Vanity Fair 26/01/2006, pag.108-109 Fabrizio Rondolino, 26 gennaio 2006
Vanity Fair 26/01/2006. "Negli ultimi tempi l’attenzione della collettività australiana si è concentrata prevalentemente sulle questioni internazionali, prima fra tutte la guerra in Iraq
Vanity Fair 26/01/2006. "Negli ultimi tempi l’attenzione della collettività australiana si è concentrata prevalentemente sulle questioni internazionali, prima fra tutte la guerra in Iraq. Benché i sondaggi fra l’opinione pubblica mostrassero una diffusa opposizione a qualunque azione militare non approvata dalle Nazioni Unite, il primo ministro John Howard dispose uno ”schieramento preventivo” di truppe in Medio Oriente...". Comincia così la guida Lonely Planet dell’Australia – qui presa ad esempio di un’intera filosofia (di marketing più che di vita), poiché proprio l’Australia è la patria delle guide più fighette oggi in circolazione. A me sembra però un pessimo modo per cominciare: perché, con tutto il rispetto per l’opinione pubblica e gli istituti demoscopici australiani, non dovrebbe essere questo il punto fondamentale da cui partire. Se lo è, è perché Lonely Planet vuole presentarsi fin dall’inizio, e senza equivoci, come una guida "alternativa". Le origini, del resto, sono gloriose (Vanity ne ha parlato diffusamente due settimane fa) e sono parte integrante del mito. "La nostra storia – si legge in calce ad ogni esemplare di una qualunque guida Lonely Planet pubblicata in una qualsiasi lingua – inizia con un classico viaggio avventuroso: quello compiuto nel 1972 da Tony e Maureen Wheeler attraverso l’Europa e l’Asia fino all’Australia. All’epoca non esistevano informazioni su questo itinerario via terra, perciò Tony e Maureen pubblicarono la loro prima guida Lonely Planet dal tavolo della cucina...". Pare un incrocio perfetto fra l’epopea del garage di Steve Jobs e il Diario del "Che" in Bolivia: c’è l’intraprendenza e l’originalità, l’avventura e il business. E, soprattutto, la fedeltà agli ideali della gioventù: "Alcune caratteristiche delle guide non sono cambiate nel tempo e lo scopo principale di questi testi è tuttora quello di aiutare il viaggiatore avventuroso ad organizzare il proprio itinerario, esplorando il mondo per meglio comprenderlo...". Un tempo – più o meno quando i Wheeler fecero il loro "viaggio avventuroso" da Londra a Melbourne – si citava volentieri una vecchia frase di Carlo Marx, secondo cui "i filosofi finora hanno interpretato il mondo, ora si tratta di cambiarlo". La parafrasi, probabilmente involontaria, produce però uno slittamento decisivo, e dal "cambiamento" del mondo passiamo alla sua semplice "esplorazione" – naturalmente politically correct, perché, precisa ancora la Lonely Planet, "i viaggiatori possono dare un effettivo contributo ai Paesi che visitano, a patto che rispettino le comunità di cui sono ospiti e spendano accortamente il loro denaro". uno slittamento che dice qualcosa sulla parabola compiuta negli ultimi trent’anni dai movimenti giovanili e di protesta occidentali; e dice qualcosa, anche, sulle nostre ipocrisie. Concettualmente, la Lonely Planet non è diversa dalla Coca-Cola: è cioè un prodotto seriale, fabbricato secondo una ricetta prestabilita, e diffuso in tutti i Paesi del mondo con la stessa confezione (stessa copertina, stessi caratteri, stessa impaginazione). dunque un esempio riuscito, e assai redditizio, di globalizzazione. Fin qui nulla di male, anzi: la globalizzazione è la grande speranza del nuovo secolo. Più fastidioso, invece, il fastidio per la globalizzazione che le Lonely Planet trasudano quasi a ogni pagina. C’è qualcosa di truffaldino, o di furbetto, nello spacciare per "alternativo" ciò che invece appartiene a tutti gli effetti al cosidetto mass market. Un tempo le Lonely Planet ti raccontavano come trovare ospitalità in un villaggio andino o come fare l’autostop in Afghanistan; oggi, al netto dei capitoli un poco zuccherosi sulle culture indigene e di quelli assai sanguigni sui disastri provocati dall’uomo bianco, sono indistinguibili da una Fodor’s, la guida per eccellenza della middle class americana, per la buona ragione che i posti da vedere son sempre quelli. Così, la guida della California della Fodor’s include il lungomare di Venice dove i fricchettoni di tutto il mondo trascorrono il loro tempo fumando erba, bevendo birra e suonando i tamburi sulla spiaggia, proprio come negli anni Sessanta; mentre quella della Lonely Planet descrive con tanto di piantina del parcheggio le meraviglie di Disneyland, la città ideale maccartista. Bisognerebbe prenderne atto, e smetterla una buona volta di proporsi come "alternativi". Anche perché, a non farlo, si rischia il ridicolo. Nel paragrafo dedicato a Ayers Rock, il grande monolite rosso al centro del deserto australiano che gli aborigeni chiamano Uluru, la Lonely Planet dapprima spiega che "salire in cima alla roccia è una delle esperienze irrinunciabili per chi raggiunge il cuore dell’Australia, e per molti visitatori si tratta dunque di un rito iniziatico...". Benissimo: e adesso dimmi gli orari, se ci sono, e dove si parcheggia la macchina, e quanto dura la camminata... Invece la Lonely Planet prosegue annunciando che gli aborigeni "probabilmente vi chiederanno di non salire", perché "provate ad immaginare qualcuno che salga sull’altare della cattedrale di Notre Dame e capirete il punto di vista degli anangu. Si tratta dunque di una questione di rispetto". Anche del viaggiatore, però. Fabrizio Rondolino