Enrica Brocardo Vanity Fair, 02/12/2004, 2 dicembre 2004
Il cervello anziano di Paolo Poli, dove bene e male sono aggrovigliati, Vanity Fair, 02/12/2004 Sotto la veste bianca da suora, spunta la coda rossa del diavolo
Il cervello anziano di Paolo Poli, dove bene e male sono aggrovigliati, Vanity Fair, 02/12/2004 Sotto la veste bianca da suora, spunta la coda rossa del diavolo. Un doppio travestimento perfetto per Paolo Poli, attore di teatro da una quarantina d’anni, elegante e colto signore del secolo scorso («sono nato a Firenze nel 1929, nell’orribile momento della depressione e della conciliazione fra lo Stato e la Chiesa») che, nel 1967, per il suo primo travestimento da donna, scelse di indossare l’abito da suora. Quello di santa Rita da Cascia. Durò poco: le forze dell’ordine entrarono a teatro con in mano l’accusa di vilipendio alla religione. L’uomo dello scandalo, la maggior parte degli italiani se lo ricordava nel teleschermo a cantare canzoni per bambini. In tv non l’hanno praticamente più visto. Lui ha continuato a riempire i teatri. Qual è stata la sua ultima apparizione in tv? «Non lo ricordo. Facevo dei ”fegatelli”, con il mago Zurlì, con Gaber. Vendevo quelle canzoni che non piacevano né a Cristo né al diavolo, che non disturbavano le famiglie. Dovevo sopravvivere. In teatro d’estate non si fa nulla e io, che non andavo alle Bermuda, stavo a Milano e lavoravo per la tv». Il ricordo migliore? «Le Kessler. Allora, l’italiota col culo basso vedeva queste con le gambe lunghe sei metri e godeva assai. C’era pure la macchina da presa a terra che allungava la prospettiva. Però, erano carine davvero. Come i carabinieri, facevano poco, ma preciso». Sono di nuovo in tv. «Sì, però la mucca è più bella giovane». E della ”Canzonissima” con Sandra Mondaini, che cosa mi racconta? «Si fece una robina-ina-ina. Lei sapeva fare la bambina piccina e allora anch’io feci il bambino. Io ero quello buono e lei quella cattiva, che mi faceva i dispetti. Le famiglie si divertivano: ”Guarda, proprio come la nipotina”». Come finì la collaborazione con la Rai? «Finì perché cominciò ad andare meglio il teatro, che è quello che mi piace, con il pubblico vero che la sera si mette il vestito buono, esce, paga il biglietto». Sicuro di non essere stato messo da parte nella tv degli anni Sessanta? «Ma figuriamoci. Tutti dicono poverina la Guzzanti. Ma nessuno piange su Torquato Tasso che è stato otto anni al manicomio». Forse dipende dal fatto che è successo tanto tempo fa. «Amore, perché nessuno ricorda. Voi siete tutti imbecilli che guardate solo la cronaca». Com’è cambiata la tv da allora? «Non lo so. Sul telecomando ci sono un sacco di bottoncini, non so quale pigiare, allora acchiappo un libro». E la morale è cambiata? «Si fa ma non si dice, come negli anni 30». Tutto uguale? «Nel profondo l’uomo non cambia mai. Perché si può leggere ancora Dante Alighieri? Perché l’uomo è sempre quello. Perché si può leggere ancora il Petrarca? Perché ancora c’è il dispiacere d’amore. ”Erano i capei d’oro all’aura sparsi...”». Ho capito, però... «Oggi ad Andreotti gli fanno dire le barzellette. E alla troia di turno le fanno le domande sull’economia mondiale». Quello che volevo chiedere... «Dimmela». Rispetto all’omosessualità è cambiato qualcosa? «Si passa alla storia o come grandi amatrici o come grandi lavoratori. Io come troia non so se ho avuto tutto questo seguito. Oggi c’è più apertura. Ma solo di parata». E quando era giovane? «Nessuno mi ha mai ammazzato. Sono stato bionda ossigenata. Che per una donna voleva dire essere poco seria e per un uomo essere finocchio». Quando ha capito di essere gay? «Fin da piccolissimo. C’era il fornaio: lo adoravo. Poi andai al cinema a vedere King Kong e capii che mi garbava. Allora alle femmine si regalava la bambola e ai maschi il fucilino. Mi sparai in un occhio, stetti un anno con la benda. Che, per la verità, mi dava un fascino piratesco...». E gli altri quando iniziarono a capirlo? «Da sempre. Il mio babbo e la mia mamma mi amarono per quello che ero, non per quello che avrei dovuto essere. Mia madre aveva una cultura laica, era una maestra montessoriana. Diceva: ”Se è intelligente il bambino impara da solo”. Ho fatto la terza perché sono andato a scuola da me». E la prima e la