Corriere della Sera magazine, 02/12/2004, 2 dicembre 2004
La galleria di Giorgio Marconi piena di figure minacciose e gente sconvolta, Corriere della Sera magazine, 02/12/2004 Tra gli habitué del Club Conti, la rinomata palestra milanese, c’è un uomo sui 70 anni che, all’ora di pranzo, vestito spesso minimalisticamente in toni di grigio e di nero (mentre fuori dalla palestra sfoggia strepitose giacche color aragosta o vinaccia e ironici papillon), effettua con eleganza e abilità esercizi di stretching
La galleria di Giorgio Marconi piena di figure minacciose e gente sconvolta, Corriere della Sera magazine, 02/12/2004 Tra gli habitué del Club Conti, la rinomata palestra milanese, c’è un uomo sui 70 anni che, all’ora di pranzo, vestito spesso minimalisticamente in toni di grigio e di nero (mentre fuori dalla palestra sfoggia strepitose giacche color aragosta o vinaccia e ironici papillon), effettua con eleganza e abilità esercizi di stretching. Con quest’uomo, fino a qualche giorno fa, avevo scambiato qualche battuta, tra un esercizio di stretching e l’altro, ammirandone lo stile. Sapevo solo che si chiama Giorgio. L’altra settimana in redazione mi hanno chiesto di scrivere un pezzo sull’avventura dello Studio Marconi, la leggendaria galleria milanese aperta dal 1965 al 1992 e che ora è diventata una Fondazione. Lì per lì ho nicchiato. Scrivere di pittori è difficile, quasi fatalmente si finisce per imbattersi in frasi tipo «le sue larghe campiture di colore come colate laviche...». L’unico che sapeva scrivere di pittori è stato Giorgio Vasari, ormai quasi mezzo millennio fa, e per emularlo bisognerebbe aver condiviso con gli artisti, come accadde a lui, vita e mestiere. Insomma, prendevo tempo cercando di ritardare il più possibile il momento in cui avrei dovuto digitare la frase «le sue larghe campiture di colore come colate laviche ...». Poi ho ricevuto il catalogo dell’appena nata Fondazione Marconi e ho guardato la copertina che ritrae il titolare della stessa, Giorgio Marconi, imbacuccato in un giaccone da marinaio long size, cappellaccio calcato in testa, sullo sfondo di una saracinesca inconfondibilmente newyorchese. E allora, come nei romanzi d’appendice di una volta, c’è stata l’agnizione: il Fondatore, alias Giorgio Marconi, altri non è che Giorgio, il guru dello stretching del Club Conti. Sono corso in palestra e mi sono precipitato nello spogliatoio dove Marconi stava giusto sfilandosi il papillon. Il dialogo è stato il seguente, nel più puro canone del dialogo di agnizione o di riconoscimento (secondo i migliori manuali di retorica narrativa): «Giorgio, ma tu sei tu?». «Certo e, immagino, che tu sia tu». Il pezzo si doveva fare. Solo uno come Giorgio Marconi, amico, sodale e mercante di artisti quali Baj e Schifano, Adami e Tadini, Del Pezzo e i Pomodoro, può raccontare i pittori alla maniera di Vasari senza frasi tipo «le sue larghe campiture di colore come colate laviche...». Tutto cominciò in via Tadino 15 nella Milano tra le due guerre. Egisto, il padre di Giorgio, uomo dalla giovinezza avventurosa (amicizia con Benito Mussolini per comuni ideali socialisti, guerra combattuta nel Reggimento Garibaldi), aveva a Milano un laboratorio di cornici fornitore dei maggiori musei cittadini. Tra i clienti c’erano anche i più famosi artisti del tempo, Casorati, Campigli, Carra, Sironi. Il sogno di Egisto era di avere un figlio medico (l’importante è la salute) e Giorgio si era iscritto all’università. Esami ne dava pochi però faceva carriera politica come leader dell’Ugi, l’Unione Goliardica Italiana, che è stata una delle fucine della classe dirigente della Prima Repubblica. Marconi ha vividi ricordi di quel periodo. «Marco Pannella ogni volta che prendeva la parola scoppiava a piangere e non era una commedia, erano