Piero Ostellino Corriere della Sera, 07/11/2004, 7 novembre 2004
Non è vero che Bush ha vinto perché ha riportato la Chiesa nello Stato, Corriere della Sera, 07/11/2004 C’è un aspetto del pensiero politico e della strategia elettorale di Bush - che pur ha avuto un ruolo decisivo nella sua rielezione alla Casa Bianca - difficilmente condivisibile non solo da uno spirito laico, ma anche da parte di un cattolico liberale
Non è vero che Bush ha vinto perché ha riportato la Chiesa nello Stato, Corriere della Sera, 07/11/2004 C’è un aspetto del pensiero politico e della strategia elettorale di Bush - che pur ha avuto un ruolo decisivo nella sua rielezione alla Casa Bianca - difficilmente condivisibile non solo da uno spirito laico, ma anche da parte di un cattolico liberale. Con il forte appello al radicalismo dei valori delle comunità evangeliche e cattoliche, il presidente americano ha infatti portato la Chiesa, o se si preferisce la religione, all’interno dell’ambito dello Stato. Di Bush, Alessandro Passerin d’Entrèves potrebbe scrivere oggi quello che cinquant’anni fa scriveva su Marsilio da Padova: «Incapace di sviluppare una nozione che rimase sconosciuta alla mentalità medievale, la nozione di una differenza profonda e difficilmente colmabile tra l’obbligo religioso e quello politico». Non si tratta qui, evidentemente, di ripristinare la contrapposizione meccanicistica e alternativa fra Stato e Chiesa propria del laicismo e del liberalismo classico, che rischia non di rado di tracimare nello Stato etico, cioè nella teoria che lo Stato sia esso stesso fonte di valori. Al riguardo, è forse utile ricordare che furono soprattutto i teorici dello Stato fascista a fare i maggiori elogi di Marsilio, per aver ricondotto la «Chiesa nella disciplina dello Stato (...) che postula l’eminenza del volere, del diritto che è complesso di precetti, della politica... gioco di volontà». Si tratta bensì - cito ancora Passerin - di tenere ben presente che «le conseguenze temporali della posizione spirituale non sono che la diretta conseguenza di una concezione e di un sistema in cui lo Stato e la Chiesa, come società composte dai medesimi individui e quindi non differenziate e non differenziabili, vengono necessariamente a coincidere». Col risultato di non distinguere e, in sostanza, negare le caratteristiche proprie dell’una e dell’altro. In definitiva, si tratta di restare, cioè, sul terreno teorico e storico della «laicità» e della modernità, tracciato dallo stesso cristianesimo, soprattutto con la Riforma protestante. Riforma che ha garantito l’autonomia e l’indipendenza della Chiesa non meno di quella dello Stato, ponendo al centro della propria speculazione l’individuo, eliminando ogni intermediazione fra quest’ultimo e Dio, riconoscendo che fanno parte della Chiesa persone che non fanno parte dello Stato e viceversa, e che «diverso è il vincolo che tiene assieme lo Stato dal vincolo religioso su cui si fonda la Chiesa». Immagino che questa tesi risulti assai poco condivisibile da parte di chi, anche in Italia, plaude al fondamentalismo religioso di Bush per farne, da noi, una sorta di «religione atea» a fondamento della propria concezione del rapporto fra Etica e Diritto. Ma è un fatto che il presidente americano, traducendo la questione religiosa in termini politici, finisce sia col degradare la religione a puro instrumentum regni sia col mettere la stessa Chiesa al servizio del legislator humanus e - per citare ancora Passerin a proposito di Marsilio - col «sacrificare l’unità e l’universalità della Chiesa nella molteplicità delle varie communitates perfectae fidelium». Un conto, dunque, è riconoscere quanto il liberalismo debba storicamente e, perché no, eticamente, al cristianesimo e quanto lo stesso Stato moderno si fondi sulla tradizione giudaico-cristiana; un altro è pretendere di tradurre la catechesi religiosa - che tanti guai ha prodotto in passato - in leggi dello Stato e in politiche pubbliche. «Date a Cesare quel che è di Cesare». Basterebbe attenersi a questo principio per salvaguardare, con l’autonomia dello Stato, anche quella della Chiesa. Piero Ostellino *** Corriere della Sera, martedì 9 novembre Direttore, sottoscrivo la puntualizzazione dottrinale di Piero Ostellino sul delicato rapporto tra religione e politica pubblicata sul ”Corriere” di