Pierangelo Sequeri, La rivista del clero italiano, settembre 2004, 13 gennaio 2006
La linea di resistenza mondiale (religiosa) di Pierangelo Sequeri, La rivista del clero italiano, settembre 2004 L’opinione cristiana dura fatica a inquadrare consensualmente il mondo nuovo in cui si trova, anche se i credenti lo abitano più che generosamente
La linea di resistenza mondiale (religiosa) di Pierangelo Sequeri, La rivista del clero italiano, settembre 2004 L’opinione cristiana dura fatica a inquadrare consensualmente il mondo nuovo in cui si trova, anche se i credenti lo abitano più che generosamente. Molti abiti ecclesiastici hanno però toppe che il Signore consiglierebbe di non rappezzare ancora. Il Signore, d’altro canto, non lascia mai la Chiesa - in nessun tempo e in nessun luogo - priva del necessario. La guida talora, con paziente ma inesorabile fermezza, a riconoscere più francamente il superfluo e il male amministrato. I segni dei tempi, per i credenti, non sono solo congiunture atmosferiche o costellazioni culturali alle quali adattarsi: sono segni di Dio che ci parlano e orientano la nostra responsabile conversione. Evangelizzare il mondo è una cosa, trasformare le città in province ecclesiastiche è tutt’altra cosa. Custodire l’indefettibilità storica del cristianesimo è una cosa, immaginare l’incorruttibilità dei suoi insediamenti storici è un’altra. Da noi non ci sarà mai più un rapporto innocente con il cristianesimo: nel bene, come nel male. Il cristianesimo che cerca di impiantare il seme originario dell’evangelo nel mondo che si trasforma ora, incontra sempre da qualche parte un cristianesimo già insediato in un mondo precedente. pure vero che il cristianesimo, qui da noi, si lascia anche per niente: ci si sottrae alla fede confessante per il peso di un’eredità che non si vuole più portare, come anche ci si congeda dalla religione creduta e praticata per motivi del tutto futili. Una comprensione troppo schematica e insufficientemente differenziata della condizione cristiana nella realtà effettiva della contemporaneità, non giova a nulla. Una civiltà mediatica come la nostra, certo incoraggia gli slogan e scoraggia il ragionamento: dicono che è per farsi capire meglio. Qualche concessione è indubbiamente necessaria, ma almeno la storia di Cappuccetto Rosso deve averci insegnato qualcosa. In queste riflessioni vorrei proporre qualcosa di simile a quello che, secondo il mio punto di vista, ritengo l’esercizio spirituale corrispondente al più vasto piano di meditazione al quale la condizione odierna ci sollecita come credenti. L’intento è quello di concorrere all’elaborazione di un nesso che la Conferenza Episcopale Italiana ha indicato come strategico per l’articolazione della testimonianza evangelica nella società contemporanea. Il nesso è quello fra parrocchia e missione. Dialettiche del cristianesimo e dell’incredulità: l’assunzione della storia nella responsabilità della fede Il mondo occidentale attraversa un’indubbia fase di corruzione dell’intimità spirituale e degli umani legami. vero. Non esistono però contesti storici impermeabili all’evangelo. In nessun’altra parte del pianeta, la missione evangelica ha l’occasione di esercitarsi in un mondo così plasmato e permeato dal cristianesimo. In questo senso, non credo che possiamo parlare troppo ingenuamente di evangelizzazione, nella realtà europea e occidentale di lunga tradizione cristiana, come se esistesse un semplice problema di notifica del cristianesimo, che riparte da zero. Uno dei problemi dell’evangelizzazione è anche il fatto che il cristianesimo - a torto o a ragione - è vissuto come un’ovvietà, già saputa, già inquadrata. Tutto possiamo immaginarci, ma non una situazione in cui la stragrande maggioranza della popolazione europea è distante o passiva nei confronti dell’adesione credente e della pratica cristiana di vita perché non sa che cosa sia la Chiesa, che cosa sia il cattolicesimo, che cosa siano la confessione e la messa, i comandamenti e l’elemosina. Mi sembrerebbe più produttivo - e anche più stimolante - riconoscere più francamente che questa inedita condizione appartiene al nostro destino: marca la nostra vocazione e segna un compito speciale affidato precisamente a noi. Non si può ricominciare da capo, non si può semplicemente continuare come prima. Se la nuova evangelizzazione, alla quale siamo autorevolmente incoraggiati, implica la consapevolezza che per il nostro mondo si è aperta un’epoca nuova per la missione