Stenio Solinas il Giornale, 12/12/2004, 12 dicembre 2004
Céline bruciò ventisette vite per riscrivere l’ambigua epopea di se stesso, il Giornale, 12/12/2004 Il più antico e più conosciuto bouquiniste specializzato su Céline si chiama André Bernot e ha la sua bancarella dell’usato al numero 1 di Quai de Grands Augustins, alla sinistra del ponte che collega place Saint-Michel alla Cité
Céline bruciò ventisette vite per riscrivere l’ambigua epopea di se stesso, il Giornale, 12/12/2004 Il più antico e più conosciuto bouquiniste specializzato su Céline si chiama André Bernot e ha la sua bancarella dell’usato al numero 1 di Quai de Grands Augustins, alla sinistra del ponte che collega place Saint-Michel alla Cité. «D’un livre l’autre», la libreria che già nell’insegna parafrasa il titolo di uno dei suoi romanzi, è in rue Bréa, lì dove boulevard Raspail incrocia boulevard Montparnasse, e il nome del suo proprietario, Emile Brami, è spesso citato nei ringraziamenti degli studiosi di opere celiniane. In rue Bleue, al numero 9, nel IX Arrondissement, c’è invece il Fondo Céline: libri, tesi, ritagli stampa. La villa di Meudon, che andò distrutta dopo la sua morte da un incendio, ed è stata poi ricostruita, è in rue de Gardes 25 ter, sulla strada che va a Versailles. Allora era campagna, oggi è città. Quando Céline vi mise piede, nel 1951, e dopo cinque anni fra prigionia ed esilio in Danimarca, la Parigi che aveva tanto amato, Montmartre e la sua Butte, gli apparve talmente cambiata da fargli orrore: «Il superfluo è tutto a credito, l’auto, le vacanze, la Costa azzurra... Non si può più circolare. un garage. Le auto sui marciapiedi... il sesso interessa solo ai turisti, i franzosi vogliono e hanno avuto, frigoriferi, appartamenti, lavatrici, tutto per il materiale». Una dozzina di anni fa Jack Lang, ministro della Cultura, pensò di farla classificare come monumento storico. La sollevazione della comunità ebraica e delle associazioni resistenziali lo costrinse a fare marcia indietro. Sarà stato anche uno scrittore, era il messaggio, però rimane un nazista. In compenso, una stazione della metropolitana è intitolata allo stalinista Louis Aragon. In rue Girandon 12, non lontano dal Sacro Cuore, c’è l’ultimo domicilio conosciuto di Céline ante e durante la guerra. davanti all’atelier di pittura del suo amico e complice Gen Paul, specialista nella caricatura di Hitler nelle serate di baldoria, e a due passi dall’abitazione di Marcel Aymè, l’autore del Passamura, la cui silhouette dipinta ti può capitare di incontrare lungo la strada. Quando Céline sfonda in letteratura ha quasi quarant’anni e almeno due vite alle spalle: è invalido di guerra, è stato in Africa a cercare fortuna, ha lavorato per la Società delle Nazioni, ha sposato una borghese benestante figlia di un medico di successo, ha avuto una figlia, si è laureato in medicina, ha divorziato, esercita la professione in un dispensario di Clichy. «La mia vita è terminata» scrive a un’amica nel 1933. «Io non debutto, finisco in letteratura, v’è una bella differenza. Le mie vite, dovrei dire, perché, per quanto ne so, ne ho già avuto tre o quattro». La letteratura gli dà ancora una chance, la guerra gliela brucerà, il dopoguerra vedrà la morte e la risurrezione di un uomo che si annulla nello scrittore, di uno scrittore che puntigliosamente fa passare nei suoi romanzi quelle idee e quel pensiero che gli sono valsi l’ostracismo. In una sola biografia, in pratica, c’è materia, come per i gatti da lui tanto amati, per almeno sette vite. Sui banconi delle librerie fanno in questi giorni bella mostra di sé tre nuovi saggi, usciti in contemporanea, su quello che per molti è il più grande scrittore del Novecento. Il primo si intitola Céline et la Grande Mensonge (Mille et une nuits editore, 219 pagine), l’autore si chiama André Rossel-Kirschen, e più che un saggio critico è una requisitoria ideologica. Finto medico, finto pacifista, nazista per soldi, vero opportunista, è il succo. Il secondo, Images d’exil (Du Lerot editore, 424 pagine) di Eric Mazet e Pierre Pécastaing, copre gli anni dal 1945 al 1951 e mette in fila lettere, fotografie, interviste e documenti riguardanti il periodo danese e tutti i protagonisti a esso legati, avvocati e ministri, amici e nemici, parenti e semplici conoscenti. Nel solo periodo dell’esilio Céline scrisse qualcosa come quattromila lettere. Il terzo è il Dictionnaire