lacrime autentiche». Marconi era un leader in vista. Forse troppo. Una mattina il rettore lo convocò. «Magnifico, eccomi qui», disse Marconi entrando nella stanza. «Ah, giusto lei, Marconi», disse il rettore. «Sarà contento, volevo comunicarle che la sua domanda di trasferimento all’università di Parma è stata accolta. Felicitazioni». «Quale domanda? Quale trasferimento? Quale Parma?». chiese Marconi prima di rendersi conto (è stato sempre bravo a capire le cose al volo) che il Magnifico lo aveva trasferito d’ufficio. Così si faceva, prima della contestazione, con le teste calde. Chiusa anzitempo la carriera di medico, cominciò quella di gallerista. Marconi ammirava Sironi, Carrà, De Pisis, ma non erano i pittori della sua generazione, quella che aveva trent’anni negli Anni Sessanta. I pittori della sua generazione erano Enrico Baj, Emilio Tadini, Bepi Romagnani, Valerio Adami. Allora non battevano chiodo e si ritrovavano nel laboratorio di via Tadino. «Ci si vedeva verso mezzogiorno e si cominciava a discutere. Verso le due, due e mezzo andavamo a mangiare alla Botte d’Oro. E sempre a parlare, parlare. Chi non ha vissuto quel periodo non saprà mai che cosa significa davvero discutere. Altro che talk-show. Una volta, molti anni dopo, prendemmo con Baj un taxi all’aeroporto di Los Angeles e cominciammo una delle nostre consuete discussioni: l’arte nucleare lì; il manifesto Blanco di Fontana là; la patafisica qui; il dada qua; Dio bonino, non capisci niente; ma sta’ zitto tu, col tuo fungo atomico... Cominciammo a litigare e il tassista si impaurì e voleva chiamare la polizia. Ecco, nell’arte a un certo punto è scomparso tutto ciò, la voglia di riunirsi al caffè, la voglia di discutere. Oggi ogni artista sostiene che c’è lui e basta, ha vinto l’individualismo o, se preferite, l’onanismo. I miei pittori con le loro opere pensavano, e lo pensavano sul serio, di parlare al popolo». L’11 novembre 1965 Marconi inaugurò la sua galleria nel laboratorio di via Tadino 15. I quattro protagonisti della prima vernice (Adami, Del Pezzo, Schifano e Tadini) non sono presentati dal solito catalogo bensì da una trovata che testimonia il genio pubblicitario e comunicativo di Marconi e dei suoi. «Facemmo una scatola che conteneva un quadro, trasformato in puzzle, di ognuno degli artisti in mostra. Ne stampammo mille esemplari che andarono a ruba. Me lo chiese anche il direttore del Moma di New York». Da quell’11 novembre e per un quarto di secolo lo Studio Marconi ha imposto mode e stili a Milano. A raccontarlo oggi tutto sembra nascere dal caso. Ma attenzione: «Il caso è logico». dice Picabia, uno dei maestri di Marconi. Per caso, per esempio, Adami di ritorno da Roma aveva detto a Marconi: «Ma perché non prendi Schifano? uno bravo». « bravo sì, purtroppo è legato con un contratto a vita alla Sonnabend. Figurati se me lo molla». «Ma no. Guarda che a Roma mi hanno detto che Schifano ha rotto con la Sonnabend». Il mattino dopo Marconi è a Roma nello studio di Mario Schifano, bello e dannato. «Sono andato a Roma e l’ho cuccato. Era lì che aspettava qualcuno che gli desse il grano. Perché questa era la realtà». Marconi sa a memoria la descrizione che in quegli anni Goffredo Parise fece del pittore: «Schifano è un uomo di trent’anni, di tipo sommariamente mediterraneo, se non arabo. In riposo il suo corpo, alto circa un metro e settanta, del peso di cinquantacinque chili, visto da angolazioni e distanze diverse, rivela anzitutto un languore felino, innocente e attonito. Come un piccolo puma di cui non si sospetta la muscolatura e lo scatto». (E qui mi corrego: assieme a Vasari, tra quelli che sanno scrivere di pittori, bisogna mettere Parise). Marconi ha molto da raccontare sui suoi pittori. Su Tadini potrebbe scrivere un trattato dal