ecclesiale, la novità riguarda anche il fatto che questo mondo che cambia è un mondo cristiano. pur questo infatti che andiamo giustamente ribadendo, quando chiediamo che vengano riconosciute e non falsificate, le radici storicamente determinanti per la formazione della cultura europea - ossia occidentale - che abitiamo. L’evangelizzazione comporta inevitabilmente, ora, anche un tratto dialettico nei confronti del cristianesimo convenzionalmente noto e recepito. Se dunque parliamo di nuova evangelizzazione, ossia pensiamo secondo il lessico tradizionalmente assegnato alla missione in terre vergini di cristianesimo, ciò deve significare che il compito della missione alla quale il Signore ci convoca - e la Chiesa ci sollecita ad accogliere - si accompagna necessariamente ad una riforma epocale dell’ethos ecclesiale e del costume cristiano nel quale siamo insediati. Non è affare di cosmesi e fitness, o di giochi linguistici che ci facciano apparire più brillanti e competitivi. Non possiamo però alludere all’annuncio cristiano come se, improvvisamente, una tradizione religiosa secolare, che esso ha generato e nella quale abitiamo, potesse ora apparire come una novità inaudita. Se poi, ciononostante, dovessimo ingenuamente insistere che proprio l’essenziale è andato perduto, i nostri volonterosi apostoli del primo annuncio dovrebbero pur spiegare dov’erano e che cosa facevano fino a ieri. In altri termini la cura per la continuità della tradizione del cristianesimo è un compito serio quanto quello della sua creativa conversione alla nuova trasparenza dell’origine che il Signore ci chiede di restituirgli. La nuova evangelizzazione non è nuova perché la prima è andata male e quindi ci riproviamo, spernado in una sorte migliore. Sul versante della cultura sociale europea, la sottrazione della sfera pubblica all’influenza della religione, che trae legittimo argomento dalla condivisa laicità della politica, è pure abitata da un’interpretazione aggressiva, intesa alla pura e semplice dissoluzione del cristianesimo confessante e alla delegittimazione della religione come luogo di verità per la decifrazione dell’origine, della qualità, e della destinazione dell’umano. L’orientamento, apparentemente più flessibile e meno ideologico delle forme classiche dell’incredulità razionalistica, si salda con il moderno assetto democratico della cultura: persegue il rispetto formale della dignità della fede religiosa come credenza privata, mentre promuove l’invalidazione pubblica della sua competenza sul merito dell’umano che è comune. Le ragioni dell’economia e della tecnica tengono l’umanesimo sotto scacco: se fiati sei subito ricacciato nel Medioevo, e ti tolgono i fondi. L’ingombro non è più soltanto identificato con le chiese tradizionali e confessioni religiose. Il fronte dell’emancipazione mira all’omologazione della regia economia e tecnologica della sfera pubblica, va all’assalto della politica e dell’etica. Nella realtà, il mondo contemporaneo vede una progressiva erosione dello spazio pubblico e democratico da parte delle istituzioni tecnologiche: in questo senso, la privatezza delle proprie convinzioni corrisponde semplicemente alla nullità etica della posizione del singolo rispetto allo scientismo elevato a criterio del sistema sociale. Il liberismo impone la privatizzazione della morale e della coscienza (delle visioni del mondo in genere) come un guadagno della libertà individuale, che si emanciperebbe così dal dispotismo di una sfera pubblica omologatrice (Chiesa, Stato, istituzioni etiche). Di fatto, però, questa libertà è la stessa che, nella sfera pubblica, non ha e non deve avere rilevanza alcuna. Liberismo e scientismo si saldano poi allegramente con la nuova religiosità del godimento. Il sospetto che si tratti di una variante del gioco delle tre carte è legittimo. Un sistema del genere, inoltre, sembra fatto apposta per incoraggiare, nella vita reale e al di fuori di ogni controllo, fideismi e irrazionalismi di ogni genere. Non è questa la sede, comunque, per discutere le implicazioni teoriche e culturali di questa deriva. L’intellettuale europeo d’altronde, al quale viene meno il prestigio dei tradizionali sponsor, sembra in troppo larga misura impegnato ad essere critico, per essere anche responsabile nei confronti dell’eccezionale processo di dissoluzione del legame sociale in atto. Formuliamo un’altra domanda, volutamente semplicistica (ma non così tanto). I popoli, l’umano che è più comune, sono