Céline (Plon editore, 878 pagine) di Philippe Alméras, già autore qualche anno fa di un’importante biografia in tema (Céline, nella traduzione italiana, Corbaccio editore). Dalla A di Abetz, ambasciatore tedesco nella Parigi occupata, alla Z di Zouloaga, diplomatico spagnolo nello stesso periodo, è il racconto, in ordine alfabetico, con testimonianze incrociate, citazioni dai romanzi e dai pamphlet, brani di lettere, memoriali, confronto di date e fatti, di un’esistenza più che plurima. Perché se noi ci siamo accontentati delle sette vite alla maniera dei gatti, Alméras ne ha contate addirittura ventisette, fra cui il bambino del Passage Choiseul, lo studente di lingue in Germania e in Inghilterra, l’apprendista venditore di commercio, il corazziere di Rambouillet, il combattente dell’agosto 1914, l’agente consolare a Londra, il colono del Camerun, l’aspirante giornalista di ”Eureka”, il propagandista per la fondazione Rockfeller, il medico in consultorio, il rappresentante di prodotti farmaceutici, l’autore del Voyage, il profeta del 1940-44 che vede avverarsi le sue profezie, l’emigrato in Germania e poi in Danimarca, il prigioniero della Vestre Faengsel, l’uomo di campagna suo malgrado di Korsør, l’autore di un rientro sulla scena letteraria tenacemente perseguito e finalmente raggiunto... Il dizionario di Alméras è uno strumento essenziale per addentrarsi nella biografia celiniana, perché di rado in una sola persona è dato trovare una tale capacità affabulatoria e bugiarda, sempre tesa a distorcere la realtà, a forzare la verità, a riscrivere la vita; la propria, quella altrui. Un fiume in piena di bugie, così si presenta la sua autobiografia. Di estrazione piccolo-borghese, con tracce pregresse di nobilato locale, fra i quali i Des Touches del cavaliere omonimo celebrato da Barbey d’Aurevilly, eccolo costruirsi un’identità proletaria e/o popolare: scrittore del popolo, figlio del popolo, voce del popolo. E certo, di povera gente, di emarginati, di sfruttati, di operai e di falliti, di miserabili ha avuto frequentazione: li ha incrociati da ragazzino, li ha avuti commilitoni da soldato, come compagni di lavoro in Africa, come pazienti nel dispensario di Clicy. Li ha conosciuti, li ha studiati e li ha registrati nel grande libro della memoria, ma non è mai stato uno di loro. Invalido di guerra, potrebbe orgogliosamente mostrare le sue mutilazioni, le decorazioni, gli articoli di stampa per raccontare il suo coraggio. Non gli basta: al braccio martoriato deve aggiungere una trapanazione del cranio mai avvenuta; e trasformare, lavorando di colla e forbici, resoconti giornalistici in copertine a lui dedicate. Medico di base, non sa resistere all’idea di arricchire il proprio curriculum con esperienze presso le officine Ford, negli Stati Uniti, da lui appena visitate. E dietro il clichè del «dottore dei poveri» fatica a scomparire il bell’uomo alto un metro e ottanta, che indossa abiti di buon taglio e stoffa inglese, biondo e con gli occhi azzurri, che conosce il mondo e il bel mondo, uno che a Ginevra come a Vienna, a New York come a Londra, sa dove andare, come muoversi, cosa vedere, a proprio agio con pianiste come Lucienne Delforge, scultrici come Louise Nevelson, figlie della buona borghesia di provincia come Edith Follet, la sua prima moglie. La falsificazione, meglio, la riscrittura di se stesso è sistematica, non riguarda solo pubblico e critica, ma avvolge amici e parenti. Il passaggio dalla Germania in fiamme alla Danimarca dove rimarrà intrappolato, dura tre giorni. Ma nel raccontarlo a interlocutori fidati, eccolo trasformarsi in un’epopea di tre settimane. L’arresto nella casa di Karen Jansen, l’amica danese che lo ospiterà a Copenhagen, un modesto episodio di polizia, con Ferdinand che non apre perché teme che dietro la porta ci siano dei comunisti venuti per assassinarlo, diventa una sorta di Helzapoppin sui tetti, lui, Lucette e il gatto Bebert in fuga fra lucernai, proiettili che fischiano, urla, minacce... L’amico Robert Poulet chinerà pietoso il suo sguardo su quella povera testa di trapanato di guerra: perché Ferdinand è riuscito a convincerlo di una cicatrice che non c’è... Il gioco del vero-non vero, del verosimile che si trasforma in reale, del reale che diviene inesistente, tiene botta anche di fronte all’accusa che nell’immediato dopoguerra lo bolla a fuoco: collaborazionista. Sulla base di