titolo: Sull’evoluzione, lo slittamento e lo scivolamento delle tasche sui pantaloni del pittore Emilio Tadini. Tadini era, infatti, noto a Milano anche per l’originalità (pratica prima ancora che estetica o, per meglio dire, chic et pratique) dei suoi calzoni. Avevano dei tasconi (all’interno dei quali Tadini ricoverava di tutto) che hanno anticipato la moda dei pantaloni detti poi cargo. «Sì, ha mutato varie tasche», conferma Marconi, «prima erano normali, poi sono andate di lato, quindi sono scivolate di sotto...». Su Baj, per dirne una, c’è quella dei Funerali dell’anarchico Pinelli. Il quadro, articolato come un antico altare, è famoso e imponente. Al centro, la finestra della questura di Milano da dove l’anarchico Giuseppe Pinelli, convocato a proposito della strage di piazza Fontana, precipitò (per malore attivo sentenziò la magistratura o perché qualcuno gli diede una spinta, secondo l’impressione dei più all’epoca). Sotto, l’anarchico che vola nel vuoto. Ai lati, figure minacciose e gente sconvolta (il famoso popolo dei pittori di Marconi), per terra fuori dal quadro colate di vernice e altro. Un’opera impressionante, emotiva, feroce, pietosa. «II nemico di Baj era chi offende il mondo. Era il senso ultimo della sua arte». Si fecero avanti acquirenti per i Funerali, Baj decise di regalarlo alla vedova Pinelli. «Poi si scoprì, nell’imminenza del trasloco, che nel quartierino della vedova l’opera non ci stava, era più grande della casa che doveva contenerla. «Oh Dio», mi disse Baj, «e ora come si fa?». Alla fine decise di venderlo e di devolvere il ricavato alla signora Pinelli. «Lo compri tu, Giorgio». mi disse Baj. Lo guardai. «Non ti preoccupare. Lo so che costa un patrimonio. Vuol dire che ti aiuterò io nel pagamento». Questi erano i pittori di Marconi. Ma bisogna vedere anche che cos’era Marconi per i suoi pittori. Ancora un episodio riguardante Baj. L’artista lasciò una nota nel testamento che diceva: «Marconi venga in casa e si scelga quello che vuole perché voglio che abbia un mio ricordo». Era un assegno in bianco, un segno di estrema generosità. Al posto degli eredi sarei stato legittimamente preoccupato. Nella collezione privata di Baj c’erano quadri di artisti, come Picabia e altri, di valore inestimabile. Marconi chiese alla vedova: «Quale è l’ultimo quadro che Enrico stava dipingendo?». Prese quello. «Perché mi divertiva l’idea», dice. Ma perché è anche un modo, diciamo noi, di stare vicino all’amico fino all’ultimo respiro, all’ultima pennellata. I pittori per Marconi sono stati come fratelli, come figli forse. Difficile fargli confessare il più amato. Si indovina un debole per Schifano, il ragazzo d’oro della pittura italiana finito prigioniero di pusher che gli facevano fare il cottimista dell’arte in cambio di dosi sempre più massicce di droga. «Gli ho voluto bene. L’ho portato a Milano. Gli ho affittato una casa in centro così che non si sentisse emarginato. Alla fine pagavo una bolletta del telefono che surclassava l’affitto. Non ce la faceva proprio via da Roma. A Milano stava male». L’ultima volta lo vide l’anno prima che morisse. «Erano dieci anni che non andavo più a trovarlo a Roma. Ci telefonavamo. Come mi ha visto, ha cominciato a piangere. Ci siamo messi a chiacchierare. E lui a un certo punto: ”Aspetta un momento”. Nello studio c’era una scala a chiocciola. Saliva su, a sniffare, a prendere forza. Scendeva giù e parlava, parlava. Poi: ”Aspetta un momento”. Di nuovo su per la scala. Sono uscito distrutto da quella visita. Mi sono detto: ”Non lo rivedrò più, mi terrò il ricordo che è più dolce”. Mario è stato uno degli artisti più belli che abbiamo avuto. Ricordo che quell’ultima volta mi disse: ”Devo lavorare, scusami, devo consegnare questi quadri domani. Se no quelli mi fanno qualche scherzo cattivo”. ”Quelli chi? Cosa vogliono da te, Mario?”