adeguatamente rappresentati da questa lotta per le investiture dei nuovi poteri, che premiano - e sostengono mediaticamente - la cultura più compiacente con l’ideologia che indica l’essenza mercantile della libertà e quella libidica della felicità? Le comunità e le società umane - legami, affetti, aspirazioni, attese - vivono veramente come dice la televisione? Il trauma delle guerre di secolarizzazione: un nuovo costume cristiano come referente di credibilità. Il secolo appena trascorso è stato segnato dal brutale ridimensionamento del sogno illuministico. La missione civilizzatrice dell’Occidente cristiano, che la ragione economica e tecnica hanno assunto in proprio, si è arrestata sugli orrori di un duplice conflitto mondiale, acceso nel cuore della civilissima Europa. Sono state guerre di secolarizzazione, non di religione. La quasi totalità dei conflitti attuali nel mondo - orribilmente generosi di stragi - presenta ora la struttura della guerra civile: diretta, indotta, o assimilabile. Guerriglia di lobbies per la rappresentanza e il controllo, più che altro, sostanzialmente trasversale a quello che è invece un avanzatissimo processo di riconoscimento dell’umano che è comune fra i popoli. Nel generale fraintendimento di questa fase (forse inconsapevole, forse voluto), la religione, che il diritto europeo si affanna a dichiarare rispettabile faccenda della coscienza privata, con la quale non vuole per altro più ragionare, regredisce anche da noi alle sue vecchie funzioni: principio di conservazione dell’esistente, cifra dell’identità etnica, pretesto per la radicalizzazione dello scontro politico. In Europa non mancano neppure indirizzi culturali intenzionati ad approfittare spregiudicatamente delle molte evidenze internazionali di questa regressione, per fare definitivamente i conti con la religione. Soprattutto con il cristianesimo. Il puntiglio di quella laicità che affida il progresso civile all’eliminazione della religione, preferisce ora denunciare il dispotismo dell’etica (in nome dei diritti umani), più che l’irrazionalità del dogmi (in nome della razionalità scientifica). La pressione di questa nuova campagna, ha già incominciato a suscitare simmetrici spostamenti - altrettanto strumentali - verso l’apologia della religione cristiana occidentale come fattore di contrapposizione etnica e di conservazione politica. Il secolo che è appena finito, oggi considerato prevalentemente come punto di scatenamento di forze distruttive che il cristianesimo contestuale non è bastato ad arginare, ha pure registrato due eventi simbolici di grande portata. Entrambi sono collegati, in diverso modo, alla rilancio ”umanistico” del cristianesimo. Il Concilio Vaticano II ha definitivamente preso congedo da un’ermeneutica dell’epoca iscritta nel progetto politico e religioso di una restaurazione cattolica. La caduta del muro di Berlino ha registrato l’esaurimento del progetto politico di un socialismo coatto, che traeva argomento per la sua risolutiva qualità umanistica dalla rimozione della mediazione religiosa del senso. Il duplice segno di rottura ha incalzato i tempi con un’accelerazione imprevedibile: certamente in anticipo sulla disponibilità di una cultura - sia a livello alto, sia a livello popolare - attrezzata per governare l’effetto di ”vuoto” che ne è scaturito. Il tramonto di alcuni schemi-guida, che avevano assicurato un certo equilibrio inerziale, dopo gli inevitabili sussulti, ha messo indubbiamente in circolazione anche una straordinaria massa di orfani: ben disposti a comprendere i vantaggi dell’esaurimento dei modelli ideologici di governo dell’esistente, ma anche svuotati dalla mancanza di ideali sufficientemente definiti e condivisi per la costruzione di un futuro più adeguato. La religione civile e l’etica pubblica che l’utopia democratica aveva posto a compenso del suo inevitabile degrado individualistico e anarchico, appaiono come residui privi di forza. Il costume sociale diffuso - mentale e pratico - ha ben pochi punti di contatto con il modello antropologico a confronto col quale si è prodotto l’aggiornamento. Le opportunità di restituire essenzialità e semplicità all’evangelizzazione, mi sembrano oggi dunque - per ragioni intrinseche, non tanto per ripiegamento tattico - questione di stili di vita, più che di affannoso restyling linguistico. Di istruzioni, proclami e reinterpretazioni, il cui referente continua ad apparire più volontaristico che reale, siamo letteralmente