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 2004  dicembre 04 Sabato calendario

Mister Bulgari in realtà si chiama Francesco Trapani, io donna, 04/12/2004 «Mister Bulgari, mister Bulgari

Mister Bulgari in realtà si chiama Francesco Trapani, io donna, 04/12/2004 «Mister Bulgari, mister Bulgari...». La giornalista giapponese, firma del mondo del lusso, brandisce come una spada una grossa stilografica d’oro ed è gasatissima a trovarsi di fronte al marchio in carne e ossa. «Prego, dica pure» fa mister Trapani, Francesco Trapani. Difficile capire dove finisce il signor Bulgari dell’immaginario giapponese e dove comincia il signor Trapani, classe 1957, l’amministratore delegato più pirandelliano del made in Italy. il cocco della famiglia perché è figlio di Lia Bulgari che sposò un chirurgo napoletano, sorella di Paolo e Nicola, rispettivamente presidente e vicepresidente della terza potenza mondiale della gioielleria dopo Cartier e Tiffany, è insomma uno venuto su a pane e diamanti. Ma è anche un manager solitario che potrebbe, dice, «fare la valigia in qualsiasi momento», cacciato come un rovinafamiglie con l’accusa di essere troppo Trapani e poco Bulgari, o attratto dalla sfida di scoprire altrove se questi suoi primi vent’anni di successo sono davvero tutta farina del suo sacco. Quando la famiglia, nel 1984, decise di affidare le chiavi del forziere al primo maschio della quarta generazione, a un ragazzotto niente casa e bottega, smanioso di maneggiare ricchezza anche a costo di abbandonare il rassicurante parentado, i negozi Bulgari erano cinque e il fatturato era di 32 miliardi di lire. Oggi i negozi sono quasi duecento, vendono anche orologi, profumi, cravatte e via accessoriando, i dipendenti sono 2.500 e il fatturato viaggia verso gli 800 milioni di euro. Mister Bulgari, anzi, mister Trapani ha un’aria da simpatico spaccone, alla Paul Newman, l’understatement di chi ha avuto tutto e l’inquietudine di chi vuole sempre di più. Incontrarlo a Osaka, in occasione dell’apertura del trentesimo, il più grande, punto vendita in Giappone (paese che rappresenta il 24 per cento delle entrate globali del gruppo) è un po’ come mettere sul lettino freudiano il made in Italy alle prese con il complesso della famiglia. Che non si capisce più se è una forza o una debolezza. «C’è la famiglia virtuosa e la famiglia disastrosa» secondo il Trap dei gioielli. La formazione che non segna è quella «delle famiglie che hanno ridotto le aziende a una schifezza. Ad esempio senza la famiglia non sarebbe stato possibile organizzare una maialata come quella di Parmalat» dice a ”io donna”, e per accentuare la sua franchezza pigia sull’accento romano che stona con la totale assenza di gestualità, tipica di chi ha frequentato più la City che Trastevere. Spiega meglio: «Tutti vogliono stare in azienda, uno fa i foulard, uno arreda i negozi, l’altro si improvvisa alle pubbliche relazioni, bisogna piazzare il nipote che ha studiato a Boston, dare un incarico alla cognata che si annoia: un meccanismo perverso. Non credo all’azienda familiare dove non comanda nessuno, bisogna avere punti di riferimento chiari, qualcuno deve rispondere del proprio operato, altrimenti si diventa self indulgent, per cui se i numeri non tornano, la colpa è dell’economia che non tira, della Cina, di Bush, insomma la responsabilità è sempre di qualcun altro e intanto la credibilità del sistema Italia crolla». Un sistema, secondo Trapani, che poteva andare finché l’economia non era globale, «richiedeva solo inventiva, iniziativa e buona volontà». Ora bisogna essere capaci di difendere il prodotto nel mondo: «Solo le grandi aziende hanno i mezzi per finanziare la comunicazione, la ricerca, la distribuzione, per dotarsi di gente superqualificata che costa un casino. Non basta frequentare i salotti buoni, o apparire nei luoghi e a fianco delle persone giuste». In effetti l’uomo che da vent’anni è alla testa di uno dei principali brand del lusso mondiale è uno che non si vede in giro, frequenta i vecchi amici di liceo, non compra squadre di calcio e anche quando viaggia sul suo due alberi, il ”Christianne B”, evita gli yacht club da rotocalco. Divorziato, vive quasi appartato tra Roma e Parigi, dove divide una casa con la nuova compagna, la principessa Lorenza del Liechtenstein. Non coltiva hobby, non ama la musica, non legge libri ma quasi esclusivamente la stampa economica. Sembra insomma concentrato a dimostrare una sola cosa: di non essere un figlio di mammà, ma artefice del proprio destino e del proprio cognome. «Ripeto, io guardo con sospetto la famiglia in azienda: è quasi sempre incompatibile con la globalizzazione. Cosa ne sa la famiglia delle grandi competenze?» E il signor Bulgari, da discendente di Sotirio Bulgaris - l’argentiere arrivato a Roma dall’Epiro con ottanta centesimi in tasca e che debuttò in via Condotti nel 1905 - è d’accordo con il manager Trapani, questo strano parente che si fa vedere in famiglia solo alla cena di Natale? «Certo io sono stato un privilegiato» risponde, resistendo come un samurai all’ennesimo vassoio di sushi («il cibo è la mia unica debolezza, seguo la dieta di un sadico medico parigino»). «In nessun’altra azienda mi avrebbero affidato la baracca a 26 anni. E poi avere alle spalle un’istituzione italiana del lusso con cent’anni di vita è un valore aggiunto nel mondo. Ma sin dall’inizio gli accordi erano chiari: se Francesco non porta risultati perde il posto. Qui non c’è lo stilista genio, ma un amministratore delegato che non solo deve fissare gli obiettivi, deve anche raggiungerli». Si capisce che il Trap mette la sua famiglia nella formazione virtuosa. «I miei zii sapevano di essere della vecchia generazione, erano uomini di prodotto, non di business. Hanno avuto la lungimiranza di farmi gestire questa azienda come fosse pubblica. Non ho mai assunto un parente» assicura. Racconta come andarono le cose. Bulgari era un marchio molto noto, soprattutto grazie agli americani della Dolce Vita. Cleopatra Liz Taylor frequentava la maison romana quanto Richard Burton i bar di via Veneto. La famiglia (a eccezione dello zio Gianni, uscito proprio perché in disaccordo sull’incarico al nipote) aveva un vago piano di sviluppo e Francesco, invece, chiare ambizioni. Comincia l’espansione: «Finanziavo le necessità di cassa dell’Occidente con i ricavi dell’Oriente. Quindi puntai alla diversificazione del prodotto. La famiglia si oppose, non voleva correre rischi: secondo loro rimanere elitari, non troppo grandi, voleva dire restare solidi e salvarsi dalle crisi». Con la prima guerra del Golfo, invece, si scoprirono più deboli di altri, le aziende più grandi reagivano meglio: «Vinsi la mia battaglia, ebbi il via libera per una strategia di marketing più aggressiva e avviai la diversificazione». Per il vero salto servivano tanti quattrini, E gli zii dissero ancora sì; come ha scritto un po’ enfaticamente il ”Financial Times” «sapevano ormai che il loro gioiello più prezioso si chiamava Trapani»: nel 1995 lo sbarco in Borsa, la famiglia tenne per sé il 58,7 per cento. Da allora al 2001 i ricavi sono cresciuti del 32 per cento l’anno, i profitti del 40 per cento. Ma anche i dipendenti aumentavano del 40 per cento l’anno: «Un delirio, si prendeva ogni giorno il caffè con sconosciuti» racconta. Il brand continuò, però, a rimanere elitario: «Se sforni tre milioni di borse l’anno non fai più tendenza, diventi comune. Il lusso è complicato: da un lato devi espanderti, dall’altro mantenere un certo livello di rarefazione per tenere alto il prestigio del marchio. Oggi si vince solo con un marchio forte e un management sofisticato». Con l’11 settembre la corsa si fermò. «Tagliammo anche sulle telefonate. In diciotto mesi l’emergenza era finita, perché non siamo quelli del mordi e fuggi, non bisogna mai sfruttare appieno le potenzialità». Trapani si definisce «un temerario calcolatore». Prima di decidere di buttarsi nel settore alberghiero (in alleanza con Marriott) ci ha impiegato dieci anni. Il passo deve essere lungo, ma mai più della gamba: «Io lo chiamo business stretching» dice. Certi manager, un po’ mercenari, allungano la falcata solo per incassare al più presto le stock option, negli Usa stanno diventando una piaga sociale. Non sarà che avere alle spalle una famiglia ti obbliga a proteggerti sul lungo periodo e che il «manager di famiglia» gode di libertà sì, ma vigilata? «Negli Stati Uniti ci sono aziende pubbliche, penso alla Procter&Gamble, gestite solo da manager, nessuno le controlla eppure sono virtuose, etiche e capaci di rigenerarsi. Non è vero che le aziende pubbliche sono senz’anima. Il made in Italy, piuttosto, forse per colpa del suo familismo provinciale, sta perdendo l’anima e il mercato» risponde Trapani. E riprende a pigiare sull’accento romano: «Ci siamo distratti, i francesi producono meglio e guadagnano di più. imbarazzante vedere gli spagnoli prendere il largo. C’è un atteggiamento approssimativo, l’incapacità di affrontare un mercato altamente competitivo. Nella battaglia globale» continua, fissando con tristezza i dolcini del vassoio «stiamo facendo una pessima figura e se non si mangia si rischia di essere mangiati. Certo non aiuta avere dietro un paese arretrato, senza infrastrutture, che naviga a vista». E dove naviga mister Trapani? Confida di puntare alla leadership del lusso prima di buttarsi, chissà, in una nuova avventura: «Mi piacerebbe lavorare per l’ammodernamento dello Stato». In un certo senso per un’altra famiglia. Marzio G. Mian