Luigi Sampietro Il Sole-24 Ore, 05/12/2004, 5 dicembre 2004
Capote con la grazia di un elfo tra la feccia del pianeta, Il Sole-24 Ore, 05/12/2004 «Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori»
Capote con la grazia di un elfo tra la feccia del pianeta, Il Sole-24 Ore, 05/12/2004 «Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori». Era il verso conclusivo di una canzone di quegli anni. Gli anni Sessanta, prima del Sessantotto, quando In Cold Blood (A sangue freddo) uscì a puntate sul ”New Yorker”. Truman Capote (1924-1984) non avrebbe sottoscritto le implicazioni anarchiche e immoraliste di quella frase, ma «diamanti» e «letame» sono due parole che, in una diversa metafora, ben rendono l’idea dell’ampiezza, di registro e di visione di uno scrittore ora rivisitato come uno dei grandi del Novecento. Capote non ricevette mai né il Premio Pulitzer né il National Book Award ma fu adorato da milioni di lettori anonimi e coccolato dalle dame cotonate dell’alta società. Era una sorta di Lord Byron part-time (camera da letto esclusa) dei ricchi e famosi di New York. Il jet set. Quelli che oggi qui, domani a Londra e subito dopo a Parigi, con i nuovi, velocissimi aerei a reazione. C’era però anche una parte di quel mondo che lo odiava. Un po’ perché lui gli faceva le boccacce, un po’ perché erano colleghi e anche artisti a cui sottraeva di continuo attenzione e cacciatori di autografi. Dai saloni sfavillanti di Tiffany al capannone del penitenziario di Lansing (Kansas) dove morirono sulla forca gli efferati assassini di un delitto senza senso («the scum of the earth») Capote muoveva la penna e si muoveva con la grazia di un elfo. Fino a diventare invisibile. Puro stile. Una voce e nulla più. Del resto, e non solo per il modo di scrivere, era davvero uno spiritello dell’aria. Piccolo, pettegolo e dispettoso. Scintillante e languido. Imprendibile. Esilarante. Insomma, un folletto. Un genio. E un un genio era: anche nel significato comune del termine. Capote non solo lo sapeva ma se ne serviva come di un’arma di difesa, con la sfacciataggine di chi sente di doversi giustificare: «Sono un alcolizzato. Sono un tossicomane. Sono un omosessuale. Sono un genio». E come poteva non esserlo, viste le poche scuole che aveva fatto e il successo che aveva raggiunto? Ma non tutti la pensavano in questo modo. Gore Vidal, che frequentava le teste coronate (e non solo cotonate: era intimo amico della principessa Margaret) e che, a partire dalla cugina Jacqueline, aveva sempre guardato dall’alto in basso tutti i Kennedy, disprezzava Capote per mille ragioni e fors’anche perché non era altro che un parvenu. Quando i due si incrociavano - Capote poco più alto della spalliera del divano e Vidal che quasi toccava con la testa lo stipite della porta - erano duelli all’ultima battuta. Che proseguivano poi a distanza, con i veleni della maldicenza. Racconta un mio vecchio professore della Boston University, John Malcolm Brinnin, in Truman Capote: Dear Heart, Old Buddy (Delacarte, 1986), che Vidal, sapendolo amicissimo di Capote, un giorno ritornò sul discorso. Erano a Venezia, su di un vaporetto: «Truman pensa che siano tutti ossessionati da lui. Ma poi chi è lui? Un piccolo letterato di bassa lega che smercia l’unica cosa che ha: un curriculum di campagne di public relations che spaccia per una carriera. Lo hai mai sentito esprimere un’idea che non starebbe bene in bocca a una casalinga del Midwest?». Capote pubblicò il primo racconto a 17 anni. Il primo romanzo, Other Voices, Other Room, a 24. Poi vennero Breakfast at Tiffany, nel 1958, e, nel 1965, In Cold Blood. Un successo strepitoso che lo rese ricco come non avrebbe mai immaginato. Aveva cominciato a scrivere quando aveva otto anni: «Di punto in bianco, senza alcun esempio. Non avevo mai conosciuto nessuno che scrivesse e anzi erano pochi anche quelli che leggevano. Ma c’erano quattro cose che mi interessavano: leggere, andare al cinema, ballare il tip tap e disegnare. Un bel giorno cominciai a scrivere e non sapevo che così facendo mi sarei legato per sempre a un nobile ma spietato padrone. Perché quando Dio ti concede un dono, ti consegna anche una frusta; ed è una frusta che servirà solo per flagellare te stesso». Precoce in tutto, Capote morì prima di invecchiare. Non aveva ancora sessant’anni. Ma era ormai stanco, appesantito, esacerbato. Amava