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 2006  gennaio 16 Lunedì calendario

In principio fu un solo Verbo poi vennero tutte le lingue. Corriere della Sera 16/01/2006. La partecipazione di collaboratori e allievi di Noam Chomsky al primo Festival delle Scienze di Roma, che inizia oggi e si protrae per l’intera settimana, è degna di nota

In principio fu un solo Verbo poi vennero tutte le lingue. Corriere della Sera 16/01/2006. La partecipazione di collaboratori e allievi di Noam Chomsky al primo Festival delle Scienze di Roma, che inizia oggi e si protrae per l’intera settimana, è degna di nota. Con gioia di molti e (immagino) con perplessità di alcuni, sono infatti di scena (termine che va preso alla lettera, trattandosi della Sala Sinopoli dell’Auditorium del parco della musica) non solo linguisti italiani di rinomanza internazionale, come Luigi Rizzi dell’Università di Siena e Gennaro Chierchia della Bicocca di Milano (e adesso professore ad Harvard), ma anche l’ormai celeberrimo Steven Pinker (Harvard), un tempo chomskiano di ferro e adesso dissidente, e i recenti coautori di Chomsky Marc Hauser (Harvard) e Tecumseh Fitch (St. Andrews). Domenica prossima, alle 18, Hauser ed io, sotto la bacchetta moderatrice del filosofo Marco Santambrogio (un tempo allievo prediletto, a Oxford, del formidabile logico Michael Dummett, un critico di Chomsky), presenteremo e discuteremo la più recente freccia nella faretra del grande linguista del Mit, cioè un programma di ricerca chiamato, letteralmente, «minimalismo». L’idea centrale del minimalismo è che l’apparato mentale e cerebrale specializzato nel linguaggio sia ultra- ristretto, un modulino minimo, appunto, ma efficientissimo, anzi perfetto, più simile a un cristallo di neve che non a una cattedrale della mente. Intorno alla fine degli anni Ottanta, Chomsky e colleghi (già allora alcune centinaia, sparsi ai quattro angoli della Terra, tra cui una ventina di italiani) avevano scoperto, dopo circa trent’anni di lavoro, un ristretto arcipelago di moduli sintattici distinti, che tutti abbiamo dentro la testa fin dalla nascita, e che, lavorando insieme presto e bene, generano le straordinarie complicazioni della sintassi. Questa teoria, detta «Gb» (non vuol dire Gran Bretagna ma Government and Binding) è oggi considerata un classico. Essa ci dice che ciascun modulo si incarica di analizzare alcune componenti distinte della frase, in infinitesime frazioni di secondo. Il tutto viene poi mentalmente ricomposto e la frase intera esce dalla bocca del parlante per entrare nell’orecchio di chi lo ascolta, equipaggiato da madre natura con gli stessi moduli, percolando poi, in frazioni di secondo, su su, fino al pensiero. il risultato di questo fine lavoro mentale a dirci che è buona, per esempio, la frase «Tuo fratello, a cui mi domando che storie abbiano raccontato, è molto preoccupato», mentre ci dice che non va bene la frase «Francesco, che non immagino quanta gente domandi perché hanno mandato, è uscito di casa». Si capisce cosa vuol dire, ma non è una frase sintatticamente ben formata. Due linguisti del Mit, Robert Berwick e Sandiway Fong, alcuni anni fa, hanno costruito un’elegante simulazione della «Gb» in un calcolatore, riproducendo questi moduli e il loro sistema di connessioni. In questa loro macchinetta, premendo opportuni bottoni, si possono escludere a piacere uno o più moduli. Per esempio, se blocchiamo proprio un modulo sintattico individuato da Luigi Rizzi in lavori pionieristici alla fine degli anni Settanta, ambedue le frasi appena viste vengono considerate buone. Quando lo si riattiva, il computer diventa più simile a un normale parlante dell’italiano, e quindi accetta la prima, mentre rifiuta la seconda. Ma il più bello di questa teoria è che le molteplici differenze tra le lingue (italiano, cinese, swahili, ecc...) sono tutte riconducibili a infime variazioni nel modo in cui i diversi principi che governano i diversi moduli, comuni a tutte le lingue e dialetti, agiscono sulla materia specifica delle diverse lingue (parole, desinenze, accordo tra verbo e soggetto e così via). In quella loro macchinetta, Berwick e Fong possono anche manipolare a piacere un pannello di interruttori e vedere di colpo la macchina accettare come buone, o rigettare come cattive, correttamente, frasi dell’inglese, del cinese, dell’italiano. Occorre anche fornirle, ovviamente, i relativi lessici. Secondo la «Gb», gli equivalenti cerebrali e mentali di quegli interruttori, chiamati in gergo parametri, sono anch’essi nella