Edmondo Berselli la Repubblica, 19/11/2004, 19 novembre 2004
Ma Gianfranco Fini è un miracolo o un miracolato?, la Repubblica, 19/11/2004 La domanda più insidiosa è se Gianfranco Fini è un miracolo o un miracolato
Ma Gianfranco Fini è un miracolo o un miracolato?, la Repubblica, 19/11/2004 La domanda più insidiosa è se Gianfranco Fini è un miracolo o un miracolato. L’uomo che neanche quindici anni fa, al congresso di Rimini, contendeva a Pino Rauti la guida del Movimento sociale, con le due fazioni avverse che assistevano allo spoglio dei voti gridando «eja!» e «a noi!» a ogni voto scrutinato, il «fascista del 2000» pronto a giurare che i valori del fascismo erano assoluti, immodificabili, non storicizzabili, insomma eterni, abituato a festeggiare l’anniversario della marcia su Roma fra labari e braccia tese, ha raggiunto il suo traguardo. Mentre si prepara a entrare alla Farnesina, Fini ripercorrerà le tappe della lunga marcia verso e dentro le istituzioni. Se farà un bilancio rigoroso ammetterà che dal cielo una mano santa gli ha consentito di commettere tutti gli errori possibili e di superarli come se niente fosse, con bellissimi quanto non dichiarati pentimenti. Leo Longanesi attribuì a Benito Mussolini la definizione teorica del fascismo: «Pragmatismo assoluto trapiantato in politica». L’ex massimo statista del secolo sarebbe lieto di considerare Fini come un buon allievo. Da quando Silvio Berlusconi sdoganò il pupillo di Almirante, a Bologna, anno di grazia 1993, dichiarando che fra Rutelli e Fini avrebbe scelto quest’ultimo, dato che «condivide tutti i valori in cui credo» l’ex capetto missino è riuscito in uno slalom formidabile: nel senso che ha abbattuto quasi tutti i paletti, ma è riuscito con infinito pragmatismo (per l’appunto) a evitare che gli rimbalzassero in faccia; si è opposto a tutte le modernizzazioni possibili, e in seguito si è proposto come il possibile modernizzatore. Si era aggrappato, con tutti i camerati missini, alla zattera del sistema proporzionale, convinto che il maggioritario, «voluto dalla Dc, dal Psi e dal Pds, dalla cupola della Confindustria e dal potere sindacale», li avrebbe soffocati. In effetti se l’Msi fosse restato inchiodato dalla logica dell’arco costituzionale, sarebbe stato liquidato. E invece aveva incrociato il genio geometrico di Berlusconi, l’inventore delle due coalizioni simmetriche, al Nord il Polo delle libertà con la Lega, e nel resto d’Italia il Polo del Buongoverno con i missini. Così mentre Roberto Maroni sosteneva in campagna elettorale di avere stretto con Berlusconi un’alleanza in chiave antifascista, Fini poteva stringersi nelle spalle e aspettare con fiducia il futuro. vero: aveva perso il Campidoglio contro Rutelli, ma era stato premiato dal voto popolare, quasi portato di peso dentro la democrazia. Ora si godeva l’ingresso nel Palazzo, dopo una segregazione di cinquant’anni. Gli intellettuali d’area, come Marcello Veneziani, ripetevano che la destra aveva imparato ad amare la libertà (non proprio la democrazia, la libertà). Altro che il vecchio slogan «tornate nelle fogne»: mentre non era ancora compiuta la trasformazione in Alleanza nazionale, i ministri post-missini potevano presentarsi in Europa. Magari per vedersi rifiutata la stretta di mano da un ministro belga; ma intanto occupavano posizioni, si facevano vedere, abituavano il continente alla propria presenza. E mentre il cosiddetto «ministro dell’Armonia» Tatarella attaccava populisticamente i poteri forti, mettendo nel mucchio la Fiat, la Banca d’Italia e la Corte costituzionale, Fini poteva godersi il piacere squisito dell’accesso al potere, la visita del tutto irrituale del cardinale Sodano, le passerelle rosse stese davanti ai nuovi arrivati. E poteva infischiarsene delle polemiche aperte da Umberto Bossi, «con la porcilaia fascista, mai!», e anche del ribaltone, dei «puttani» che avevano tradito il mandato del popolo. Nelle fasi di passaggio, succede. Intanto, ecco la qualità dello slalom: da proporzionalista disperato è diventato un fondamentalista del maggioritario, «uninominale pura, a turno secco, all’inglese», via la quota proporzionale (e perde il referendum perché non si accorge che Berlusconi