Marco Valsania Il Sole-24 Ore, 15/12/2004, 15 dicembre 2004
Paperopoli e Topolinia alla sbarra, Il Sole-24 Ore, 15/12/2004 I loro nomi dicono poco o nulla. William e Geraldine Brehm, piccoli azionisti come tanti
Paperopoli e Topolinia alla sbarra, Il Sole-24 Ore, 15/12/2004 I loro nomi dicono poco o nulla. William e Geraldine Brehm, piccoli azionisti come tanti. Di una grande azienda come tante. Anche il loro gesto vanta definizioni men che eroiche: è battezzato, nell’oscuro gergo legale, semplicemente derivative litigation: azione legale derivata. Tantomeno è memorabile il palcoscenico dove si svolge il dramma di cui sono tra i protagonisti: una minuscola aula di Tribunale di Georgetown nel Delaware, un paesino di forse cinquemila anime. Ma i Brehm hanno già fatto storia: la loro denuncia - capofila di altre - ha messo all’angolo uno dei marchi simbolo degli Stati Uniti, la Walt Disney Company, o meglio i suoi vertici. A loro chiede 200 milioni di dollari di danni per una delle disavventure più costose nella recente storia dei consigli di amministrazione americani: l’assunzione e il licenziamento di un top executive - Michael Ovitz chiamato a metà anni 90 per diventare il vice dell’amministratore delegato Michael Eisner - con un contratto che gli ha fatto incassare oltre 140 milioni di dollari per 14 mesi di lavoro, oltretutto impiegati in spese folli e litigi interni. L’epica battaglia legale, cominciata il 19 ottobre, non ha ancora un verdetto: gli eserciti di avvocati e testimoni illustri che hanno sfilato davanti al giudice – da Eisner a Ovitz, al presidente di Disney, nonché illustre ex senatore democratico, George Mitchell - dovrebbero lasciar spazio ad altre settimane di schermaglie in un’aula di Tribunale che, fisicamente, può ospitare solo una manciata di spettatori. Ma le cui mura non hanno potuto contenere l’eco nazionale del processo, con le udienze trasmesse quotidianamente via Internet. Un processo la cui onda d’urto è ormai certa al di là di giudizi di colpevolezza o innocenza: sotto processo - fatto più unico che raro - sono finiti i membri del board non per reati tradizionali, ma per violazioni etiche delle loro responsabilità statutarie nei confronti degli azionisti nella gestione dell’affaire Ovitz. Le ripercussioni già gelano il dibattito sulle remunerazioni dorate spesso concesse ai grandi dirigenti. E non solo: minacciano di estendere le responsabilità legali, oltreché morali, dei consigli di amministrazione. La possibilità di valanghe di simili denunce che chiedano danni ai directors, imponendo nuovi criteri di attivismo, controllo e indipendenza di giudizio, spaventa la corporate America. Le derivative litigation potrebbero diventare più semplici ed efficaci delle class action, le più note azioni collettive, perché i danni non vengono chiesti per rimborsare gli investitori, bensì per restituire soldi all’azienda stessa. Sicuramente, fin da subito, hanno moltiplicato le domande di polizze assicurative per coprire i rischi finanziari ora associati con le poltrone nei board. Il rilievo del caso, oltretutto, è evidenziato da un’altra sorpresa di natura logistica. Il sistema della chancery court del Delaware - le speciali corti dedicate a dirimere simili casi aziendali - è un improbabile strumento per l’assedio a Disney. «I board si sono resi conto di essere vulnerabili - ha sostenuto Samuel Hayes, della Harvard Business School - non solo all’imbarazzo, ma nel rispondere di responsabilità concrete». Per Nell Minow, della Corporate Library, «il caso potrebbe avere effetti sismici. L’unico gruppo che finora era stato risparmiato da significative complicità negli scandali è quello dei componenti del board. In assenza di episodi di aperta corruzione, la loro messa sotto accusa appare senza precedenti». Il tortuoso percorso della vicenda legale tradisce a sua volta l’elevata posta in gioco: in sette anni la denuncia - datata 1997 - era stata prima cancellata in appello e poi ripristinata dalla Corte suprema del Delaware. Perché le accuse spurie contenute nell’iniziale denuncia, che avevano indotto al suo rigetto, non inficiavano infatti «i meriti di un caso inquietante»: ovvero le accuse di «superficiale e inadeguata» performance del consiglio di amministrazione nella vicenda Ovitz, che può «difficilmente essere considerata un paradigma di buone pratiche di governance». Accuse aggravate dalle «dimensioni stesse» della buonuscita ricevuta da Ovitz che impedisce agli stessi magistrati di «avere rispetto della capacità di giudizio dei membri del board nel prendere decisioni sui compensi». Le lezioni della vicenda sono però anche quelle dei grandi melodrammi. In aula è spesso rievocato lo scontro di grandi ego e ambizioni titaniche, spesso parse sfuggire a ogni controllo - da quelle di Eisner a quelle di Ovitz. In un clima reso ancor più incandescente da forti sentimenti - amicizia e tradimento, lealtà e cospirazioni - nel rarefatto universo dei piani alti d’una regina della corporate America. Un melodramma che ha aperto una finestra impietosa sui rischi e gli eccessi della stagione del management imperiale soggetto a scarse verifiche, spesso denunciati ma mai esposti così in dettaglio, neppure dall’esplosione degli scandali per truffa alla Enron. Ovitz arrivò alla Disney nel 1995, poco dopo la scomparsa del fidato vice di Eisner, Frank Wells, in un incidente aereo. Eisner, che aveva restituito smalto a un società reduce da gravi crisi, sentiva su di sé la pressione di trovare un nuovo top executive che allontanasse il sospetto di una gestione autoritaria e arbitraria. E che esorcizzasse inoltre i dubbi legati alla sua salute: era reduce da un intervento di triplice bypass al cuore. Ovitz, agente delle stelle di Hollywood e fondatore della Creative Artists Agency, nonché amico di lunga data, sembrava fare al caso suo. Ben presto, però, i rapporti tra i due si logorarono fino alla cacciata di Ovitz, incapace di integrarsi nei vertici di una grande azienda. La lettera di licenziamento fu spedita nel dicembre 1996. Nel frattempo gli eventi avevano posto i semi della futura denuncia: il board aveva pedissequamente assecondato la volontà di Eisner senza interrogarsi sulle qualifiche di Ovitz. Aveva accettato senza esaminarlo anche il contratto preparato dall’avvocato di Eisner nonché membro del board, Irwin Russell, che per questo venne pagato 250 mila dollari. Un contratto che, appunto, avrebbe offerto a Ovitz un paracadute dorato, imponendo soprattutto il riscatto di opzioni in caso di esautoramento senza giusta causa, la formula poi adottata. L’enorme errore di giudizio nell’assunzione dell’ex superagente - ha svelato il processo - divenne palese a tutti in azienda: Eisner si rifiutò fin dai primi giorni di appoggiare Ovitz davanti alle ribellioni di altri dirigenti. E dopo pochi mesi cominciò a orchestrarne la cacciata, una manovra culminata in una rocambolesca convocazione del consiglio di amministrazione che vide all’opera girandole di sotterfugi: una riunione plenaria seguita da una seconda dedicata a presentazioni strategiche, entrambe alla presenza di Ovitz confermato formalmente nel board. Ma, durante la distrazione delle presentazioni, avvenne un terzo incontro a porte chiuse tra Eisner e selezionati membri del board per concordare in segreto il licenziamento. Durante la breve avventura alla Disney, Ovitz aveva visto la propria credibilità precipitare per le proprie azioni, oltre che per le polemiche intestine. Le sue stravaganti spese divennero leggendarie, a cominciare da un rifacimento del suo ufficio costato due milioni di dollari. Messaggi scambiati fra Eisner e i suoi collaboratori descrivono Ovitz come poco meno che un malato di mente e un bugiardo patologico, incapace di dirigere attività aziendali. Ugualmente Eisner e il board decisero di non invocare la giusta causa per cacciarlo. Sul comportamento di Ovitz è dunque fondata parte della denuncia degli azionisti: il board è accusato di inaccettabile leggerezza non solo nell’aver approvato l’assunzione, ma anche nell’aver accettato le modalità del licenziamento più onerose per l’azienda. Nell’aula del Delaware, la colpevolezza dell’allora consiglio di amministrazione della Disney resta da dimostrare. Neppure una sconfitta dei querelanti, però, potrebbe spezzare l’assedio ai board della corporate America. «Il fatto stesso che il caso sia andato avanti rappresenta un precedente - ha detto Charles Enson del centro di Corporate governance dell’Università del Delaware - sufficiente a creare uno spartiacque tra prima e dopo il caso Ovitz». Marco Valsania