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 2004  dicembre 09 Giovedì calendario

La miss Francia d’Algeria, Vanity Fair, 09/12/2004 C’era una bambina bellissima. A dieci anni un bambino più grande di lei l’ha baciata sulla bocca

La miss Francia d’Algeria, Vanity Fair, 09/12/2004 C’era una bambina bellissima. A dieci anni un bambino più grande di lei l’ha baciata sulla bocca. Lei non ha dormito per notti intere. La mamma capì che c’era qualcosa che non andava e la bambina ha confessato: «Mamma, credo di aspettare un bambino». La mamma allora le ha spiegato che le cose, tra un uomo e una donna, andavano diversamente. Per fortuna. Quella bambina era Edwige Fenech, e la sua vita, fin da piccola, è stata un romanzo... Che cosa faceva Edwige Fenech da bambina? «Tante cose». Ad esempio? «Scappava di casa». Come? «A quattro anni mi avevano regalato una borsa bianca per giocare alla dottoressa. Con dentro lo stetoscopio, il termometro... Io la svuotavo, ci mettevo dentro un paio di mutandine e una maglietta e partivo». Per dove? «Per il commissariato di polizia, all’angolo della strada. I poliziotti mi conoscevano, chiacchieravo un po’ con loro e poi mi riportavano dai miei. Era il mio istinto di libertà». Una bambina vivace... «Sì, anche se molto timida. Una volta, a quattro anni sono sparita di casa veramente. C’era una manifestazione politica e l’ho seguita. Ho fatto il giro della città. Sono tornata la sera. I miei erano disperati, erano andati anche dalla polizia. Quando mi sono presentata, la sera, ripetevo tutti gli slogan politici che avevo sentito, di cui non capivo nulla. I miei hanno capito. Si erano presi un bello spavento». Come passava il resto del suo tempo, a parte le fughe e le manifestazioni politiche? «In cortile con un’amichetta, di quattro o cinque anni più grande di me. In teoria, avrebbe dovuto prendersi cura di me. Invece, ne combinavamo di tutti i colori». Ad esempio? «Una volta, per Natale, mi hanno regalato una bicicletta. Io sono nata il ventiquattro dicembre, quindi il mio Natale era un natale doppio, Natale più compleanno. E quell’anno, sempre attorno ai quattro anni, Babbo Natale mi portò una bicicletta. Io e la mia amichetta siamo state prese da un raptus creativo. Ci siamo sentite due geni della meccanica e abbiamo completamente smontato la bici. Poi è arrivata mia mamma». E che cosa ha detto? «Ha visto tutti i pezzi per terra e ci ha chiesto cos’era quella roba. Le abbiamo risposto, ovviamente, che era la mia bicicletta. Lei si arrabbiò moltissimo, e ci disse di buttare via tutto. Non ho mai più avuto una bicicletta». Torniamo indietro nel tempo, il più possibile. Qual è il suo primo ricordo? «I mobili della casa di mio nonno. Credo avessi due anni. I mobili e i colori di quella casa non li dimenticherò mai. Le voci della mia famiglia. Una famiglia strana, allargata...». In che senso? «Sono venuta al mondo a Bona, che adesso si chiama Annaba, in Algeria. Anticamente, si chiamava Ippona...». La città dove è nato anche Sant’Agostino! «Esatto. Una città storica. E i primi anni li ho vissuti con i miei genitori nella casa del nonno. Lo adoravo. Era una persona molto severa, che metteva tutti in riga, ma voleva tanto bene alla sua nipotina. Mio nonno aveva avuto parecchi figli e ci ritrovavamo tutti lì, figli nuore e nipoti. E lì abbiamo vissuto fino a che non ci siamo trasferiti in una casa più piccola. Io, mia mamma, mio papà e il mio orsacchiotto». Il suo orsacchiotto? «Un orsacchiotto immenso. Regalo del mio padrino. Bellissimo. Ma era decisamente più grande e più grosso di me. A me piaceva dormirci assieme. Occupava la maggior parte del letto. Lui stava nel mezzo e io mi mettevo in un angolino, al suo fianco. Qualche volta doveva intervenire mio padre». Che cosa faceva? «Arrivava di notte e toglieva l’orsacchiottone. Una notte però sfilandolo dalle coperte si è staccato l’orecchio dell’orsacchiotto che mi è ricaduto addosso mutilato. Mio papà era lì, con l’orecchio in mano. Gridavo come una pazza». Una brutta situazione... «Però si è risolta subito. Mio papà ha