13 gennaio 2006
APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 22 NOVEMBRE 2004
Il dollaro debole fa comodo a tutti, tranne che a noi.
Quando un lustro fa venne varato l’euro, il «valore di scambio» fu fissato dalla Bce a 1,17. Subito, tutti presero a dibattere su quella cifra (troppo? poco?). Secondo Giancarlo Galli (’Avvenire”), fu un «grossolano e duplice errore»: «Primo, venuto meno il millenario riferimento all’oro, il valore di una moneta in un’economia globale è puro artificio, alla mercé della speculazione, affaristica e politica. Secondo, poiché al dollaro erano legati a triplo filo yen giapponese e yuan cinese, e in non poca misura sterlina e franco svizzero, sfuggì il pericolo di legarci entrambe le mani». [1]
L’euro promuoverà lo sviluppo e calamiterà capitali, fu detto agli scettici. Qualcuno sperava finisse col sostituire il dollaro come moneta di riferimento mondiale perché, come spiega Robert Reich (ai tempi di Clinton segretario del Lavoro) «avere altri Paesi che usano la tua moneta come valuta di riserva è come ottenere un prestito senza interessi dal resto del mondo». [2] Galli: «Ambasciatori itineranti, zelanti e operosi, partirono verso i quattro angoli del pianeta, onde indurre cinesi, giapponesi, russi e petrolieri arabi, a divorziare da Re Dollaro (nelle riserve monetarie, nella quotazione delle materie prime) per convolare a nozze con l’euro». [1]
Piaccia o meno, Eurolandia dichiarò guerra agli Usa. Galli: «E il governatore della Fed Greenspan convinse il presidente Bill Clinton a correre ai ripari. ”Umiliare l’euro”, fu la parola d’ordine. Infatti, poco alla volta, il nostro ambizioso e ingenuo Icaro ebbe le ali bruciate. Precipitando. A un certo momento, arrivato George W. Bush alla Casa Bianca, bastavano 82 cents per un euro. Con Eurolandia ”svalutata” di un 30% secco». A Francoforte pensarono che con un cambio simile Eurolandia avrebbe inondato il mondo dei suoi prodotti. Si trattava di una «catastrofica allucinazione», tanto che di lì a poco l’America si risollevò con una spregiudicata politica economica. Oggi, non ci resta che fare da spettatori, «orbi ancorché avidi, e inerti». [1]
Il cambio ha ormai sfondato quota 1,30. E a molti tornano in mente le parole che Maxime Conally, segretario al Tesoro di Nixon, rivolgeva ai colleghi europei: «Il dollaro è la nostra moneta, ma il vostro problema». [3] Hélène Baudchon, economista dell’Ofce di Parigi, spiega che nello scontro atlantico dei cambi domina il punto di vista americano: «La parità evolve più spesso in funzione delle informazioni da Oltreatlantico. Quando vi sono buoni indicatori congiunturali in Europa, ciò sostiene talvolta a giusto titolo l’euro. Ma spesso, non è così». [4]
Agli americani il dollaro debole fa comodo. Enrico Pedemonte: «Certo, i cittadini Usa che vanno all’estero per turismo sono contrariati per il costo di un albergo a Firenze o di un ristorante a Parigi. Ma questo non turba il sonno della maggioranza del paese perché i consumi interni vanno a gonfie vele. Per il Bureau of Labor Statistics, i prezzi delle merci di importazione sono aumentati solo del 9,7% tra l’ottobre 2003 e l’ottobre 2004, e la maggior parte di questi aumenti è dovuto alla crescita del petrolio, che nell’ultimo anno è salito del 68%. La ragione di questa relativa stabilità è semplice: i produttori europei, quando possono, non aumentano i listini delle merci esportate negli Usa. [...] Preferiscono restringere i margini di profitto piuttosto che perdere quote di mercato». [5]
