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 2004  novembre 21 Domenica calendario

Sulla Uno Bianca tutta la banalità del male, la Repubblica, 21/11/2004 Sono passati dieci anni. Arrivano all’appuntamento con l’auto civetta, i giubbotti chiusi, le mani in tasca, il buio alle spalle

Sulla Uno Bianca tutta la banalità del male, la Repubblica, 21/11/2004 Sono passati dieci anni. Arrivano all’appuntamento con l’auto civetta, i giubbotti chiusi, le mani in tasca, il buio alle spalle. Poliziotti. Facce tese. Sono passati dieci anni, ma stanno, come allora, al commissariato di Rimini, squadra antirapina, si chiamano Luciano Baglioni e Pietro Costanza. Sono i poliziotti buoni, dentro a una storia di poliziotti cattivi. Sono la chiave di una serratura che sembrava sigillata nel sangue. E che i giornali hanno raccontato per 7 anni - dal 1987 al 1994 - conteggiando 24 morti ammazzati, 103 feriti, 92 rapine. Sono quelli che insieme con un giovane magistrato di Rimini, Daniele Paci, che il 28 gennaio del ’94 riaprì il fascicolo impolverato e disse: «Ricominciamo tutto da capo», hanno pensato l’impensabile, scavato dove nessuno scavava e poi intercettato, seguito e fermato per sempre la corsa dei fratelli Savi e della Uno bianca. Dentro alla Uno bianca ci stavano parecchie cose, armi, guerrieri, fortuna e una scia assordante di allarme sociale. Ma specialmente, dentro la Uno bianca, ci stavano i due fratelli Savi, Roberto e Fabio. Il corto e il lungo. Il capo e il gregario, legati da un destino scelto una volta per tutte, andare a caccia di soldi, adrenalina, dominio. Prendersi tutto, compreso il salmastro della costa. I fratelli Savi sono complementari per carattere. Fabio spara senza emozione. Roberto spara per educare. Dice: «Tutti devono avere paura della Uno bianca». Fabio scavalca i banconi delle banche per obbedienza. Roberto per sfida. Insieme si sentono invincibili. Protetti dalle armi, dalla precisione di tiro, dalla accuratezza dei sopralluoghi, dall’assenza di scrupoli. Pronti a terremotare un intero palazzo con l’esplosivo, 40 feriti a Bologna, per violare una banca e andarsene con meno di 20 milioni. Pronti a entrare in un’armeria, 2 maggio 1991, uccidere la proprietaria e il commesso per portarsi via un paio di calibro 9. Pronti a uccidere due senegalesi, a San Mauro Mare, oppure a entrare in un campo nomadi, lasciandosi alle spalle due cadaveri e due feriti solo per depistare le indagini, far scorrere l’adrenalina dell’odio razziale, provare due fucili appena comprati. Nessuna regola, nessun limite, nessuna logica. Nessun errore, fino al giorno in cui il lungo lascia la propria immagine sbiadita, sul nastro della telecamera di controllo di una banca di Cesena. , in tutti i sensi, il primo giorno di primavera del 1994. Baglioni e Costanza, i poliziotti buoni, tengono quell’immagine sul cruscotto della loro Y 10. Raccontano: «Avevamo due occhi, un paio di occhiali, lo zigomo. Non molto , ma qualcosa. In più sapevamo che la malavita stava sotto pressione e ce li avrebbe venduti volentieri. Sapevamo che era gente fuori dal giro, incensurati. Probabilmente romagnoli perché padroni del territorio. Più o meno: due milioni di sospetti». In commissariato hanno una grande mappa della Romagna. Spilli rossi per gli omicidi, le banche, i furgoni assaltati. Spilli gialli per le auto rubate. Verdi per quelle abbandonate, i cambi, le vie di fuga. Baglioni e Costanza scoprono delle costanti negli assalti. Sempre piccole banche. Sempre una uscita non protetta per handicappati. Mai guardie giurate. Sempre due cambi di auto. Sempre