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 2004  novembre 15 Lunedì calendario

Walter Chiari parlava e parlava per librarsi verso l’assurdo, La Stampa, 15/11/2004 Il Brancaccio è un enorme teatro romano che si trova tra il Colle Oppio e l’Esquilino

Walter Chiari parlava e parlava per librarsi verso l’assurdo, La Stampa, 15/11/2004 Il Brancaccio è un enorme teatro romano che si trova tra il Colle Oppio e l’Esquilino. Astutamente gestito da Gigi Proietti, ora è diventato un’ottima sala di quartiere, con repertorio brillante e pubblico affezionato. Ma c’è voluto uno sforzo, perché durante anni e anni, specie quando lo spettacolo non riusciva a riempirlo, sembrava più che altro un antro assai poco accogliente. Tornandoci pochi giorni fa mi sono ricordato improvvisamente di una serata particolarmente sinistra di tanto tempo fa. Walter Chiari era uscito di galera, dopo aver scontato una lunga detenzione per possesso di droga - allora i magistrati adoravano perseguitare le persone note, gli sembrava di diventare così un po’ famosi anche loro - e il sempre sfitto Brancaccio si offrì di ospitarlo per una rentrée. Il vasto spazio si affollò, atipicamente, anche di colleghi dello showman, molti venuti a manifestargli solidarietà; e per un po’ le cose si svolsero in clima di festa. Walter, che si era indubbiamente tenuto in esercizio anche dietro le sbarre, maniaco di sport com’era sempre stato, appariva in forma smagliante, e monologava a braccio, affascinando come al solito. Ma i lupi come si sa non perdono il vizio. Se fosse stato sotto stimolanti anche quella volta non so, certo il nostro eroe ripiombò a capofitto nella sua antica incapacità di fermarsi. Parlava e parlava, e la gente rideva; ma a un certo punto si cominciò a guardare l’orologio. Verso mezzanotte qualcuno cominciò a sgattaiolare via, a mezzanotte e mezza la platea mostrava ormai ampi vuoti. Noi, i fedelissimi, resistemmo finché potemmo (io ero venuto con un gruppo di cui faceva parte Monica Vitti, che al momento dell’arresto stava per recitare con Walter all’Argentina, nientemeno che in uno Shakespeare - Molto rumore per nulla diretto da Zeffirelli - che ovviamente saltò). Da ultimo, era l’una e venti, ci arrendemmo anche noi, lasciando Walter ancora alla ribalta a intrattenere i superstiti... Aveva sempre fatto così, Walter, improvvisava, non rispettava i tempi, si lasciava trascinare dalla verve. Per la prima mezz’ora vi incantava, per l’ora successiva lo sopportavate volentieri, a un certo punto avreste voluto ammazzarlo. Una volta alla Bussola di Forte dei Marmi allungò talmente il suo numero che Ornella Vanoni, in attesa per cantare dopo di lui, ebbe una crisi isterica e se ne andò singhiozzando, piantando tutti in asso. Ma questo era ancora il Walter euforico dei tempi belli. Quello di dopo la galera diventò patologico. Nell’86 - sarebbe morto sessantasettenne nel ’91, sono già quasi tredici anni! - Ugo Gregoretti, che gli voleva bene (chi non gli voleva bene?) cercò eroicamente di farlo recitare in un classico, Il critico di Sheridan, allo Stabile di Torino. Io avevo tradotto il lavoro ed ero particolarmente curioso di vedere il risultato, ma non ci riuscii mai, perché il debutto continuò a slittare. Walter si allargava sempre di più, peraltro molto spiritosamente, nel prim’atto, ma non imparava mai la parte del secondo e definitivo. Io dovevo partire per gli Stati Uniti e restarci vari mesi, alla fine ascoltai soltanto una prova generale della prima metà del testo, che a quel punto peraltro durava come uno spettacolo completo. A quanto seppi, anche in seguito le cose non cambiarono molto. Negli anni Settanta e Ottanta, disavventure giudiziarie a parte, Walter Chiari era stato, ancorché notissimo e popolare, un personaggio un po’ particolare nello show-business italiano. Il varietà, ossia il genere dov’era nato e dove si era imposto, non esisteva più altro che in televisione, e qui malgrado egli sporadicamente apparisse, e di solito con successo, la sua congenita indisciplina era certamente un ostacolo. Sulle scene di prosa arrivava ogni tanto e con esiti sempre positivi, ma solo in lavori su misura, come Il gufo e la gattina di B. Manoff, cavallo di battaglia ripreso infinite volte. Il cinema a un certo punto parve non sapere più cosa fare di lui. Eppure c’era stato un momento, moltissimo tempo indietro, addirittura nei primi anni Cinquanta, in cui fare un film senza Walter Chiari era sembrato impossibile. Proprio nel 1950 una pellicola leggera di Mario Mattoli, L’inafferrabile 12 (allora il Totocalcio si chiamava Sisal, e bastava indovinare il risultato di dodici partite), lo consacrò superstar. Tra quell’anno e il ’54 Walter apparve in trenta film, quasi sempre come protagonista assoluto, tutti prodotti a basso costo e di scarse pretese, ben pochi dei quali sarebbero entrati nella storia del grande schermo (tra i titoli: I cadetti di Guascogna, Arrivano i nostri, Lo sai che i papaveri, O.K. Nerone, Il sogno di Zorro, Siamo tutti milanesi...). Quasi l’unico ambizioso è Bellissima di Visconti (1951), dove Walter finì perché a riprese già iniziate