domenica scorsa. A Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio. Su tutto il resto mi permetto di non essere d’accordo. John Kerry ha pregato in pubblico, ha frequentato chiese, ha abbracciato sacerdoti in campagna elettorale esattamente come fa George Bush e come prima di loro hanno fatto quasi tutti i presidenti americani. L’unica vera differenza è che il candidato democratico non era credibile, il presidente repubblicano lo era. Spiegarsi la vittoria di Bush, e scongiurarne eventuali conseguenze nel teatro europeo delle guerre culturali, con un’invasione di campo cristiana della politica, negatrice dei precetti e degli assiomi del cattolicesimo liberale, è a mio parere un fraintendimento, forse anche un errore. In America il «muro di separazione tra Chiesa e Stato» è solidissimo. Due estati fa il giudice superiore in grado dell’Alabama, Roy Moore, fu costretto alle dimissioni per essersi opposto al trasferimento in altra sede di un monumento ai dieci comandamenti che aveva fatto installare nella corte di giustizia di Montgomery. Né Bush né altri fra coloro che adesso vezzosamente vengono definiti teocon lo difesero. Roy Moore è fuori dall’amministrazione della giustizia, e il monumento, chiamato Roy’s rock, è portato in tournée o in processione, con un certo successo di pubblico, da credenti sicuri di aver subito un torto e di essere stati derubati della libertà di culto, gente che pensa che la libertà di religione non sia libertà dalla religione. Un liberale, cattolico o non cattolico che sia, deve accettare l’esistenza di questo punto di vista con lo stesso spirito che gli suggerisce l’opportunità di non statalizzare alcuna religione. La differenza americana rispetto all’Europa è la seguente. Noi abbiamo una logica concordataria, di amicizia e scambio con le chiese, ratificata per l’Italia dall’articolo 7 della Costituzione (e dalla sua riforma siglata da Bettino Craxi e Agostino Casaroli) e per il continente da un articolo del trattato costituzionale recentemente firmato a Roma; ma non abbiamo, sia nella Costituzione europea sia nella nostra cultura civile, il riconoscimento del «fatto religioso» e delle laicissime e liberalissime «radici cristiane» della nostra storia e cultura e identità (Benedetto Croce). Gli americani hanno, oltre a un riferimento creaturale nella Dichiarazione di indipendenza di tipo vagamente deista (un Dio che vale per tutti, appunto un creatore), una solida cultura e attitudine religiosa, in cui campeggiano la libertà degli ebrei, la libertà delle musulmane di portare il velo come desiderano, la libertà dei cristiani di professare pubblicamente la loro fede senza discriminazioni verso alcuno. I concordati sono stati un modo storico valido di risolvere problemi europei che l’America non ha mai conosciuto, a partire dalle guerre di religione e dallo scontro tra Papato e Impero. Ma da un punto di vista liberale, mi dispiace, il sistema americano è il migliore, e non bisogna confondere la formidabile tattica elettorale di Karl Rove, che ha radici in una ormai quarantennale storia americana che bisognerebbe conoscere meglio, con un riflusso della laicità non laicista americana in una nozione oppressiva e fondamentalista del sacro. Ed eccoci al caso Buttiglione, per quel che ci riguarda. Ostellino ha lodevolmente firmato, da liberale, un appello in cui si esprimeva sobriamente «preoccupazione e rammarico» per la avvenuta discriminazione ai danni delle idee personali e del credo di un cattolico. Nonostante mille manipolazioni politicanti, alle quali il ”Corriere” è come sempre restato estraneo, che tendevano a mistificare i fatti, sappiamo ormai bene, fin troppo bene, che il commissario designato dal governo italiano è stato «defenestrato» e politicamente «bruciato» (questo è il piccolo ma significativo rogo della strega cattolica) perché ha rifiutato di tacere, qualunque cosa se ne pensi, la sua personale visione delle cose in materia di famiglia e di omosessualità, usando in modo peraltro dubitativo una parola che i liberali veri non dovrebbero espellere dal vocabolario, la parola «peccato». E avendo egli distinto con chiarezza esemplare, come abbiamo potuto leggere nei verbali pubblicati da ”l’Unità”, tra peccato e reato, tra morale e diritto, tra convinzioni personali e adesione alla Carta dei diritti europei e alle