seconda? «Le ho saltate. Sapevo leggere e scrivere fin da piccolino. In casa avevo l’Artusi, L’arte di mangiar bene. Un libro delizioso: ”La cucina è una bricconcella che spesse volte fa disperare. Fatevi avanti signor polpettone”. E così via». Ha imparato anche a cucinare? «No. Mangio poco. Alla mia età si fa come il cane. Una volta al giorno basta. La giornata è diventata corta». Si sente così vecchio? «Per fortuna sì. Nel cervello anziano, tutto è aggrovigliato, il bene e il male. Sono sopravvissuto alla glaciazione. Tutti i miei compagnucci del teatro sono morti». A chi era più legato? «Ho voluto bene a Laura Betti, che è morta a 80 anni. Se n’era cavata dieci: sulla carta d’identità c’era una macchia di scolorina e non si riusciva a leggere bene». Si diceva che aveste una storiella. «Macché. C’era intimità, quello sì. Non chiudeva la porta neanche se era sul cesso. Quando pisciavo veniva lì. Una virago». Cioè? «Tutte le donne che ho conosciuto erano delle virago, altrimenti non ce l’avrebbero fatta. La Callas, per esempio, era insopportabile. Pisciava nei lavandini per la paura del pubblico: alzava le sottane e faceva ”un’amazzone” veloce sul lavello, il primo che trovava. Uno schizzo a uomo». E dei grandi attori chi ricorda di più? «Marlon Brando. L’ho conosciuto quando venne a Roma. C’era un progetto per fare Ulisse con Greta Garbo, ma lei non accettò, poi il film lo fece la Mangano con Kirk Douglas. Un polpettone, ma garbato». Com’era Brando? «Aveva appena visto la Cappella Sistina, era abbacinato. Lo raccontava a casa di Zeffirelli. C’era anche Lucia Bosé, era appena scappata da Walter Chiari. Anche lui simpatico, mezzo scemo, ma buono». E lei che ci faceva a casa di Zeffirelli? «Ero ospite, di passaggio. A quell’epoca facevo i fumetti». Scusi? «Sì, i fotoromanzi. Facevo soprattutto il signorino, il figlio del padrone. Delle robe orrende». E il cinema? «Diciamo la verità: nessuno mi voleva. Volevano Maurizio Arena, quel genere bisteccone». Però, Fellini le offrì una parte. «Sì, nella Dolce vita, ma avevo già firmato per il teatro. Veniva in camerino, mentre mi cambiavo: ”Non ti vergogni mica a levarti le mutande?”, ”No, no”, rispondevo. Mi guardava. L’ultima volta che lo vidi avevo 60 anni: ”Cominci a metter su pancia anche tu”, mi disse». Che ricordo ha della vera dolce vita? «Una settimana con Laura Betti si campò a noccioline e whisky. Non c’era altro. Però che belle, magre». Belle e magre chi? «Lei e io. Bisogna imparare a fare il plurale al femminile». E le grandi donne di adesso? «Ormai sono tutte bonine, raccontano i loro matrimoni». Non stima proprio nessuna? «Mia sorella (Lucia, anche lei attrice di teatro, ndr). Lei è un genio. Il suo uomo sta al piano terreno, lei al primo, il figlio al quarto, un grattacielo di felicità». Lei non ha mai avuto lunghe storie d’amore? «Sono frivolo. Dell’inzuppo quotidiano non me ne frega nulla. Ho avuto tanti amici. Usa e getta, se è una roba che piace al momento, ma poi quello che rimane è l’amicizia, come nel matrimonio: al sesso sopravvive la stima». La solitudine non le pesa? «Sono uno di sei figlioli di un carabiniere, sicché 5 da capo, 5 da piedi, sfollamenti, bombe. A volte mi sveglio di notte, allargo le gambe e non c’è nessuno. Che gioia. Tanto siamo sempre soli, anche se hai uno di fianco che russa». Ha mai desiderato un figlio? «Ho tentato di prenderne due in affido. Mia madre era ancora viva. Mi diedero, in prova, due fratelli, uno di otto anni, l’altro di dieci. La madre faceva la prostituta». Come andò? «Erano troppo grandi. Volevano tornare dai preti per giocare al calciobalilla, che io non avevo, però avevo un cane, il pallone, spazio per correre, ma non gliene fregava niente. Tanto non me li avrebbero lasciati lo stesso. Ricordo una dottoressa: ”Vede, l’ideale sarebbe quello”, mi disse accennando a un quadro con la Madonna, Giuseppe e Gesù. ”Famiglia più disastrata di quella non si trova”, le risposi». Ha provato altre volte? «Una volta sono andato in un istituto. C’erano stanze piene di bambini di quattro anni che camminavano a gattoni, dicevano solo ”mamma” e ”cioccolato”. La suora mi disse: ”Ne prenda due e scappi. Li ho tirati su a caso, nel mucchio, un infermiere mi ha rincorso e me li ha levati dalle braccia». Enrica Brocardo