ha virato). Da dipietrista assoluto, e da un sostegno fanatico ai magistrati del repulisti contro Tangentopoli, dall’ammirazione mostrata per Francesco Borrelli, giunge a una sfumatura più politicista e cavillosa, fino a sostenere la tesi para-berlusconiana che il pool di Milano «colpì da un lato e chiuse gli occhi dall’altro». Imprendibile Fini. Secondo alcuni, è l’uomo politico più moderno che ci sia in giro: anzi è oltre la modernità, è più in là, è nel pieno «post» culturale. Da questo punto di vista è ammirevole la strategia che portò all’assemblea fondativa di Alleanza nazionale, nel gennaio 1995, le cui tesi dovevano unire «autorità e libertà». I numi tutelari del partito erano esibiti in un santuario di icone disparate: Schmitt, Pareto, Mosca, Michels, Sturzo, Rensi, Tilgher, Gentile, Spirito, Prezzolini, Papini, Marinetti, Soffici, Evola, d’Annunzio, Gramsci. Tombola. Già, Gramsci. E Sturzo. Inconsapevoli compagni di strada del «partito degli italiani», il partito nemico delle faziosità, il partito più vicino alla nazione e al popolo. Era inutile che lo scettico Veneziani arricciasse il naso («Fini ha eliminato il fascismo come fosse un calcolo renale»): ciò che importava è che nell’opinione pubblica passasse il messaggio che l’Msi si era ripulito, era abile e arruolato per la democrazia liberale, una colonna del bipolarismo. Con un solo esamino da Bignami, Fini superava trionfalmente il guado che invece aveva sempre tenuto fuori gioco il Pci, per il quale gli esami democratici non erano finiti mai. Acque davvero miracolose, quelle di Fiuggi. Del resto, chi può dire quale fosse e quale sia l’ideologia finiana? Un certo gollismo per rassicurare il desiderio di autorità del suo elettorato anziano; un po’ di chiracchismo per dare allure al populismo post-missino; il sostegno assicurato alle destre di tutto il mondo, dai repubblicani americani ai cristiano-democratici tedeschi. Sicché non dovette apparirgli del tutto incongrua l’invenzione dell’Elefantino alle elezioni europee del 1999, l’alleanza con il liberale e maggioritarista Mario Segni; salvo poi smontarla subito, quella coalizione estemporanea, dopo il mezzo disastro nelle urne. Nella sua capacità di avvolgere di parole il suo eclettismo totale, ogni tanto Fini sbaglia qualcosa. Sbaglia ad esempio l’uscita contro i maestri gay, rivelando per un istante il vecchio volto omofobo del fascismo. Ma non sbaglia la lunga traversata che lo porta in Israele, prima facendosi intervistare dal quotidiano israeliano di sinistra ”Ha’aretz” e chiedendo scusa per le leggi razziali del 1938, e poi con la storica visita in cui rende omaggio allo Yad Vashem, il memoriale della Shoah, e dichiara che la politica razziale del fascismo appartiene alla categoria del «male assoluto». Si arrabbiano tutti, in Italia, gli ex camerati, ma dopo qualche giorno di sbandamento e di rutilanti dichiarazioni di Francesco Storace se ne va soltanto Alessandra Mussolini. Sono i miracoli di un eclettico. Di un pokerista. Di uno che è stato ammiratore e sodale di Jean-Marie Le Pen e che poi è diventato uno strenuo avversario del lepenismo. Che passa indenne attraverso il disastro nostalgico del congresso di An a Bologna nel 2002, quando dopo un’esordio altamente istituzionale e convenzionale l’assemblea si tramuta in una fiera paesana di feticci fascisti. Un eclettico che dimentica prodigiosamente la politica missina, fieramente avversa all’Europa di Maastricht, e partecipa ai lavori della Convenzione fino a sfiorare il ruolo di padre fondatore. Adesso Fini entra definitivamente nella stanza dei bottoni. Da vicepremier i suoi si lamentavano: «se ne sta chiuso tutto il giorno a Palazzo Chigi dicendoci che non ha mai tempo; poi lo trovi che sta lì, in ufficio, a guardarsi il football americano in tv». Adesso è atteso alla prova della sua vita, dato che la Farnesina potrebbe essere l’anticamera della leadership del centrodestra. Salvo che qualcuno, nel mondo, un tipo che non sappia di miracoli, un ateo dichiarato, un incredulo, non si fidi della prodigiosa carriera dell’eclettico Gianfranco, voglia vedere se c’è il bluff, e poi scruti senza accondiscendere le carte di uno che è ex di troppe cose. Edmondo Berselli