un’autostrada nei paraggi. Dalle costanti, devono estrarre l’incognita principale: la prossima banca in elenco. L’incognita è l’ago nel pagliaio. Ci metteranno otto mesi di appostamenti e migliaia di sigarette per trovarlo. il 2 novembre 1994, quando davanti all’Istituto di Credito di Santa Giustina, Rimini, passa due volte una Fiat Tipo con la targa illeggibile, sporca di fango. Passa lenta, si ferma, riparte. La seguono, la perdono, la ritrovano a Torriana. Vedono un uomo che entra in casa. alto. lungo. Si guarda intorno prima di sparire dentro al portone. Vanno in Comune. Trovano la foto, stessi occhi, stessi occhiali, stesso zigomo. Chiamano Paci a Rimini: «Dottore, se hai una sedia è meglio che ti siedi». Di corsa in Questura a Bologna a controllare. Savi Fabio non è nulla: ex camionista, ex carrozziere, disoccupato. Però ha un fratello. Salta fuori la foto. C’è una giovane poliziotta che dice: «Questo assomiglia all’identikit del bandito dell’armeria». C’è un altro poliziotto che dice: «Ma no. Questo lo conosco, è Roberto Savi, un collega, sta su, alla sala del 113. Te lo chiamo?». Gelo. Baglioni è il più svelto, chiude il fascicolo, ringrazia, dice: «Ci siamo sbagliati». Escono a respirare. Raccontano: «Fu un momento terribile, a quel punto non sapevamo più di chi fidarci». Controllano le presenze di Roberto Savi in Questura. Tombola. Ogni volta che da qualche parte tuona la Uno bianca, Roberto è in malattia o in ferie. Saltano fuori altri nomi, altri colleghi, Pietro Gugliotta, Marino Occhipinti, Gianluca Vallicelli, tutti duri, tutti solitari, tutti bravi a sparare. Baglioni e Costanza ricordano ogni giorno e ogni notte di quel novembre ghiacciato del 1994, pioggia su tutta la costa, appostamenti, intercettazioni telefoniche, pedinamenti. Fino al quel 21 novembre, ore 4 del mattino, Roberto Savi che esce di casa, direzione Marina di Ravenna. Raccontano: «Sappiamo che stanno per assaltare una banca. Lui sta facendo l’ultimo sopralluogo. Noi gli stiamo dietro, ma siamo troppe auto. Roberto sospetta, si sgancia. Di colpo spariscono tutti quelli che stiamo seguendo». Roberto ricompare quindici ore dopo nella sua vecchia vita. Prende servizio. «Su di lui abbiamo un mucchio di indizi, ma nessuna prova. Decidiamo di fermarlo lo stesso». Lo bloccano. Nessuna resistenza, faccia impenetrabile. armato. Pronuncia una sola frase che equivale a una resa: «Potevo farvi saltare tutti in aria». Fabio Savi è in fuga, verso il confine del Tarvisio con al fianco una piccola bionda a serramanico, Eva Mikula, romena, 19 anni, e i nervi a pezzi. Li intercettano due giorni dopo, ore 3 del mattino, sono in un’area di servizio, e stanno litigando. Lei non vuole attraversare nessun confine. Lui non ha documenti, non ha soldi e non ha più Roberto a dirgli quello che deve o non deve fare. Addosso ha una Beretta 9x21 con 5 caricatori. Può finire la guerra a suo modo. Invece quando vede i due ragazzi della stradale che gli chiedono i documenti, si arrende. Eva è ancora più svelta, scoppia a piangere, ha freddo, ha paura. Dice che ha visto l’inferno, le armi, i soldi, i complici e ha preso un sacco di botte. Racconta quello che manca. Salta fuori il terzo dei fratelli, Alberto Savi, anche lui poliziotto, commissariato di Rimini. Racconta Costanza: «Mi ricordo il giorno in cui Alberto confessò e lo schiaffo che gli diede il capo. Uno solo, fortissimo». Accadeva tutto più o meno in queste ore. Per Baglioni e Costanza sono gli ultimi fotogrammi di un’altra vita, ritagliata tra la linea bianca dell’Adriatico e il nero degli incubi dell’entroterra, lungo