nostra testa, dentro ai moduli, e ciascuno di noi li ha posizionati, senza nemmeno accorgersene, fin dalla più tenera infanzia, nella specifica configurazione propria alla nostra lingua. Una teoria molto raffinata, questa «Gb», e che funziona assai bene. La si insegna ancora correntemente come introduzione al minimalismo. Alcuni linguisti che hanno contribuito a costruirla, come Steven Pinker e Ray Jackendoff, implorano che ci si fermi a questa. Ma Chomsky e altri sommi linguisti, al volgere della metà degli anni Novanta, non si sono accontentati di conservarla e affinarla. Hanno voluto fare di più, ben di più. Hanno voluto passare dalla pur bella cattedrale «Gb» al cristallo minimalista. Si sono chiesti, insomma, se quei moduli e quei principi, pur corretti, non discendano da qualcosa di molto, molto più semplice, da una radice minima ancor più profonda. In circa quindici anni hanno così dato vita a un programma di ricerca arduo, pieno di fermenti e controversie, in pieno svolgimento. Aggiungiamo che questo strenuo sforzo di minimalizzazione è proprio nello spirito di questi anni, dato che un pugno di lavori recenti e recentissimi nelle neuroscienze sta mostrando che aspetti centralissimi della struttura e dell’evoluzione del cervello si sottomettono anch’essi, guarda caso, a teorie unificatrici minimaliste, simili a quelle della fisica e adesso della linguistica. Facendo l’avvocato del diavolo, chiedo a Chomsky che cosa risponde a critici come Pinker e Jackendoff, i quali sostengono che la mossa minimalista è un bel sogno, ma solo un sogno, perché le operazioni mentali che sottendono il linguaggio sono cosa troppo pasticciata per essere spiegabili da pochissimi principi di base. Mi dice: «Questa è un’affermazione priva di senso. La storia delle scienze mostra che, all’inizio, ogni tipo di fenomeni sembra pasticciato e impossibile da ricondurre a spiegazioni profonde e unificate. Ancora mezzo secolo fa molti studiosi sostenevano che le lingue differiscono tra di loro al di là di ogni limite. C’è voluto un cambiamento di direzione molto drastico per scoprire i tratti comuni a tutte le lingue, lavorando ben al di sotto delle apparenze. Come Galileo per primo intuì, ma non poté allora dimostrare, la natura, invece, è semplice ed elegante. Dal volo degli uccelli alle maree esistono principi soggiacenti unificatori, non facili da scoprire. «Rassegnarsi ad accettare spiegazioni disparate e una miriade di leggi particolari è un rifiuto della strategia galileiana nelle scienze. Sia in linguistica che in biologia, attualmente, ci stiamo accorgendo che le diversità sono meno vaste di quanto si supponesse e che è possibile scoprire potenti principi di unificazione. Ovviamente non possiamo sapere in anticipo fino a dove sarà possibile unificare, ma non lo sapremo mai se nemmeno ci proviamo». Incalzo, sempre facendo l’avvocato del diavolo. Nella teoria minimalista, gran parte di quello che rappresenta tradizionalmente il terreno proprio della linguistica diventa accessorio, secondario. Le regole della grammatica in senso tradizionale sarebbero un «residuo» (questo è il termine usato da Chomsky) delle operazioni di questo apparato mentale minimo, perfetto, rapido e del tutto automatico. Non stupisce, allora, che alcuni linguisti si risentano. Chomsky risponde: «Forse è comprensibile, ma non credo sia giustificabile. Come reagiremmo all’ipotesi che, in fondo, in fondo, esiste un solo animale e che l’incredibile varietà di animali che troviamo in natura proviene da piccoli cambiamenti in geni di controllo, in kit genetici onnipresenti e comuni. Ci stiamo sempre più avvicinando a questa conclusione ed essa può turbare solo coloro che sono affascinati dalla diversità delle forme animali, ma non coloro che cercano di spiegarle riferendosi a principi di base. Nel caso del linguaggio ci sono ovviamente molti processi storici e fatti contingenti che spiegano le differenze, ma anche principi profondi che rivelano ciò che è comune a tutte le lingue. Non c’è nessuna contraddizione nell’essere affascinati sia dalle diversità che da questi principi comuni». Marc Hauser pensa di aver individuato simili profondi principi unificatori anche nel giudizio morale, e Tecumseh Fitch nella percezione musicale. Chomsky è, per il momento, meno convinto di loro che queste estrapolazioni minimaliste funzionino davvero anche al di fuori del linguaggio, seppure incoraggia tali ricerche per il futuro. Mi ha chiesto di raccontargli come reagirà il pubblico a Roma nelle prossime sere. Massimo Piattelli Palmarini