sopraffatti. A questa saturazione del cristianesimo, che va presa con tutta la serietà che merita, si saldano effetti di sovraesposizione mediatica dell’istituzione ecclesiastica dei quali, nonostante il gran parlare che si fa di comunicazione, teniamo forse troppo poco conto (l’ossessiva estrapolazione politica e disciplinare del dettato magisteriale, la selezione implacabile e forzata dei temi e dei motivi dell’interesse religioso, l’allegra manipolazione dell’immaginario nella pubblicità, nella fiction, nella documentaristica sul sacro). La trasparenza dell’inedito cristiano è invenzione che ci dobbiamo attendere direttamente dal costume credente, più che dalla diffusione di stucchevoli slogans della devozione aggiornata, corsi di ricupero sul significato dei riti, competizione con le agenzie del tempo libero. Penso che ci dovremmo sentire più imbarazzati per un fenomeno francamente curioso: come mai nei paesi di lunga tradizione cristiana, in cui il cristianesimo si fa così poco, esso si spiega così tanto? Il nuovo costume cristiano di vita deve apparire, semplicemente e direttamente, in una dimensione di evidenza che non cade nella trappola di ossessive puntualizzazioni esplicative. Deve anzi porre in atto uno stile della mediazione che - in caso di necessità - respinge garbatamente e fermamente l’idea di spendere tempo dietro la provocazione, il sofisma, la morbosità e l’eccitazione che mascherano un interesse sostanzialmente frivolo per il cristianesimo, modellato sulle inchieste televisive circa la «domanda di sacro» e sulle tavole rotonde a riguardo della «scelta di fede». (Per non parlare degli ineffabili e immancabili: «lei perdona?», «lei accoglie?», «lei deplora?», «è per la pace», «è per la libertà?», «è per il rispetto delle persone e la dignità dei popoli?». Esami di ortodossia civile, che non finiscono mai, sul presupposto di quello che si è deciso che dovremo religiosamente rispondere). L’habitat di Dio nella condivisione dell’umano che è comune: la missione del Figlio nel mistero di Nazareth. Il Signore chiede franchezza, ma insegna anche ironia, rilancio, eleganza della sottrazione alla trappola, che viene rimandata al mittente. E coraggio di silenzi che seppelliscono l’interlocutore nell’imbarazzo della sua stessa domanda, o gli impongono di scoprirne da solo la faziosità (e questo, forse, lo salverà). La custodia coraggiosa della linea evangelica chiede nervi saldi e fede psicologicamente risolta. Vive di semplicità, ma è lavoro fine. Troppi dilettanti mandati allo sbaraglio fanno inutilmente, per quanto in buona fede - il gioco dei costruttori di luoghi comuni (di non altrettanto limpida intenzione). Troppi loro fratelli e sorelle ne rimarranno intrappolati ingiustamente. La calcolata sobrietà delle spiegazioni - una sola fulminante parabola, nella maggior parte dei casi, vale un intero annuncio - deve scoraggiare la disputa sulle formule (astuto alibi per l’incredulità e l’inazione infinita). Il Signore, proprio su questo punto preciso, ci offre un’abbondanza di ammaestramenti esaustiva, dettagliata, perfetta: non finiremo mai di imparare. Il contesto evangelico è perfettamente omologo al nostro: una religione buona, che va però convertita seriamente alla novità di Dio; un’incredulità cavillosa e strisciante, che va seriamente smascherata. L’evidenza testimoniale di coloro che vivono la loro vita con il Signore (la loro, possibilmente, non quella degli altri) deve trovare il tempo e lo spazio per dare il dovuto peso al mistero dell’incarnazione di Nazareth, senza il quale la forma pubblica dell’evangelizzazione e il tempo riservato all’iniziazione dei discepoli si edificherebbero sulla ghiaia. Il segno posto dal costume cristiano dell’esistenza più comune, plasma un referente persuasivo della vita morale impastandolo con il lievito della religiosità non legalistica della nuova alleanza e con il fermento non convenzionale della giustizia di Dio. Include perciò - a proprio rischio e con lieto azzardo - frequentazioni, ospitalità, scambi di donazione e legami di agape, non omologabili in chiave di pur legittimo interesse propagandistico e di pur ottimali criteri di autorealizzazione. La vita dei discepoli del Signore di cui abbiamo assolutamente bisogno - in un contesto dove tutti hanno già la loro da dire sul Messia - è quella che non ha bisogno di ossessive ribattute pubblicitarie - puntigliosamente tradizionalistiche o modernisticamente mediatiche - per attestare la sua volontà