[1] Paolo Franchi, ཿCorriere della Sera 21/12/2004; [2] Miriam Mafai, ཿla Repubblica 21/12/2004; [3] Maria Teresa Meli, ཿCorriere della Sera 21/12/2004; [4] Carlo Fusi, ཿIl messaggero 21/12/2004; [5] Concita De Gregorio, ཿla Repubblica 22/12/2004; [6, 21 dicembre 2004
APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 27 DICEMBRE 2004
Leadership: Prodi mena, ma non quanto il Cav.
Dunque non ci sarà lista unitaria dei riformisti della Gad, o come si chiama adesso, alle regionali d’aprile. Paolo Franchi: «S’è formalizzata la crisi di un progetto. Di un progetto, sarà bene non dimenticarlo, fortemente voluto da Prodi, che al suo ritorno in Italia ha anche cercato di rilanciarlo in extremis, nonostante il tempo, politicamente parlando, fosse ormai scaduto da un pezzo. quindi in primo luogo Prodi, il campione dell’Alleanza, ad aver subito una sconfitta grave». [1] Miriam Mafai: «Interessi personali e di partito, di cui è esempio il leader della Margherita Rutelli, piccoli protagonismi e ambizioni hanno reso impossibile una soluzione unitaria che qualcuno aveva giudicato, con un eccesso di ottimismo, a portata di mano, dopo il ritorno in Italia di Prodi». [2]
Che il listone non si facesse lo si sapeva da tempo. Maria Teresa Meli: «Piero Fassino lo aveva anche detto papale papale a un’assemblea del gruppo Ds una manciata di settimane fa: se quest’operazione non va in porto, pazienza, tanto la Federazione è nata perché ha ormai un comitato esecutivo che si riunirà ogni lunedì». [3] Carlo Fusi: «Il sostanziale accantonamento della lista unitaria alle regionali, era nell’aria. A ben vedere, a sfavore di Prodi ha giocato un elemento già emerso nel ’98, quando il suo governo cadde ad opera di Rifondazione comunista: l’impossibilità di poter contare su una propria formazione politica. Può apparire paradossale che chi si propone di superare le forme-partito poi abbia bisogno di averne una propria per realizzare i suoi propositi. Ma in politica il vigore si misura in base ai voti che si raccolgono nelle urne». [4]
Prodi se l’è presa soprattutto con la Margherita (Rutelli). «Se mi chiede quale sia il loro progetto, posso fare due ipotesi. Una è che pensino sia meglio avere un ruolo forte in un posto piccolo piuttosto che un ruolo paritario in un posto grande. L’altra è che non credano nel bipolarismo, e che pensino piuttosto di affrancarsi dalla sinistra per creare un grande centro, aspettando che i centristi di destra vadano da loro». Aspettando Casini e Follini? «Ecco appunto, non suona bene neanche a sentirla. Con alcuni dei centristi del Polo siamo stati giovani assieme: tutti quelli che ora sono a destra da ragazzi erano alla mia sinistra. Io ho tenuto ferma la barra, ho un percorso di coerenza. La Margherita è la mia casa, anche se non ho la tessera, e il padrone di quella casa è Rutelli. lui che decide, io ho sempre e solo detto: mi auguro che lo faccia per il meglio». [5]
Prodi non voleva rivitalizzare un’operazione politica ormai archiviata. Meli: «La drammatizzazione di questa vicenda, da parte di Prodi (e del fido Parisi), ha un altro obiettivo. Ossia, come spiega lo stesso ex presidente della Commissione Ue a sodali e colleghi, ”quello di non lasciare più nessun margine di ambiguità a Rutelli”». [3] Verderami: «A Rutelli ora è chiara l’operazione di Prodi. In realtà gli era chiara da tempo, da quando si rese conto che nei suoi confronti il Professore aveva iniziato a coltivare ”lo stesso sentimento che Chirac ha via via nutrito verso Sarkozy”, un impasto di umori caldi intessuti dal sospetto di tradimento, un groviglio di incomprensioni che è cresciuto fino a trasformarsi in convincimento». [6]
Se la Margherita andasse male alle regionali, Rutelli sarebbe costretto alle dimissioni. O almeno così sperano i prodiani. Meli: «A quel punto, a mo’ di salvatore non della patria ma della Margherita, giungerebbe il Professore. Che assumerebbe la guida del partito. [...] Ma non finisce qui. Secondo questo progetto la Margherita muterebbe fisionomia aprendosi a esponenti che nulla hanno a che vedere con la ”politica politica” come Soru o Illy. Per farla breve, il partito prodiano diventerebbe una sorta di Forza Italia del centrosinistra». [7]
Il modello cui si è ispirato Prodi per la sortita contro Rutelli è Berlusconi. Meli: «Il Cavaliere - è stato il succo del ragionamento dell’ex presidente della Commissione europea - ogni tanto dà ”due schiaffi” ai suoi alleati e la barca riprende ad andare. Effettivamente in questo modo il premier è riuscito a ricompattare la maggioranza e a legare a sé Fini e Follini. Ma a Prodi non è riuscito di fare altrettanto con Rutelli e Marini». [8] Cosimo Rossi: «Prodi ha dalla sua milioni di persone. E lo sa. Ma i prodiani di ogni provenienza sono quasi tutti soldati semplici. Sono fieri volontari pronti a mostrare il petto, a riempire le piazze e i girotondi all’arma bianca, ma inermi rispetto alla potenza dei cannoni di partito». [9]
