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 2004  dicembre 05 Domenica calendario

Cattelan si circonda del nulla per dar voce all’Occidente, la Repubblica, 05/12/2004 Maurizio Cattelan è il figlio prediletto della comunicazione planetaria e di nessun critico

Cattelan si circonda del nulla per dar voce all’Occidente, la Repubblica, 05/12/2004 Maurizio Cattelan è il figlio prediletto della comunicazione planetaria e di nessun critico. Maurizio Cattelan si è infilato dentro alla porta girevole della vita e continua a girare. Maurizio Cattelan transita nel cielo delle superstar e ogni giorno atterra dentro al suo ufficio concetti smarriti & scandalosi. L’ufficio coincide con il suo viso mobile e viaggiante tra Milano, New York e l’Evidenza dei Fatti. Maurizio Cattelan ha capelli fitti, corti e grigi. Occhi accesi. Naso fuori misura. Il tono della sua voce è uniforme. Nessun accento. Le risate spezzano le linee circolari della sua storia. Quando ha impiccato i tre bimbi in vetroresina a una quercia di Milano è finito sulle prime pagine di tutti i giornali del mondo: «Volevo dire qualcosa di chiaro su ciò che stiamo facendo al nostro futuro». Chiama le sue opere: «Cose». Chiama l’arte: «La mia ultima spiaggia». Dice: «Se sapessi a cosa serve l’arte, farei il collezionista». Non colleziona nulla. Non possiede nulla, tranne un pezzo della minuscola Wrong Gallery a New York. è autodidatta: «Essere autodidatta significa nessun maestro, tutti compagni di classe». Ai compagni di classe non ha insegnamenti da dare. Ai giovani artisti sì: «Diventate vecchi in fretta». Maurizio Cattelan è nato a Padova nel 1960. A 44 anni è l’artista italiano più famoso nel mondo. Alcune sue opere - esposte al Guggenheim di New York, al Contemporary Art di Los Angeles, al Louvre, a Torino, Venezia, Berlino, Hong Kong - hanno superato i 2 milioni e mezzo di dollari. Alcune sue opere sono sorprendenti e spiazzanti quanto il loro corrispettivo valore in denaro. Per esempio il Papa, vestito di bianco, atterrato da un meteorite nero. Per esempio il cavallo impagliato e sospeso al soffitto. Per esempio lo scoiattolo che si è appena suicidato nella sua cucina; l’alunno che è stato inchiodato, con due matite, al proprio banco; John Fitzgerald Kennedy che se ne sta sdraiato nella bara a piedi nudi; la signora Betsy che abita dentro a un frigorifero; l’elefantino che si nasconde perché (come tutti noi) ha paura dell’amore. Fama e denaro. Maurizio Cattelan non si occupa di fama e di denaro. La fama e il denaro si occupano di lui. I media si occupano di lui. I musei, le fondazioni e i collezionisti miliardari come Gagosian si occupano di lui. Lui gira in scarpe da tennis, maglietta, borsa a tracolla, cappotto nero e sorriso intermittente. Vive in un monolocale nel quartiere Ticinese di Milano e in un bilocale nell’East Village di New York. è, normalmente, invisibile. Ha alcuni suoi doppi che vanno ai convegni o ai vernissage al posto suo. Che concedono interviste a suo nome. Che si sdraiano nella sua ombra. Spiega: «Sono timido. Non so parlare in pubblico. Conosco a memoria quel che non avrei da dire e dirlo mi annoia. Invece, sentire raccontare le mie cose da un altro è molto più divertente. E quasi sempre mi sorprende». Essere invisibile fa parte della sua ossessione per le immagini. Le immagini lo circondano e assorbono il suo sguardo veloce. Dice: «Se non ne vedo almeno cento al giorno, mi si riempie la faccia di bubboni». Guarda immagini digitali e i paesaggi inquadrati da qualunque circostanza, un tombino o un aeroplano. Guarda la geometria e il colore dei giornali, guarda Internet, la luce della pubblicità, il taglio cinematografico della vita quotidiana, il grigio uniforme di un’avventura e il bagliore dei giorni che viaggiano. Non ritaglia e non riordina. Non seleziona. Non ha archivi. Gli archivi prevedono. Lui vede, all’improvviso. Cattelan ha avuto molte vite a disposizione e molte altre se le è costruite a sua dimensione. A Padova, da ragazzo, frequentava le serali dell’Istituto di Elettrotecnica. Ha fatto il cameriere, il cuoco, il giardiniere. Ha fatto l’antennista a Venezia. L’infermiere in un ospedale e l’assistente in un obitorio. Ha maneggiato la morte. Lui dice: «Ho maneggiato i morti e ho misurato la loro distanza, la loro sordità impenetrabile. Molto di ciò che ho fatto dopo, dipende da quella distanza». L’obitorio ha coinciso con il punto più basso (o più alto) della sua storia. «Un giorno ho detto: eccomi arrivato alla mia penultima spiaggia. Ora devo partire. Così mi sono lasciato tutto alle spalle e ho preso un treno per Bologna». A Bologna, nel 1981, c’è ancora l’onda del Movimento e la sua risacca. Molta creatività, molta paranoia. Lui entra nel circuito obliquo delle case in comune, delle notti condivise, della pioggia che non bagna. Si innamora, finisce a Forlì. Perché Forlì? «Un caso. Una grande casa vuota da abitare. è lì che comincia tutto. Il vuoto mi fa venire la nostalgia dei mobili. Ma non ho i soldi per comprarli. Così comincio a pensarli. Un