di esistere, per raccomandarsi rispetto alla concorrenza, per descrivere le sue qualità strabilianti. Normalmente, anzi, la vita dei discepoli non si descrive affatto: soprattutto si fa. Nei luoghi più impensati e nelle combinazioni meno prevedibili: sia per i logori clichés della fuga mundi, sia per il giulivo marketing del sacro post-moderno. In caso contrario, la predica vale come un comizio, il referente istituzionale non si distingue da un partito politico, l’aggregazione non fa differenza fra discepolato e clientela. Lo spessore del mistero di Nazareth, impropriamente separato dai valori fondanti dell’evangelizzazione, deve ritrovare il suo ruolo di dimensione integrante per la normale durata cristiana dell’esistenza. qui che entra in campo, a sorpresa, la vecchia e cara parrocchia. La parrocchia sembra nella posizione migliore, istituzionalmente riconosciuta e localmente identificabile, per un compito di regìa del cristianesimo evangelizzante, distinto dalla militanza ideologica, nelle forme della vita quotidiana essenzialmente contigue ai legami più profondi che si intrecciano con il nascere, l’abitare, il morire. In questo punto esatto, se ci fate caso, si sta rinforzando davanti agli occhi di tutti -anche grazie alla tanto vituperata globalizzazione mediatica - quel consenso etico trasversale fra i popoli e dei popoli, di cui dicevamo. Il progressivo distacco dei mondi vitali dalle forme istituite della rappresentanza è indicato, troppo sommariamente, come distacco individualistico dalla politica e dalla religione. Nella realtà presenta invece il potenziale di formazione di un solido consenso dei popoli sulle qualità e sui valori della vita quotidiana: che non riguarda solo le routines lavorative e lo spazio ludico. Le attese più diffuse riguardano la cooperazione fra gli uomini, il rispetto delle donne, l’attenzione per i bambini, l’accudimento degli anziani e dei malati, la formazione della generazione che viene, il riscatto culturale e spirituale dalla tirannia dell’organico e la dignità della conoscenza e dell’arte oltre i bisogni materiali della sopravvivenza. Insomma, in un humus sociale della coltivazione dell’umano dove la circolazione degli spiriti di amicizia, solidarietà, ospitalità, fiducia, sostenga le fatiche del vivere e la felicità dell’esistere. una vera e propria linea di resistenza mondiale, la cui consapevolezza e omogeneità cresce di giorno in giorno, a tutte le latitudini. Il vantaggio della parrocchia sta proprio nel fatto che il suo impianto è già tradizionalmente insediato sul livello della convivenza familiare, della socialità fiduciale, della vita quotidiana, del riconoscimento dell’umano in tutte le sue vicissitudini. Per le quali ci vogliono occhio e orecchio più fini di quello che le grandi forme istituite della rappresentanza possono permettersi, nell’odierna società dell’individuo-massa. La parrocchia ha molta consuetudine con le dimensioni popolari della vita civile, ma ormai anche - occorre riconoscerlo serenamente - conoscenza assai sfocata e ingenua delle dinamiche effettive dell’esistenza comune nell’odierna complessità culturale e sociale. In compenso essa si trova in una posizione pressoché unica, in ordine alla possibilità di compensare un’interpretazione univocamente militante del cristianesimo - e della religione in genere - la quale, da sé sola, induce effetti di polarizzazione e di schieramento distraenti nei confronti di ciò che rappresenta il primum dell’annuncio che interpella il cuore di ciascuno. L’evangelizzazione ha un obiettivo supremo, rispetto al quale tutto il resto è secondario. Il messaggio decisivo, non fungibile con altro vincolo, è aperto da un’invocazione essenziale: lasciatevi riconciliare con Dio, mediante il Figlio. L’iniziazione al discepolato di Gesù, che di questa fede è il principio e la possibilità, ha come termine l’esercizio responsabile della vita cristiana (che arriva per tutti i chiamati in un tempo ragionevole, come ogni altra maturità). L’opportunità che si presenta alla parrocchia - o meglio, alla forma parrocchiale - per la nuova trasparenza dell’essenziale cristiano nel mondo che cambia è decisamente strategica. Può cogliere l’occasione, sin tanto che ancora può governare la transizione, invece di subire semplicemente gli effetti del congedo dell’epoca dal cristianesimo di rappresentanza? [...] Pierangelo Sequeri (docente di Teologia fondamentale alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale, Milano)