Il problema è che gli americani vivono al di sopra dei loro mezzi. [5] Reich: «La spesa va molto oltre la capacità produttiva del Paese. Lo si può affrontare solo in due modi: espandendo quella capacità produttiva o tagliando la spesa. Credo che saremo costretti a fare tutte e due le cose, ma non so sinceramente quando la politica prenderà atto della realtà. difficile per un Paese mantenere un esercito in guerra, combattere il terrorismo, affrontare emergenze finanziarie come quella dei futuri disavanzi delle pensioni e di Medicare, la sanità per gli anziani, finanziando al tempo stesso gli investimenti necessari per garantire la crescita». [2]
A Bush e Greenspan serve un dollaro debolissimo. In questo modo gli asiatici possono vendere i loro prodotti negli Usa. Galli: «Attenzione, però: le Banche centrali di Pechino e Tokyo acquistano senza batter ciglio i buoni del Tesoro di Washington. Sta scritto sul patto (segreto): ”Io compro, tu mi finanzi”. Si tratta di un ”mai visto” economico-finanziario. Eppure funziona: nell’ultimo triennio la crescita mondiale è trainata da Cina (9%), Giappone (5), Usa (4,5), mentre Eurolandia arranca». [1] Jeffrey Frankel, consigliere economico di Clinton: «I soldi degli investitori stranieri che acquistano Buoni del tesoro Usa, da una parte consentono al governo di tagliare le tasse, dall’altra sono indispensabili per finanziare l’allargamento del debito. Si assiste a un paradosso. La maggior parte dei paesi asiatici è contraria alla guerra in Iraq, ma è grazie ai loro soldi che il governo Usa paga l’occupazione militare a Baghdad». [5]
La scivolata del dollaro deve dunque continuare? Robert Rubin, ex segretario al Tesoro: «I livelli attuali riflettono bene lo stato dell’economia americana. Sono necessari per riassorbire nei prossimi tre o quattro anni almeno una parte dell’enorme disavanzo negli scambi con l’estero. Ma, quando impongono una correzione, i mercati tendono sempre a esagerare». [6] Edward Hyman, fondatore dell’International Strategy & Investment Group, spiega che un calo del dollaro del 20% può anche essere tollerato, ma la valuta Usa ha ormai perso il 30%, e un crollo di questa portata potrebbe innescare un cataclisma nei mercati finanziari. Il ”Wall Street Journal”: «La classe media Usa non ha eletto il presidente Bush perché destabilizzi il dollaro. Non si può condurre una politica estera vigorosa con una moneta debole. Se qualcuno all’interno dell’amministrazione la pensa così, speriamo che il presidente lo licenzi». [5]
Il problema, si dice, diventa grosso da 1,40 in su. A quella quota governi e banche centrali potrebbero coordinarsi per incoraggiare un’inversione di rotta. Rubin: «Le banche centrali sono davvero efficaci sui mercati solo quando riescono a far precipitare una svolta già matura». [6] Per ora Jean-Claude Trichet, governatore della Bce, si è limitato a parlare di oscillazioni «brutali» e comunque «non benvenute». [7] Allen Sinai, capo della Decision Economics di New York: «Jean-Claude ha fatto quello che un banchiere centrale deve fare: cercare di portare una parola di stabilità sui mercati». [8] Charles Wyplosz, fra i maggiori esperti degli equilibri fra valute: «Quando i governatori parlano molto, è perché non vogliono agire». [6]
Cosa può fare la Bce? Ralf Dahrendorf, teorico del liberismo alla House of Lords di Londra: «Le valute sono creature strane, buffe. Prima si muovono in un senso, poi in un verso diametralmente opposto. Non penso che ci vorranno vent’anni prima di arrivare a un’inversione di tendenza nel rapporto euro/dollaro, magari il cambiamento avverrà nell’arco di 2 anni». [9] Wyplosz: «Nel nostro mondo le monete fluttuano, non c’è granché da fare. Neanche gli interventi delle banche centrali funzionano se il mercato ha le idee chiare. In questo momento si è convinto che il dollaro è sopravvalutato». [6]