Il nodo che non si riesce a sciogliere è sempre lo stesso da almeno cinque anni. Sergio Soave: «Se la prospettiva sia quella di un partito unico riformista o una intesa assai stretta ma tra partiti che continuano ad esercitare una propria sovranità. Quelli che nel frattempo sono cambiati sono i rapporti di forza interni. I Ds, dopo una serie di sbandamenti, sono tornati a essere un partito vero, organizzato, nazionale, mentre l’aggregazione della Margherita, che a un certo punto era parsa competitiva con la Quercia, non riesce a superare la sindrome da partito ”transitorio”, teorizzata da Parisi. In queste condizioni la prospettiva dell’unità sembra a molti destinata a tradursi in una rinnovata egemonia Ds, il che provoca reazioni identitarie di segno opposto. Finché sembrava che la sfida a una Casa delle Libertà in forte fibrillazione fosse una passeggiata, tutti questi quesiti sono sembrati secondari, nell’euforia dell’imminente vittoria. Quando però, con la Finanziaria, il taglio delle tasse e il rimpasto Berlusconi è tornato competitivo, le questioni irrisolte di architettura dell’alleanza di centrosinistra sono tornate in primo piano». [10]
Una strada si è chiusa, anzi, è stata chiusa. Franchi: «Il centrosinistra farebbe bene a chiedersi molto seriamente, e molto in fretta, perché il tempo stringe, e ne ha perso già troppo, se sia possibile riaprirla, o se occorra, in extremis, individuarne un’altra, sempre che esista. E a confrontarsi apertamente - ciascuno nel proprio partito e tutti insieme - con la propria gente. lecito dubitare che ne abbia la capacità e la forza. Ma, qualora non riuscisse a trovarle, sarebbe difficile dare torto a Massimo Cacciari, il più lucido dei suoi nel giudizio: il centrosinistra questo spettacolo rischia di pagarlo molto, molto caro, alle elezioni regionali, e anche alle politiche. Perché sembra si stia industriando a perderle entrambe». [1]
Occorre partire da un dato di fatto. Rusconi: «L’ipotesi strategica con cui Prodi è rientrato nella politica italiana è clamorosamente fallita. In poche settimane ha bruciato tutte le sue chances. Ha perso la partita nel peggiore dei modi: con la presunzione di avere già acquisito il consenso dei suoi partner di coalizione, quasi si trattasse soltanto di perfezionarlo tecnicamente. bastata la farsa dei nomi (Gad, Fed) per capire che il consenso dei vertici dei partiti federabili era solo strumentale al condizionamento della sua leadership. Ma una leadership condivisa è un controsenso». [11]
Qui viene a galla l’altro errore di Prodi. Rusconi: «Sembra convinto che la situazione odierna sia analoga, se non addirittura più favorevole di quella del 1996. Che basti orientare verso il suo nome tutte le forze di opposizione - e il resto verrà da sé. No. La congiuntura è cambiata. In particolare il centrosinistra si inganna grossolanamente sulla natura e le divisioni interne al centrodestra, che puntualmente trovano la loro soluzione nel ruolo di leader di Berlusconi». [11] Cacciari: «Piaccia o no, attraverso varie operazioni mediatiche e con tutto il suo peso finanziario, dall’altra parte Berlusconi è di nuovo in sella. Noi abbiamo perso due anni a inseguire i vari Casini, Fini, Follini. Loro hanno una capacità di metabolizzare le contraddizioni più devastanti: noi saremmo andati in tilt cento volte, di fronte alle provocazioni che lancia tutti i giorni la Lega a Berlusconi. Di fronte alla sua rimonta, stiamo rovinando l’atout fondamentale, Prodi». [12]
La leadership di Prodi pare indebolirsi. Se ce ne fosse bisogno, i Ds fornirebbero alla coalizione una candidatura alternativa? [13] Meli: «Il dirigente di Rifondazione aggancia D’Alema e comincia a parlare con lui. La prende alla lontana, ma poi arriva al sodo: ”La situazione è difficile, non è che voi pensate che a questo punto sia meglio candidare Veltroni?”. Il presidente della Quercia alza il sopracciglio, arriccia il baffo, sorride e replica con una battuta: ”Veltroni? Sarebbe come se io venissi da voi a proporvi di candidare Cossutta!”. L’esponente del Prc gira i tacchi e se ne va. Forse, se avesse parlato prima con qualche diessino avrebbe evitato quella domanda. Perché lo stesso interrogativo, ultimamente, è rimbalzato in più d’una conversazione tra i parlamentari della Quercia e D’Alema. E a tutti l’ex premier ha risposto così: ”Prodi non si tocca”». [7]