il produttore, Salvo D’Angelo, supplicò il regista e la sceneggiatrice, che era mia madre, di trovare il modo di infilarcelo: solo così il film avrebbe trovato un noleggio, il nome della Magnani evidentemente non bastava. Fu inventato in quattro e quattr’otto il personaggino di Annovazzi, il millantatore che spilla quattrini alla madre dell’aspirante attrice; e Walter, che era intelligentissimo, lo rese a meraviglia. Non molto tempo dopo, è sempre mia madre a raccontarlo, i produttori italiani si riunirono per discutere il caso Walter Chiari. A quei tempi beati il costo totale di un filmetto poteva aggirarsi sui venti milioni di lire, ma Walter da solo era arrivato a chiederne una dozzina. Dove si sarebbe andati a finire? I produttori decisero di non offrirgliene più di dieci, e si impegnarono solennemente a non sfondare questo tetto. La sera stessa uno di loro fece firmare a Walter un contratto segreto per cinque film a quattordici milioni l’uno... Sembrano le storie dei club calcistici di oggi, cambiano solo le cifre. Comunque, Walter Chiari era un fenomeno. Era, innanzitutto, un totale autodidatta. Per esempio, e incredibilmente per uno che predilesse sempre l’esibizione dal vivo, non imparò mai a impostare la voce sul diaframma, come fanno gli attori di scuola, donde la sua caratteristica vocetta nasale, sgranata e molto affaticata (a quei tempi anche nei grandi spazi si recitava senza microfono). Non imparò mai a studiare un copione. Non imparò mai neppure, anche se questo suona paradossale, a recitare per il cinema - ossia a limitare al massimo i gesti e le contrazioni facciali. La differenza tra recitare per il teatro e per il cinema, disse una grande attrice inglese, è che a teatro devi uscire da te stesso e riversarti sul pubblico, come puntandogli addosso un fascio di luce; al cinema devi attirare il pubblico a venirti addosso, è il pubblico a investirti con i suoi sguardi. Ora, Walter era sempre estroverso; era, in senso attorale, la generosità fatta persona, o se volete l’esibizionismo allo stato brado; aggrediva lo spettatore, gli saltava addosso, lo snidava dalla poltrona dove quello si era rannicchiato. Era, anche, disinteressato. Intratteneva per il piacere di intrattenere, di condividere le idee divertenti che gli venivano lì per lì, e ce la metteva tutta sia che si trovasse sul palcoscenico del Sistina, sia che capitasse a cena con un gruppo di noiosi industrialotti della Brianza. Sopra ho detto che era intelligente; era anche, a modo suo, colto, leggeva di tutto, divorava tutto, si entusiasmava di tutto. Forse al tempo di Bellissima, mi interrogò sulle mie letture e si scandalizzò scoprendo che ignoravo i romanzi western di Zane Grey. Immediatamente me ne comprò alcuni, ma commise l’errore di affidarli a Citto Maselli perché me li recapitasse, e così, ahimè, non li vidi mai (all’epoca io ero bambino, ma anche Citto era ancora in età da apprezzarli). I lazzi di Walter erano goliardici, presumevano spesso una cultura liceale; a volte gli piaceva partire da una citazione letteraria, e di lì librarsi verso l’assurdo («Dal dì che ti ho vista... dal dì che... dal dì che! Daldicche! Come suona male!» - e avanti così, fino a: «Sembra un insulto. Ma vada via, daldicche!»). Gli altri comici erano fisicamente strambi, delle maschere, pensate a Totò, Macario, Aldo Fabrizi, Tino Scotti. Walter che invece era un giovanotto attraente, si rendeva ridicolo con le smorfie e gli occhi storti, fingendo timidezze esagerate, goffaggini iperboliche, eseguendo acrobazie; faceva il buffone all’antica. La rivoluzione di Alberto Sordi, primo comico a presentarsi come una persona del tutto normale, lo raggiunse solo quando aveva ormai vari decenni di carriera sulle spalle, e qualche regista tentò di riciclarlo dandogli una dimensione umana. Pochi però ci riuscirono. Un episodio particolarmente infelice ebbe luogo nel 1985, quando qualcuno ebbe l’idea di accoppiarlo con un altro vecchio clown, Renato Rascel, in Finale di partita di Beckett. Fu un disastro tale che il critico Renzo Tian nella sua recensione si rifiutò di nominare l’autore del copione, «per non coinvolgerlo». Refrattari al mondo dell’irlandese, i due si erano rifiutati, al solito, di memorizzare la parte, e andavano avanti con un auricolare, i cui suggerimenti peraltro non ascoltavano. «Non dare la colpa a me», mi disse Walter quando gli chiesi di descrivermi lo happening, che mi ero perso. «Io ero quello cieco sulla sedia a rotelle. Era Renato che comandava. E sai com’è Renato... lui deve far ridere a tutti i costi. A un certo punto io gli dicevo, ”Dovremmo prendere tempo”. E lui: ”Giacché ci siamo, prendiamo pure il Messaggero”. E non eravamo nemmeno a Roma, dove i quotidiani sono appunto Il Tempo e il Messaggero, eravamo a Firenze!». «Ma il regista non vi diceva niente?» Walter aveva sempre una spiegazione razionale, o per lo meno una battuta vincente. Mi guardò ammiccando. «Beh, sai com’è, era un regista-enzima». «Questa non l’ho mai sentita. Che cos’è un regista-enzima?». «Hai presente gli enzimi? Sono quei cosetti che assistono al metabolismo». Masolino d’Amico