Le banche centrali hanno a disposizione due possibilità di manovra. Massimo Riva (’L’espresso”): «La prima è l’intervento sul mercato dei cambi: nel caso specifico, l’acquisto di ingenti partite di dollari. Ma la sproporzione fra l’arsenale valutario della Bce e il volume dei movimenti di capitale sui mercati internazionali non garantisce grandi possibilità di successo a interventi unilaterali. Per ottenere qualche risultato, ancorché parziale, ci vorrebbe la speculare collaborazione delle altre banche centrali, in particolare della Federal Reserve. Ipotesi al momento inesistente». [10]
Seconda arma: la riduzione dei tassi d’interesse. Riva: «Poiché Francoforte non accenna a muoversi in tale direzione, ha ripreso vigore la campagna di polemiche contro una Banca centrale europea accusata di guardare soltanto ai rischi di inflazione (l’euro forte attenua l’impatto dei rincari del petrolio), anziché alla necessità di aiutare il rilancio dell’economia continentale». [10] Luigi Spaventa: «La Bce non può assegnarsi esplicitamente un obiettivo di cambio. L’articolo 105 del Trattato, pone la stabilità dei prezzi come obiettivo primario. L’articolo 109 prevede che il Consiglio Europeo possa formulare orientamenti generali per la politica del cambio: ma senza pregiudizio per quell’obiettivo e su raccomandazione o previo parere della Bce. La Bce, si dice, potrebbe di sua iniziativa ridurre i tassi di interesse di riferimento [...]. Una diminuzione di un quarto di punto o giù di lì servirebbe a poco o nulla». [3]
Il rapporto euro-dollaro non è più una questione meramente transatlantica. [10] Lo storico inglese Nial Ferguson sostiene che gli Stati Uniti, per difendere il proprio potere, hanno costruito un nuovo sistema di parità tra i cambi da lui battezzato «I figli di Bretton Woods». Questo sistema si basa su una schiera di paesi asiatici le cui monete sono solidamente ancorate al dollaro. In prima fila ci sono Cina, Hong Kong e Malesia, in seconda India, Indonesia, Giappone, Singapore, Corea del Sud e Thailandia. Questi paesi alla fine del 2003 avevano nelle proprie casseforti 1.890 miliardi di dollari. [5]
L’importazione di risorse così ingenti crea un doppio meccanismo. Pedemonte: «Da una parte consente ai cittadini americani di vivere (e spendere) al di sopra dei propri mezzi. Ma dall’altra lega in modo stretto al dollaro il valore delle monete asiatiche, che infatti in questi ultimi due anni sono scese seguendo l’andamento della banconota verde, anche per non pregiudicare le esportazioni verso il mercato Usa. Questo meccanismo spiega perché le banche centrali asiatiche facciano resistenza ad apprezzare la loro moneta rispetto al dollaro. Un recente studio della Federal Reserve Bank of New York ha calcolato che se i cinesi facessero salire del 10% il valore della loro moneta rispetto al dollaro, vedrebbero immediatamente deprezzare le loro riserve valutarie». [5]
La spallata finale contro il dollaro potrebbe venire dalla Cina. Federico Rampini: «A Shanghai ogni giorno nell’intervallo di pranzo si formano code davanti alle banche: sono i depositanti che corrono a cambiare dollari in yuan, la moneta cinese di cui si attendono una rivalutazione. A Pechino i dipendenti di multinazionali straniere che vengono pagati in dollari non vogliono conservarli. [...] Il governo finora ha negato che sia imminente una rivalutazione dello yuan, eppure la gente non dà retta alle smentite». [11]
Un vigile dai gesti imperiosi ignorato nel caos di un incrocio a Pechino. questa la situazione in cui si trova Zhou Xiaochuan, governatore della Banca centrale cinese. Mercoledì ha alzato dello 0,31% i tassi d’interesse (a 0,875%) sui depositi in dollari, ma il traffico ha continuato a infuriare. [12] Rampini: «La previsione della strada è che la politica del cambio fisso con l’America, inchiodato a quota 8,28 yuan per dollaro dal 1994, stia per volgere al termine». [11] Da tempo gli europei lamentano che il cambio fisso tra yuan e dollaro li ha danneggiati. Pasquale Natuzzi, re del divano made in Italy: «I cinesi da una parte hanno il vantaggio del costo del lavoro e del loro ”sistema paese” (niente sindacati, politica ambientale approssimativa, nessun problema per la contraffazione). Mentre dall’altra, visto che lo yuan è collegato al dollaro godono della debolezza della valuta americana. I miei stabilimenti in Cina hanno costi inferiori del 30% rispetto a quelli italiani. Questo vuol dire che quando i cinesi si presentano sul mercato americano hanno un vantaggio del 60% sugli europei: 30 punti sono dovuti al cambio, gli altri 30 al ”sistema Paese”». [13]