Hanno un’alternativa? Vadano avanti. Prodi: «C’è un altro candidato? Ottimo. Sono disposto ad appoggiare chiunque porti avanti il progetto unitario. Faccio un passo indietro, l’avevo già detto a Rimini: non resterò un minuto in più di quel che serve. Non ho un problema di leadership, davvero. Ho avuto tutto, in questo senso, dalla vita: sono stato presidente dell’Iri, del Consiglio dei ministri, della Comunità europea. Mi posso ben permettere di dire: o va avanti il disegno unitario o niente. un disegno storico: creare una solida base riformista che tenga insieme, in questo paese di clericali e anticlericali, i cattolici e i laici di centro e di sinistra. Un disegno grande, io credo un percorso inevitabile che prescinde dalle persone e dai loro interessi particolari». [5]
Prodi non vuole tirarsi indietro. Ma nemmeno fare il leader prestanome. Rossi: «Forse per questo evoca un’alternativa che tutti sanno essere Walter Veltroni. Che però non farebbe un passo contro di lui. che perciò viene probabilmente usato come minaccia: perché se altri facessero cadere Prodi, allora sarebbe lui a lanciare Veltroni a furor di popolo contro tutti, e i partiti, come capo indiscusso. Un capo che a Prodi tributerebbe l’onoreficenza del Quirinale, il colle più alto che il gioco politico vuole invece per Giuliano Amato». [14]
Quella minaccia è un incubo per tutti i primi attori che popolano i sogni di Prodi. Rossi: «D’Alema che in caso di vittoria punta alla presidenza della Camera o agli Esteri, Rutelli che chiede le stesse poltrone, Marini che pretende il Senato (malgrado Prodi voglia darlo all’opposizione), Fassino che si pensa adatto a fare il premier, ma soprattutto il dottor Sottile. Amato non è nelle grazie del professore, ma se vuole davvero chiudere un patto sul suo destino da capo dello stato potrebbe impegnarsi lui a fare da ”interfaccia” con le gelosie di partito, questo si comincia a pensare a Bologna». [14]
Il vecchio centrosinistra aveva una nozione di sé infinitamente più forte e più alta del centrosinistra contemporaneo. Ezio Mauro: «Tutto questo determina una sensazione doppia di vita artificiale. Da un lato, l’idea che sia solo Berlusconi a tenere insieme identità tra loro difficilmente omologabili, o comunque incapaci di creare un’identità nuova. Dall’altro, l’immagine di un apparato staccato da un’identità incarnata nel Paese, che vive solo negli spezzoni dei telegiornali, attorno a tavoli con bottiglie d’acqua minerale, sotto le immancabili luci al neon. Una sinistra al neon, convinta che basti riunirsi una volta alla settimana per esistere, che sia sufficiente apparire nei tigì per parlare al Paese, che basti contrapporsi a Berlusconi (negli intervalli delle riunioni di autoanalisi) per coltivare la nozione di riformismo». [15]
Chi si ricorda più, esattamente, perché Rutelli ce l’ha con Prodi? E viceversa. Filippo Ceccarelli: «E chi potrebbe spiegare cosa, precisamente, pensano Fassino e D’Alema l’uno dell’altro, e cosa di Prodi, di Rutelli e anche di Veltroni? Quanto è implacabile e sconsolata l’ostilità tra Marini e Parisi? Da dove nasce l’odio livido e scurrile tra Mastella e Rosi Bindi? Chi non ha mai perdonato Bertinotti? E quante diffidenze per Amato, quanta sufficienza per Epifani, quanta ipocrisia con i girotondi, quanto disprezzo per Di Pietro, insomma quanto malanimo tocca registrare in quel campo di battaglia di tutti contro tutti che è diventato l’Ulivo! Forse non c’entra nemmeno più la politica. Fra dispetti e sferzate, avversioni e risentimenti questa sembra aver perso ormai il suo fine originario, si è come disintenzionalizzata». [16]
Il centrosinistra si perde nel fumo della propria inconsistenza politica. Gabriele Polo (’il manifesto”): «L’aver puntato tutto sul suicidio del Cavaliere, concentrandosi sulla ricerca delle stabilità interna a scapito dei contenuti, lasciati sullo sfondo come un optional da proporre nell’ultimo mese di campagna elettorale, è stato l’errore di fondo in cui si continua a persistere. Alla base c’è un vuoto d’identità, frutto di anni di dismissioni culturali, di incapacità d’ascolto della società, di autonomia della politica, di accomodamento nella bambagia del pensiero (si fa per dire) liberista». [17] Mauro: «Quando non è l’identità che dà risposte ai problemi, ogni problema ha tante soluzioni quante sono le culture di origine che si radunano attorno a quel tavolo, come le tribù. I partiti sono culture politiche, o almeno le elaborano tra tradizione e modernità, valori e interessi legittimi: le tribù no. Il risultato è ancora una volta una vita spostata, nella continua attesa di un momento ”x”, che verrà un giorno a liberare la sinistra dal suo incantesimo, portandola a vincere. Come se la partita non si giocasse oggi, tutta oggi, in termini di credibilità e di costruzione di sé. La campagna elettorale non crea identità da sola, nemmeno la vittoria, e neppure il governo. Figuriamoci l’antiberlusconismo». [15]