riattaccato l’orecchio all’orsacchiotto e tutto è tornato come prima». I suoi giocattoli preferiti? «Nessuno. Preferivo giocare in strada. Detestavo le bambole. Ne avevo soltanto una a cui ero affezionata. Un giorno per gioco le ho tolto gli occhi e poi glieli ho rifatti di carta, colorando di azzurro la pupilla». Ricorda il suo primo giorno di scuola? «Avevo cinque anni, non smettevo di piangere. Non avevo fatto l’asilo perché mia mamma mi teneva con sé sempre. Anche per questo motivo ero l’ultima della classe. Tutti gli altri bambini conoscevano già l’alfabeto, io non sapevo che cosa fosse. Ero tornata a casa disperata. Poi mia madre mi ha chiesto che cosa avevamo fatto». E lei? «Le ho detto che facevano tutti dei disegni. E le ho fatto vedere il mio. Erano una grande T e una grande O. Poi di nuovo. Una grande T e una grande O. Mia madre mi ha detto che non era un disegno. Era una parola, ”totò”. Io l’ascoltavo affascinata. E così nei giorni successivi mi ha fatto un corso accelerato di alfabeto. Il fatto era che ero figlia unica, e mia mamma mi teneva con lei e tutti i giorni, da quando avevo due anni, vivevamo assieme la sua grande passione». Quale? «II cinema. Mia madre lo adorava. Allora era abbastanza raro, in Algeria, che una donna andasse al cinema da sola, con la figlia piccola. Ma io e mia mamma lo facevamo lo stesso. Ogni giorno un film. Di qualunque genere. Dal Posto delle fragole di Bergman, che mi piacque moltissimo, ai polpettoni americani. Entravamo nel cinema quatti quatti, per non farci vedere da nostro nonno, anche lui appassionato di cinema ma grande conservatore: non avrebbe gradito la nostra presenza lì. Controllavamo dov’era seduto e poi noi, al buio, da tutt’altra parte, prendevamo posto». Le scuole medie? «Un’infinita tristezza. Dopo l’indipendenza siamo dovuti scappare in Francia, a Nizza, con la nave. Un esodo. Abbiamo dovuto abbandonare tutto. Ci hanno allontanati dalla Francia e a Marsiglia, dove siamo arrivati, ci aspettavano tirandoci uova e dicendoci di ritornare indietro, a casa nostra. Ma casa nostra, nostra non era più». E lei come ha reagito? « stato un periodo duro. Mia madre ha sofferto di depressione. Io avevo la passione della danza, iniziata in Algeria, a cinque anni. All’inizio ero un soldatino di legno, completamente negata. Poi applicandomi sono diventata sempre più brava e sono entrata nel corpo di ballo del teatro dell’Opera. A nove anni prendevo già qualche soldo. In Francia, il mio primo problema, oltre a quello di integrarmi a scuola, era aiutare economicamente mia mamma. Una volta un’amica mi ha chiesto se volevo fare l’indossatrice di capi intimi per un sarto». Accettò? «Sì. Feci questa sfilata in due pezzi schizzando per la passerella come un missile. Ero timidissima. Poi mi invitarono a delle altre sfilate... Capii che potevo guadagnare qualcosa e lo feci, iscrivendomi anche a una scuola di portamento e dizione...». Si preparava a fare l’attrice... «Ma neanche per sogno. Non ci avevo mai pensato. Alla professione di attrice mi sono forse involontariamente avvicinata quando delle amiche mi hanno iscritta, a mia insaputa, a Miss Francia. Mi avevano portato alla manifestazione e mi hanno detto: ”Adesso mettiti in due pezzi. Tra poco tocca a te”. Ero arrabbiata e scioccata. Ma sono stata al gioco. Mi sono mostrata. E ho vinto». La prima volta che si è innamorata? «A undici anni. C’era un bambino, bellissimo, Philippe. Di una bellezza incredibile. Sembrava Alain Delon da piccolo. Io facevo di tutto per farmi notare ma lui nulla, non mi vedeva. Ero trasparente. Allora per vendetta mi sono messa con un altro bambino, molto gentile, che però non mi piaceva. E Philippe nulla, continuava a ignorarmi». E il suo primo film? «A 17 anni, sulla spiaggia, a Nizza, qualcuno mi notò, e mi chiese se volevo partecipare a un film, per un ruolo secondario. Dissi di sì. Il mio primo vero film da protagonista fu però due anni dopo e si intitolava Samoa, regina della giungla. Il mio partner era una scimmia, simpaticissima. Ma a questo punto, Edwige era già adulta». Aldo Nove