I sindacati americani accusano la Cina di concorrenza sleale. Per questo Bush chiede di sganciare lo yuan dal dollaro. Rampini: «Il presidente Hu Jintao e il premier Wen Jiabao hanno sempre reagito con cautela. La loro risposta ufficiale è che la Cina punta verso la convertibilità del cambio in modo graduale. [...] Finora dietro la cautela si celava un calcolo mercantilista: tenere la moneta sottovalutata per accelerare la crescita economica trainata dalle esportazioni. Ma l’analisi dei leader cinesi probabilmente si sta modificando. Il differenziale dei costi è così ampio in favore di Pechino - il costo del lavoro locale è il 4% di quello Usa - che una rivalutazione dello yuan ridurrebbe di poco l’appetibilità dei prodotti cinesi». [11]
La rivalutazione dello yuan sarebbe un importante segnale di maturità economica. Edward Hadas: «Se la Cina fosse un paese ricco, la rivalutazione dello yuan rispetto al dollaro sarebbe un provvedimento normale, che ridurrebbe l’avanzo commerciale nei confronti degli Usa (150 miliardi di dollari all’anno), raffredderebbe gli investimenti e farebbe crescere i consumi interni, ma così non è. [...] Il partito comunista preferisce l’ordine interno ai beni di consumo, dando la precedenza ai posti di lavoro e alle massicce riserve di dollari, che danno sicurezza politica ed economica: è questa la mentalità che dal ’95 comprime lo yuan». [14]
La soluzione di questi problemi non è in vista. Hadas: «Il 10% di cui si parla non basterà di per sé a modificare le dinamiche commerciali, ma sarebbe un segnale che la Cina vuole entrare nel mondo dei grandi». [14] Secondo molte previsioni, una volta liberamente convertibile la moneta cinese schizzerebbe al rialzo. Rampini: «La Cina, per mantenere lo yuan debole, è da tempo la più accanita sostenitrice del dollaro. Le riserve ufficiali della Cina in dollari sono balzate da 286 miliardi nel 2002 a 400 miliardi nel 2003, a 470 nei primi sei mesi di quest’anno. Proprio per questo, se la Cina dovesse cedere alle pressioni esterne, la conseguenza potrebbe essere asimmetrica: un regalo generoso per la competitività Usa, una cocente delusione per gli europei. Privato dell’ultimo sostegno che ne ha rallentato la caduta - gli acquisti cinesi di Treasury Bond - il biglietto verde secondo molti analisti può perdere rapidamente un altro 20-30% del suo valore. Non solo contro le monete asiatiche ma anche contro le altre. Vorrebbe dire vedere l’euro a quota 1,70». [11]
Rassegnamoci a convivere con un dollaro debole. Spaventa: «Ma sono poi giustificate le nostre lamentele? Non solo l’apprezzamento dell’euro contiene l’inflazione importata, poiché i prezzi del petrolio e delle materie prime sono espressi in dollari. Soprattutto, non dovrebbe l’Europa affidarsi per la crescita alla propria forza, invece di farla dipendere dalle esportazioni, e dunque dalla crescita altrui?». [3] Edward Prescott, superconsulente della Federal Reserve che a dicembre riceverà il Nobel per l’Economia, dice che dovremmo seguire l’esempio Usa: «Riducendo le aliquote fiscali, si aumenta l’offerta di lavoratori sul mercato, oltre che la produzione e il gettito fiscale». E se nell’immediato cresce il deficit, «si può sempre contrastare tagliando la spesa pubblica». Insomma, si tratta solo di tenere duro: «Nel 2100 tutto il mondo sarà ricco». [15]