. Gli domandai. ”Aaahhh”, prese a urlare, ”non posso dire, sono cazzi miei. Ma che vuoi sapere. Tu mi dovevi correre dietro, non mi dovevi lasciare. Così non capitavo qui a fare casini. Capisci?”». Sembra o no, una vita di pittore raccontata da Vasari? Tra tanti pittori figli e fratelli, ci fu poi lo zio d’America: Man Ray, principe dell’arte del 900, maestro di tutte le avanguardie, l’uomo che cambiò il nostro modo di guardare il mondo. Eppure negli Anni Sessanta lo avevano dimenticato. Viveva solitario a Parigi che era stata la scena delle sue beffe, il teatro delle sue provocazioni. Marconi va a trovarlo, portato e presentato da Baj. La casa è in rue Férou. il 1968, l’anno della contestazione e del Maggio Francese e il principe dei rivoluzionari non lo conosce quasi più nessuno. «Man viveva con la moglie Juliette in un grande locale con un soppalco coperto da un tetto a vetrata. Prima della guerra era un cortile fra tre case. Dentro, quando pioveva, non si poteva parlare per il rumore della pioggia sui vetri e per lo scrosciare dell’acqua dai pluviali. Si rimaneva zitti, guardandosi in faccia, bevendo tè e ascoltando jazz ad alto volume». La prima visita durò parecchie ore. A Marconi sembrava essere ritornato nei gabinetti delle fiere dove andava da bambino a vedere orrori e meraviglie d’ogni genere: feti mostruosi, donne barbute. Erano gli oggetti di Man Ray che nessuno comprava piu, opere oggi di valore inestimabile e che Marconi conserva in due armadi nella sua Fondazione e sono il suo nuovo sogno: un museo Man Ray a Milano: «Non un cimitero, quello Man ce l’ha già ed è il più prestigioso di tutti, il Père-Lachaise, ma un museo vivo, come viva è la sua arte». Come fece Marconi a venire in possesso di questo tesoro dell’arte novecentesca è una storia di pazienza. Marconi andava a trovare Man Ray cinque o sei volte all’anno. Avrebbe comprato tutto ma sapeva, è uno dei segreti del suo mestiere, che bisogna attendere. Il momento venne e fu come se il presidente degli Stati Uniti in persona spalancasse a Marconi le porte blindate di Fort Knox e dicesse davanti a quella immensa riserva di oro: «Guarda, tutto questo da oggi sarà tuo». «Alla fine di una mia visita Man mi disse: ”Ti voglio fare un regalo. Ti do il mio portfolio personale di 10 tavole au pochoir del 1926. Sono tra le prime cose fatte dopo la mia venuta a Parigi”. Grazie prego, saluti, con mia grande emozione. Man mi accompagnò alla porta con i pacchi di tele e disegni acquistati e con il prezioso regalo. Un abbraccio e ”à bientôt”. Dopo una ventina di passi mi sentii richiamare: ”Giorgio!”. Tornai indietro e Man mi disse: ”Donne-moi cent dollars, je crois qu’il porte malheur donner d’oeuvres d’art”. Gli diedi cento dollari perché non ci portasse male a me e a lui quel regalo. Per alcuni giorni mi ritornò quel flash della piccola porta in rue Férou con la testa di Man Ray sporgente che mi richiamava. Cento dollari, niente, e in cambio avevo Man Ray». Le storie di Marconi non finirebbero mai. Un’ultima domanda. Come mai chiuse nel 1992? «Perché non capivo più. Oggi le opere hanno bisogno della spiega allegata che ti dice cosa significano. I quadri dei miei pittori parlavano da soli. Oggi tutto è diventato tremendamente concettuale. E anche la nostra vita è tremendamente concettuale. Tu quante opzioni usi del tuo telefonino? Io tre. Tutto è troppo complicato, bisogna rallentare. Che ne dici di un caffè corretto Fernet? Dai, che lo preparo, poi ti faccio guardare da vicino il ritratto di Picasso fatto da Man, quello in cui gli ritoccò tre capelli, tre di numero. Capisci? L’uomo che voleva distruggere i musei faceva la messa in piega a Picasso! Che sacramenti erano i miei pittori!». Antonio D’Orrico