documenti, ricerche d’archivio, riscontri incrociati, epistolari rimasti a lungo sepolti, sappiamo che quella qualifica era pertinente. Céline «collaborò», non si limitò a scrivere qualche lettera ai giornali: rivendicò l’aver capito prima degli altri il disastro che si preparava per il suo Paese; rivendicò l’aver chiesto un’alleanza franco-tedesca; rivendicò la necessità di uno scontro all’ultimo sangue contro bolscevismo e democrazie liberali; rivendicò una linea di condotta decisa contro gli ebrei; auspicò una Francia razzialmente pura, nordica, separata geograficamente dal suo sud meticcio e mediterraneo... Scelse con attenzione i giornali dove far apparire le sue provocazioni, ne seguì la pubblicazione, se ne ebbe a male quando qualche frase troppo forte gli venne tagliata, polemizzò aspramente, partecipò a conferenze, ebbe contatti con le autorità tedesche. E però aveva qualche fondamento di verità la sua linea di difesa del «non aver collaborato». Perché non fu nel libro-paga di giornali o movimenti, perché la critica militante nazista trovava troppo nichilista il suo pensiero, perché in sedute conviviali più o meno pubbliche la sua verve esplodeva sinistra, prefigurando rese dei conti epocali, perché si adoperò per salvare qualche vita e omise di denunciare qualche gollista poco smaliziato, e perché alla fine sembrò che con i tedeschi avesse fornicato solo lui... Il Céline che nell’estate del 1951 rientra in Francia dopo cinque anni di esilio forzato in Danimarca, inaugura l’ultimo, geniale, travestimento, l’ultima grande interpretazione di uno scrittore risentito contro tutto e tutti, pieno di rabbia verso il suo Paese eppure troppo francese per potersene separare. Anche qui, il personaggio che dopo la «quarantena» di qualche anno riprenderà a tenere banco fino alla morte, è in parte vero e in parte costruito, frutto di un accurato dosaggio di verità e finzione. Certo, in terra danese Céline ha sofferto, è stato imprigionato, si è ammalato, il fisico non ha retto e il vigore e la baldanza di prima della guerra sono un tenue ricordo. Eppure, se si va a fare un conto spassionato, di galera vera ha fatto sei mesi, i restanti li ha passati in ospedale... Certo, è un uomo economicamente rovinato... eppure la villa di Meudon dove va a vivere viene a costare due milioni e passa di franchi dell’epoca (pagati vendendo le proprietà che la moglie ha avuto in eredità), Gallimard gli garantisce un anticipo pari a duecentomila euro, circa, di oggi, l’oro che lo ha preceduto nella fuga e che non è stato requisito dai tedeschi gli ha consentito di sopravvivere e pagarsi più di un avvocato... Di nuovo, insomma, il confine fra realtà e finzione è incerto, nebuloso, fonte di errori. Chi è portato al compatimento si ritrova spesso e volentieri scavalcato dall’accorgersi che l’oggetto compatito in realtà calcola, sorveglia, non sbaglia una mossa. Chi vorrebbe smascherare il vecchio gigione, scopre orgogli inaspettati, nobiltà di comportamenti, suprema indifferenza per «valori» allora (come oggi) alla moda: il successo, gli agi, le comodità... Il dizionario di Alméras, così come le Images d’exil di Mazet e Pécastaing danno conto di questo caleidoscopio di verità e menzogna, grandezze e miserie, laddove il pamphlet di Rossel-Kirschen resta inchiodato in una battaglia ideologica di retroguardia che mira ad infilzare un’immagine scomparsa da anni, una sorta di bersaglio polemico che nessuno studioso serio prende più in considerazione. In più, nell’allineare parole e pensieri celiniani che abbracciano, lo abbiamo visto, più vite, i due primi saggi riportano in superficie giudizi, considerazioni, illuminazioni che da soli valgono il piacere della lettura [...]. Nel 1947 un giornalista del ”Figaro Littéraire” che ne critica la crudezza del linguaggio, e ne parla comunque come di «uno scrittore del tutto dimenticato», riceve questa sua lettera: «Ma no, dannato vecchio stronzo, non è di volgarità che si tratta... Dire merda è niente, prendervi a calci nel culo, poca cosa, ma far passare tutto questo nella scrittura, ecco l’astuzia, l’impressionismo! Ah come siete lontano dal problema. Forza, fate delle liste nere! di proscrizione! denunciate, sbirronate, impiccate, imprigionate! Solo questo sapete fare». Scriveva così dall’esilio, da sconfitto, da proscritto. Si capisce cosa abbia potuto scrivere quando si illudeva di poter vincere... Stenio Solinas