Vanity Fair 26/01/2006, pag.74 Gabriele Romagnoli, 26 gennaio 2006
Vieri. Vanity Fair 26/01/2006. Christian Vieri è un fuggitivo. cresciuto in Australia da un padre italiano
Vieri. Vanity Fair 26/01/2006. Christian Vieri è un fuggitivo. cresciuto in Australia da un padre italiano. Ha giocato a rugby poi a calcio. Ha continuato a cambiare squadra. l’unico calciatore in attività (prima di lui, Aldo Serena) ad avere portato le maglie delle squadre rivali di Milano e Torino, più quelle di Ravenna, Venezia, Atalanta, Lazio, Atletico Madrid e, ora, Monaco. Non si ferma perché non ne è capace. A Kigali, capitale del Rwanda, la sera le strade sono piene di gente che va. Dove? Da nessuna parte, perché non c’è nessuna parte dove andare. Perché lo fate, ho chiesto. Perché un bersaglio mobile è più difficile da colpire, ha risposto uno che andava. Vieri è un bersaglio, per lo più di se stesso. Ha "ucciso" suo padre e non ha più avuto pace, ha trasformato la sua esistenza in una tournée circense, con esibizione di veline, chili di troppo, spot di troppo. Ha continuato a scappare per non affrontarsi e, una volta per tutte, sconfiggere anche se stesso, o quel che ne rimane. Questo non è un tentativo di inseguirlo (e chi mai vuole raggiungerlo?), ma solo di spiegarne il percorso. IL PECCATO ORIGINALE In nome del padre, come sempre. Il vero Bobo Vieri. Perché il padre si chiamava Roberto e Bobo veniva naturale, mentre da Christian ci arrivi solo se vuoi. E se lo fai è per appropriarti di qualcosa che non ti appartiene: il nome del padre, appunto. Roberto Vieri era un numero dieci, fin troppo. Inventava e sprecava. Allungava i capelli e abbassava i calzettoni. Sembrava sempre promettere qualcosa che non manteneva mai. Alludeva a una grandezza che non si manifestava. Non maturava. Semplicemente: non era lui il Vieri che avrebbe fatto sfracelli, era lì soltanto per aprire il cancello arrugginito dello stadio, controllare che ci fosse acqua nelle docce dello spogliatoio, pettinare il campo, riscaldare la curva e far entrare suo figlio. L’anno in cui concepì Christian giocava a Bologna. Io ero un ragazzino sugli spalti della curva Andrea Costa, con l’abbonamento nella tasca di una ridicola giubba mimetica da aspirante recluta dei "commandos". Sul prato il "10" rossoblù vagava distratto per tutto il tempo che ci metteva a ricordarsi chi era, quando lo faceva serviva un assist o segnava direttamente lui, poi tornava al suo smemorato destino. Se ne andò dopo che la sua donna ebbe partorito un piccolo gigante. Roberto Vieri non era un fuggitivo, ma un emigrante. Quando in Italia non riuscì più a sorprendere nessuno partì per l’Australia. Al giovane Christian mostrò un’eredità fatta di due possibilità. La prima era immensa: comprendeva l’oceano davanti alla baia di Sydney, i mille chilometri senza incontrare un topo da lì a Wagga Wagga, capitale dello sport australiano, la benedizione del distacco dal mondo. La seconda era minima: stava tutta in uno scrigno di ritagli del Paese vecchio, in cui il cognome di famiglia era accanto a cliché del tipo "genio e sregolatezza". Il ragazzo scelse la maledizione del ritorno, il miraggio del riscatto, si vide campione riconosciuto, come suo padre non era stato mai: ricco, famoso, meno geniale, più sregolato. Sfortuna volle che lo diventò davvero. Ci sono professioni che i padri consegnano ai figli per non disperdere un patrimonio. Di solito ottengono l’effetto contrario e rampolli che non hanno mai dovuto cercarsi una vocazione distruggono aziende inaffondabili e studi legali dall’ottima reputazione. Se la professione è un’arte, le conseguenze possono essere efferate. Solo per restare ai Christian: vogliamo considerare il figlio di De Sica? Ma la vera forma di parricidio consiste nel superamento del genitore. offuscandolo che lo si uccide. Cesare Maldini non si sarebbe mai ridotto a maschera di Teocoli, se non avesse dovuto alzarsi dalla panchina per frenare le corse sulla fascia di suo figlio Paolo, a ogni falcata più lontano dai confini della storia paterna. Che Christian Vieri sarebbe stato più forte del padre fu chiaro subito. Almeno a chi capiva di calcio. All’inizio