i ricchi e nel loro mondo era entrato pare per un equivoco. Il miliardario che nel gennaio 1955 lo aveva accolto sul proprio aereo per trascorrere un weekend in Giamaica non aveva capito che il Truman che gli avevano proposto di invitare era un romanziere di belle speranze e non l’ex Presidente degli Stati Uniti! Non ebbe comunque motivo di pentirsene. Almeno fino a quando Capote, vent’anni dopo, non decise di imitare Proust e scrivere la sua Recherche. Un roman à clef (Answered Prayers) di cui pubblicò qualche capitolo su ”Esquire” nel 1975 e 1976. Per Capote fu l’inizio della fine. Il suo progetto di trasformare il pettegolezzo mondano in letteratura fu un fallimento. Personale prima ancora che artistico. Il bel mondo lo emarginò. Non volle mai più sentir parlare di lui. Ma come si spiega in un uomo tanto accorto un simile passo falso? Secondo Gerald Clarke (Truman Capote: A Biography, Simon & Schuster, 1988), pare che un amico, letto il racconto in bozze, avesse suggerito a Capote di non pubblicarlo. «Sono tutti riconoscibili», gli aveva detto. «Non credo. Sono troppo stupidi», era stata la risposta. è probabile che Capote non si rendesse conto di quello che stava facendo. Spettegolava da una vita senza conseguenze e perché mai proprio adesso le sue vittime avrebbero dovuto risentirsi per cose che avevano ascoltato chissà quante volte? Ma non fu così. Sono passati tanti anni. Buona parte di quei protagonisti se ne sono andati. Answered Prayers: The Unfinished Novel (Random House, 1986) è stato pubblicato postumo e non lo si ricorda come il suo libro migliore. Ma, a giudicare dal film sulla sua vita che Douglas McGrath comincerà a girare in gennaio, e a giudicare da un paio di libri pubblicati in occasione dell’ottantesimo anniversario della nascita, si direbbe che ci sia una certa nostalgia per questo personaggio. I racconti sono apparsi tutti, meno uno (The Bargain, 1950) in precedenti raccolte e confermano la sua fama di scrittore gotico e di grande evocatore delle atmosfere magiche e spettrali che invadono la fantasia e avvolgono le esperienze emotive dei bambini. E anche degli ex-bambini che noi tutti siamo. Vittime dell’abbandono e della paura. Le lettere, per molti versi e almeno sulle prime, non sembrano all’altezza delle aspettative. Si va avanti nella lettura - parlo della seconda parte - come accompagnati da fantasmi. O, meglio, da un senso di vuoto. Come se mancasse qualcosa o qualcuno. E infatti delle centinaia e centinaia di messaggi (due alla settimana per cinque o sei anni) che si dice Capote abbia mandato ai due condannati a morte, Dick Hickock e Perry Smith, i protagonisti di In Cold Blood, c’è solo una pallida traccia. Tre lettere piuttosto insignificanti a Smith, il piccolo mezzosangue indiano e autore materiale del delitto, con il quale, secondo una testimonianza resa al ”New Yorker” dall’ex agente Harold Nye nel 1997, Capote avrebbe avuto una relazione sessuale. Capote, dice Nye, fu tra i testimoni dell’esecuzione: «Assistette all’impiccagione di Hickock ma quando arrivò l’ora di Smith perse il controllo. Scappò via, e un motivo c’era: lui e Perry erano stati amanti in prigione». Quanto siano costate a Capote le ricerche e la stesura di quel libro lo si scopre nella decina di lettere che scrisse in quegli anni ad Alvin Dewey, l’investigatore che condusse le indagini sulla strage della famiglia Cutter, e a sua moglie Marie. Capote trovò in loro, ricambiato, non solo amicizia ma anche il calore di una famiglia vera che non aveva mai avuto. E ci sono dei passi, apparentemente insignificanti, che ho dovuto rileggere perché nascondono tra le righe un dramma agghiacciante. I mesi passano e l’esecuzione dei due condannati è continuamente rinviata. Il titolo del libro che Capote ha pressoché finito, salvo l’ultimo imprescindibile capitolo, non si riferisce al delitto ma al modo in cui i due assassini saranno uccisi. Capote non ha mai avuto il coraggio di dirlo a Smith, nemmeno quando costui insisteva di avere agito obbedendo a un raptus demoniaco. Ma c’è di più. Nell’impazienza di Capote perché non ci sia un altro rinvio e perché tutto finisca com’è comunque inevitabile, il cinismo dello scrittore a un passo dalla gloria è tragicamente intrecciato allo strazio dell’uomo che consegna al carnefice, a sangue freddo, una parte di sé e gli chiede di far presto. Luigi Sampietro