la quale hanno lampeggiato rapine senza senso, esecuzioni senza movente, fughe senza indizi. E sempre la stessa ombra. L’ombra era diventata la loro ossessione. L’ombra sembrava tante cose insieme: mafia, falange armata, servizi segreti, terrorismo incaricato di infrangere la vetrina di Bologna. Per l’assalto ai caselli era stata arrestata una banda di slavi, per i furgoni un gruppo di catanesi, per la strage del Pilastro i fratelli Santagata. In tutto 55 errori giudiziari. Perché quella che correva tra Rimini, Pesaro, Forlì e Bologna, che sfuggiva a tutti i controlli, a tutti i blocchi stradali, a tutte le indagini, era una cosa sola. Una storia unica. Che per di più conteneva il mondo rovesciato. E loro lo sapevano, lo avevano sempre saputo, anche se nessuno, tranne il sostituto Daniele Paci, gli aveva mai creduto. La Uno Bianca è stata la più sanguinaria banda di malavita mai apparsa nella storia d’Italia. Assalta banche da 200 milioni e la volta dopo uccide un benzinaio per un milione. Insegue due ragazzini, dopo un diverbio stradale, scaricandogli addosso armi da ergastolo. Torna indietro per uccidere i testimoni, come il 27 dicembre del 1990, a Trebbo di Reno, durante il cambio dell’auto. Un uomo appena uscito di casa, Paride Pedini, si ferma a guardare questa Uno bianca abbandonata e spalancata, mentre la moglie, dalla finestra di casa, vede l’auto in fuga tornare indietro, un uomo, il corto, scendere con una pistola in mano. Lei grida, il marito non sente. Il corto gli si avvicina, gli spara. Lei grida, lui cade. Il corto gli è sopra per l’ultimo colpo. A volte capaci di aprire il fuoco solo sospettando un’intercettazione, come al Pilastro, quartiere di Bologna, notte del 4 gennaio 1991, tre carabinieri fucilati, Otello Stefanini, Mauro Mitilini, Andrea Moneta, tutti e tre ventenni, spazzati via da un volume di fuoco impressionante, proiettili Remington 222 ad alta velocità. Con Roberto Savi, che al processo dirà senza emozione: «Il motivo? Temevamo un controllo. Sì, signore, avevo il fucile mitragliatore al fianco. Sì, signore, siamo scesi. No, negativo signore, non abbiamo più sparato, erano tutti morti». Soldati, questi della Uno Bianca. Soldati che odiano gli omosessuali, i neri, gli zingari, i tossici, i perdenti. A modo suo soldato pure il padre, Giuliano, uno ex Marcia su Roma, appassionato di armi, duro, disciplinato, che un giorno di marzo del 1998, a 72 anni, ingoia tutto il suo rancore insieme con 7 scatole di Tavor e prima di morire lascia un biglietto pieno di disprezzo per i figli: «Hanno ucciso 24 persone per quattro soldi, sono stupidi. Dovevano spararsi in testa». Daniele Paci ha calcolato il bottino finale della grande corsa, 2 miliardi e 170 milioni, meno di 100 milioni a cadavere. Ha ottenuto 4 ergastoli, più altri 30 anni, e la confessione finale di Roberto Savi: «Negativo signore, dietro la Uno bianca non c’è proprio niente. Dietro la Uno bianca c’è solo la targa». Baglioni e Costanza non hanno avuto promozioni, solo un encomio solenne, per aver ripulito il fango dei Savi che, tra i tappeti del Viminale, ha sempre generato troppi silenzi e molto imbarazzo. La storia è finita dieci anni fa. Anche se per un mucchio di gente non finirà mai. Per i parenti dei morti, per esempio. Per i feriti. Per Fabio Savi che respira l’aria di Fossombrone. Per Roberto Savi, che in questi anni, nel carcere militare di Forte Boccea, ha tentato un’evasione e un suicidio. Per Baglioni e Costanza che abiteranno, per sempre, dentro il salmastro della costa e una storia che ancora oggi non sembra vera. Pino Corrias