degli anni Novanta vidi un giornalista sportivo di nome Gian Paolo Ormezzano, che nella sua categoria primeggiava per competenza, cortesia e fanatismo granata, tornare da un allenamento del Torino con le luminarie di Natale negli occhi. Disse: "Abbiamo un fuoriclasse: Vieri". L’allenatore Mondonico lo smentì non facendolo giocare perché troppo pesante. Poi, passato all’Atalanta, se lo fece comprare e lo lanciò, con effetti devastanti. Vieri andò alla Juventus e il gioco fu fatto. Gli restava soltanto la parte più difficile: diventare campione di sregolatezza. Sbattere contro un armadietto l’allenatore Lippi Marcello, attuale commissario tecnico della Nazionale che tanto vorrebbe lo portasse ai Mondiali, fu un ottimo inizio. Da lì in avanti era tutta discesa. L’ARTE DELLA FUGA Gli arabi dicono che a questo mondo le persone si dividono in due categorie: quelle che camminano senza sapere dove vanno e quelle che stanno ferme sapendo quello che aspettano. Del Piero, per esempio, appartiene alla seconda categoria. Non si muove dalla Juventus, piova o nevichi, gli facciano una statua o gli sputino addosso. Lippi lo fa giocare? Bene. Capello non lo fa giocare? Benissimo. Va dentro quando può e fa quel che deve. Sarà stata la pubblicità, ma ha imparato a farsi acqua, assumere una forma zen che neanche Roberto Baggio il buddista. Vieri, invece, è l’alfiere della prima categoria: quelli che vanno, a ramengo. Non gli piace la città? Va. Non gli danno abbastanza? Va. Non lo fanno giocare? Va. Ci voleva un genio dell’autolesionismo per passare la scorsa estate dall’Inter al Milan, rinnegando un pezzo di vita per chi la butta giù dura con le fedi, certo, ma soprattutto: se non giochi perché hai intorno Martins, come pensi di prendere il posto a Shevchenko? Lo sci non è il solo sport in cui la discesa sia un’arte, occorre sempre saper tramontare. Aiuta presentarsi leggeri all’appuntamento, guarda con quale grazia è volato via un fuscello come Zola. Ma bisogna anche sapersi accettare. Certo, Vieri è stato Vieri. Se va a rileggersi le omeriche sviolinate della stampa ai Mondiali di Francia e poi le bastonate alla schiena degli Europei del Portogallo, è scontato che dia di matto. A maggior ragione se capisce che deve lottare per un posto da riserva di Luca Toni. Luca Toni? La sua fidanzata dichiara: "Sto con lui da sette anni, quando era uno sfigato". Sette anni fa Vieri già stava con le meglio del bigoncio. Sette anni fa, quando Luca Toni segnò un gran gol e qualcuno lo propose come riserva di Vieri, i decani del giornalismo sportivo decretarono: "Andiamoci piano". Appunto: ci sono voluti sette anni per il sorpasso. Ma poi, ognuno ricomincia da sé. Vieri, invece, dal Principato di Monaco. una sindrome nota: non stai bene da nessuna parte perché non stai bene con te stesso. Continui a cambiare città, compagnie, apri un bar, chiudi un bar, inizi una storia, la spezzi sul nascere. Bologna, Torino, Roma, Milano, Madrid, Monaco. Non mi permetterei di dirlo, se non sapessi di che cosa parlo, se non fossi sceso e risalito a più di metà delle stesse stazioni sul percorso, senza mai aver capito dove stessi andando. Finché guardi Roberto Baggio e capisci. L’anno dei Mondiali di Francia (quando Vieri era re e Toni uno "sfigato"), Baggio si conquistò la convocazione giocando nel Bologna, nella città dove Vieri è nato, in una piccola squadra. Conta il momento, la condizione te la costruisci. Vuoi un posto ai Mondiali di Germania? Te lo conquisti dove sei. Sfonda la rete in allenamento e porta via la maglia a Gilardino. Usa il tuo quarto d’ora di ribalta come fa Del Piero, come faceva Altafini, infilati negli spiragli e spalanca la porta, quella che hai davanti, non cercarne un’altra più facile, solo perché più lontana, solo perché è un’altra. Alla fine del romanzo di Philip Roth Zuckerman scatenato un ragazzo chiede al protagonista: "E chi saresti tu?". Lui risponde: "Nessuno". E lo scrittore commenta: "Non sei più il figlio di tuo padre, non sei più il marito di una brava donna, non sei più il fratello di tuo fratello (che giocava nel Cosenza, ndr) e non vieni più da nessuna parte". Gabriele Romagnoli