politiche di non discriminazione verso chiunque. La sostanza delle cose a mio giudizio è questa. Ci fu un tempo in cui religione e fede portavano il fardello del pregiudizio e dell’esclusivismo intollerante, c’è ora un tempo in cui questo fardello rischia di passare per intero alla religione civile e secolare di una laicità tradita nei suoi stessi principi liberali. Non è molto più complicato di così. E non sarebbe giusto che ci dividessimo, per malintese ragioni politiche, su questo segnale di allarme, che va percepito nelle sue giuste dimensioni, senza esagerazioni vittimistiche e senza minimizzazioni opportunistiche. Quanto al peso che in queste guerre culturali riveste il problema di un temibile risveglio attivistico dell’Islam nel mondo, all’indomani dell’11 settembre diventato un peso insostenibile con le tecniche della dilazione e della mera attesa dialogante, mi basta raccontare un episodio. Sabato sera, reduce da una buona e sana manifestazione milanese intorno a queste idee, mi sono sintonizzato sul programma di Fabio Fazio, Raitre, e ho ascoltato il cantautore Franco Battiato, il quale ha rivendicato di aver cantato nel Paese ormai felicemente obliterato di Saddam Hussein, ma «chiedendo e ottenendo che non ci fossero militari al concerto» (com’è edificante l’eufemismo, com’è bella l’edulcorazione dei fatti). E ha poi detto che Bush e Rumsfeld e altri sono dei «delinquenti» che «ammazzano centinaia di migliaia di uomini e donne in nome di Dio». Forse è bene che ci mettiamo in testa tutti, i veri liberali e gli inesistenti teocon, che l’equivoco occidentale sulla guerra, sulla pace e su Dio è molto profondo, e una semplificazione non enfatica nel segno della verità effettuale della cosa è opportuna. Sempre se pensiamo che il «dare la morte in nome di Dio», a meno che io non mi sbagli, sia una specialità oggi ascrivibile più a Bin Laden, ad al-Zarqawi e allo sterminatore di curdi e sciiti di nome Saddam che alle democrazie occidentali impegnate a garantire il diritto di voto degli iracheni. Grazie per l’ospitalità Giuliano Ferrara Che anche Kerry abbia pregato in pubblico non cambia i termini del problema. Continuo a pensare che il foro naturale della fede religiosa sia (debba essere) la coscienza individuale (e ciò spiega la mia solidarietà a Buttiglione); continuo a pensare che quando a diventarlo è la coscienza collettiva incomincino i guai (si chiamino persecuzione delle minoranze o guerre di religione). Sono altresì convinto - con Benjamin Constant - che il cittadino non si debba guardare solo dalla violenza dello Stato, ma anche da quella della società, dal conformismo dei suoi stessi concittadini (compreso quello laicista, quando diventa religione secolarizzata). Aggiungo che se, a occuparsi di fede religiosa, ci si mette anche il «magistrato» pubblico - di cui parla John Locke nella Lettera sulla tolleranza, il legislator humanus di cui parla Alessandro Passerin d’Entrèves nei suoi scritti su Marsilio da Padova - le cose si complicano ulteriormente (e ciò spiega perché io abbia chiesto contemporaneamente a Buttiglione se, da legislatore, sarebbe stato disposto a sacrificare la propria libertà di coscienza a quella del destinatario del suo agire politico ogni volta che fossero entrate in conflitto). pur vero che «in America - come dice Ferrara - il muro di separazione fra Chiesa e Stato è solidissimo», non fosse altro perché - aggiungo io - al protestantesimo è estraneo il concetto di Chiesa istituzionale e gerarchica. altrettanto vero che, in tale contesto, è più corretto parlare di associazioni che aggregano diverse sensibilità religiose e che di fronte alla sfida islamica - che è al tempo stesso religiosa e politica - gli americani hanno recuperato tutta intera la loro identità civile, che è anche religiosa. Ma ciò non toglie che, con il richiamo alle coscienze religiosamente motivate dei suoi concittadini, Bush - sia pure nel particolare contesto americano e alla luce dell’attuale contingenza storica - abbia «portato la religione all’interno dell’ambito dello Stato», trasformandola in Instrumentum regni. Un’esperienza, in ogni caso, da non imitare, qui da noi, dove il «patto» fra Politica e Religione non sarebbe fra coscienze, come è nella liberale America, ma fra istituzioni, fra Stato e Chiesa. Con danno per entrambi. Piero Ostellino