscivo con un amico a prendere un tè sulle rive del Nilo. Oum Kalthoum, la più grande voce d´Egitto, era il mio idolo, ma l´ho incontrata una sola volta, quando Al Haram organizzò un party per il mio cinquantesimo compleanno e la invitò per farmi una sorpresa. Pensi che ho chiamato una delle mie due figlie Oum Kalthoum (l´altra si chiama Fatima)». Quando l´udito ha cominciato a tradirlo, non poter più di ascoltare Enta omri, El atlal e Fakkarouni è diventato un tormento. Un giorno gridò esasperato: «Cos´è questo rumore insopportabile che esce dal giradischi?». « Oum Kalthoum», gli rispose sua moglie. Capì che il suo timpano trasformava in frastuono anche il suono più sublime. stata l´unica volta che madame Naghib Mahfuz ha visto suo marito piangere. Ora si occupa di lui, silenziosa e attenta, nonostante lei stessa sia malferma sulle gambe per un grave problema all´anca. Serve gigantesche fette di torta di panna e amarena e generosi bicchieri di succo di mango, e dalle spesse lenti multifocali non lo perde mai di vista. La casa profuma di gelsomino, i fiori freschi sono sistemati su capitelli carichi di melograni in gesso, simbolo di abbondanza. Il maestro siede sul suo divano preferito, dritto come un fuso, elegante, vestaglia cammello e pigiama di fustagno, i piedi infilati in morbide pantofole di cuoio. «Non ho mai viaggiato, perché questa città mi ha dato tutto ciò di cui avevo bisogno. Il Cairo è il magazzino della storia. I faraoni, i persiani, i greci, i romani, gli arabi, i turchi: sono tutti passati di qui e tutti, anche l´Europa moderna, hanno lasciato un segno nella storia. La città è diventata, attraverso i secoli, un residuato dell´ingegno umano. Ma il periodo che mi è più caro, di questo secolo di vita, è quello che noi chiamiamo Cairo Renaissance, dopo la rivoluzione del 1919 guidata da Saad Zaghlul, leader del partito degli Umma, un eroe di quei tempi e della nostra storia. Fu la prima volta che in un rigurgito di patriottismo, l´Egitto intero si coalizzò per cacciare gli inglesi dal paese. Il fermento di quegli anni generò una rinascita nelle arti, musica, letteratura, pittura, in ogni campo». Lo stesso anelito che anima La trilogia del Cairo, unanimemente riconosciuta come il suo capolavoro. Non lo impensierisce il divario tra Occidente e Medio oriente che si è acuito dopo l´11 settembre. Non teme una nuova guerra di religione. «Sono ottimista, perché viviamo in una situazione di grande e grave disagio, in un temps maladive che io considero di transizione. Non appena riusciremo a curare la ferita, riprenderemo a conoscerci e non ci sarà più spazio per gli estremismi. Ci sono ancora paesi con pericolose velleità imperialistiche, ma come disconoscere che rispetto al tempo in cui noi eravamo occupati dagli inglesi abbiamo oggi un maggior livello di consapevolezza dei diritti civili e gli strumenti per combattere le ingiustizie contro i popoli: il Tribunale dell´Aia, il Consiglio di sicurezza dell´Onu, un intero apparato che vigila sui corretti rapporti e sulla comunicazione tra i vari governi?». Ai suoi avversari, i fondamentalisti, non è mai piaciuto il realismo di Mahfuz, il fatto che lo scrittore abbia elevato ad arte anche le miserie della piccola gente. Che abbia dato voce a prostitute e omosessuali (Vicolo del mortaio) e raccontato la storia di donne sfregiate da fidanzati gelosi e possessivi. Dopo la laurea in filosofia, prima di diventare scrittore a tempo pieno, Mahfuz ha lavorato a lungo in diversi uffici governativi. Dice: «Sono diventato un poeta perché sono stato impiegato. In certi periodi, è vero, mi sentivo intimorito dall´establishment, perché era impossibile lavorare lì e sentirsi libero. Ma nel momento stesso in cui ho deciso d´intraprendere la carriera di scrittore, ho messo da parte la paura. Non di rado ho attaccato il governo. Credo di averla passata liscia, perché nella politica di Nasser - che in un libro ho paragonato al faraone rivoluzionario Akhenaton - c´era l´intenzione di garantire un minimo di libertà di espressione. A volte hanno cercato di bloccare la mia penna, ma è stato solo come conseguenza del mio lavoro giornalistico, mai di quello di scrittore». Quando la malattia glielo permette, Mahfuz rispetta scrupolosamente la sua routine. Il sabato riceve gli amici, il martedì esce di casa e scende su un barcone a bere il tè. Gli amici lo aiutano a comprendere gli umori del popolo, la preoccupazione degli egiziani, diffidenti nei confronti del presidente Mubarak e allo stesso tempo preoccupati per il giorno in cui dovranno farne a meno. «La gente ha cominciato a disinteressarsi ai nomi», assicura, «pretende i risultati, è in grado di vagliare la politica dei leader. Io sono della stessa opinione: poco importa se un politico è carismatico, se poi è ingeneroso verso il proprio paese. Questo è il concetto su cui l´Egitto deve concentrarsi: cercare un uomo per il post-Mubarak che risolva i problemi del paese. Stiamo vivendo in un periodo protodemocratico, il futuro può essere solo la democrazia. Quando un popolo ha conosciuto la democrazia, non può più farne a meno. Forse oggi siamo più conservatori del 1919, ma come ho già detto considero questo un periodo di transizione. Persino i fondamentalisti hanno cominciato a promettere alla gente democrazia e libertà, pur nella stretta osservanza della religione. Questo vuol dire che senza sventolare questi principi nessuno vincerà mai le elezioni». Giuseppe Videtti