paio di amici disegnano quello che penso, altri costruiscono, usando oggetti che scelgo, tipo rami d’albero, ferro, plastica, scarti. Le cose che nascono, lampade, tavoli, piacciono a un sacco di gente. All’improvviso mi invento che posso fare il designer». L’onda Memphis. Così parte per Milano. Arriva ai bordi dell’onda Memphis di Ettore Sottsass, Alessandro Mendini e Nathalie Du Pasquieur. Dice: «Faccio tutto per istinto. Tutto improvvisato, divertente, non funzionale. A metà tra design e arte». Ride: «Dopo un po’ scopro che il design non mi viene tanto bene e divago ancora di più». Dice: «Posto che sia arrivato da qualche parte, sono arrivato all’arte per tentativi». Per arrivare da qualche parte imbroglia e ruba, come insegnava Marcel Duchamp che faceva passare una latrina per una fontana e la pipa per un manuale sull’arte. Anche Cattelan sovverte la banalità degli oggetti, alla maniera di Joseph Beuys e di Piero Manzoni. Triplica i tagli di Fontana, formando la zeta di Zorro. Espone la denuncia, in carta da bollo, per il furto dell’opera Invisibile, che neppure l’autore è in grado di descrivere. Si finge pubblico, alla Fiera dell’arte di Bologna, per esporre clandestinamente le immagini del suo calciobalilla lungo 7 metri per 22 giocatori. Falsifica e espone 20 copertine della rivista ”Flash Art”, ognuna delle quali riproduce una sua opera. Dice: «L’idea è questa: se non hai luoghi dove esporre, ti infili in quelli altrui. Se non hai riconoscimenti te li inventi». Invitato alla Biennale, affitta il proprio spazio a una casa di profumi francesi e espone un’acqua di colonia. Invitato in una galleria, esibisce la propria fuga, esponendo lenzuola arrotolate alla finestra. Sopra alla collina più polverosa di Palermo installa la scritta cubitale ”Hollywood”. Espone un ulivo. Un dinosauro. Un asino che vola. Il proprio gallerista. Due poliziotti a testa in giù. A chi gli chiede una spiegazione, dice: «Qualunque domanda tu ti faccia sulle mie cose, la risposta è in te. Ed è sbagliata». Nel 1993 parte per New York. «New York ha dimensioni che mi destabilizzano. è una città che ti tiene in movimento e ti fa perdere l’equilibrio. Lavorando dieci ore al giorno, impiegato da me stesso, divento finalmente un artista». Essere artista, per lui, significa «non fare più il cameriere di notte». Vive con 5 dollari al giorno. Vive in una casa vuota: «Perché è il vuoto che mi concentra». Regala i libri appena letti e i vestiti smessi. Vive da solo, ma circondato da amici. Dorme con le lenzuola nere. Tiene un televisore sotto al letto. Ascolta Wagner. Studia Warhol e «il suo coraggio di parlare a tutti». A New York pensa, guarda, inventa, ma non produce. Anche oggi. Per costruire le sue ”cose” usa il telefono. «Il telefono è il mio vero posto di lavoro». I suoi doppi sono artigiani italiani e francesi. Come l’imbalsamatore Michel Vaillier, che lavora sugli animali, o lo scultore Daniel Driet che lavora la cera e la vetroresina. Dice: «L’idea che sia l’artista a manipolare la materia, non mi appartiene. Non so disegnare. Non so dipingere. Non so scolpire. Le mie cose non le tocco proprio». Quello che tocca davvero, e fa vibrare, sono tutti gli interruttori della comunicazione. Il suo Papa caduto, esposto a Varsavia, scatena un putiferio globale. Militanti cattolici assaltano l’esposizione, vogliono a tutti i costi raddrizzare la statua, finiscono per spezzarle le gambe. Il suo Hitler inginocchiato in preghiera, diventa scandalo e «un orrore travestito da innocenza, una perversione». I bimbi impiccati a Milano fermano il traffico e vengono rifiutati dal Whitney Museum di New York. I galleristi. Lui replica con voce uniforme. «Per me lo scandalo è parte dell’opera, non l’intera opera». «Per me il buon gusto, come il gusto, sono cose da gelatai». «Per me l’arte è vuota, trasparente: è un dispositivo per mettere in moto interpretazioni che appartengono a chi guarda. Alla fine sono gli spettatori a fare il lavoro degli artisti». E comunque: «Non ho mai fatto niente di più provocatorio e spietato di ciò che vedo tutti i giorni intorno a me. Io sono solo una spugna. O un altoparlante». Cattelan è un altoparlante, sintonizzato sull’Occidente globale, al massimo volume. I milioni di dollari che il mercato consegna alle sue opere, moltiplicano la sua ridondanza. Dice: «I soldi sono una pressione che subisco anche se arricchiscono i collezionisti, le gallerie e Christie’s». Tutti sono interessati a quanto guadagna. Nessuno al fatto che continui a vivere con quasi nulla. Il nulla è uno dei suoi significati perpetui. Come la malinconia, i sogni spezzati, la paura di fallire, l’impotenza e naturalmente, la morte. Circondato dalla richiesta di senso e di significati, rovescia la tavola della vita, che lo tiene sveglio, aperto, e ambiguo. Dice: «Non esistendo alcuna verità, evito di credere persino a me stesso. Dobbiamo tutti abituarci all’idea: non ci sono chiavi, non ci sono serrature. Solo porte girevoli». Lui guarda la superficie, sorride intermittente, e gira. Pino Corrias