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 2006  gennaio 13 Venerdì calendario

Alberto Melloni processa l’homo religiosus e la tirannia dei valori. Nell’arena pubblica c’è oggi una tentazione per i cristiani abbastanza singolare, che è quella di vedersi offrire rispettabilità politica e largo spazio sociale, a patto che l’esperienza di fede accetti di ridursi a religione civile

Alberto Melloni processa l’homo religiosus e la tirannia dei valori. Nell’arena pubblica c’è oggi una tentazione per i cristiani abbastanza singolare, che è quella di vedersi offrire rispettabilità politica e largo spazio sociale, a patto che l’esperienza di fede accetti di ridursi a religione civile. Il tema si presenta come una tentazione perché sembra rispondere a un cruccio storico delle chiese nella modernità. Coniugato in modo diverso nelle chiese sostenute dallo Stato col sistema di establishment tipico della tradizione protestante e anglicana, nelle terre ortodosse e nelle nazioni cattoliche il problema dello statuto della secolarizzazione ha inquietato i credenti. Nel caso della chiesa di Roma, la predicazione, dalla fine del XVII secolo in poi, non cessa di lamentare la progressiva secolarizzazione e di denunciarne gli effetti perversi sul sistema politico, sulla vita sociale, sul regime economico, sulla legislazione. Agisce a lungo il mito di una cristianità perduta da ricostruire o tramite l’egemonia cattolica sulla nazione o tramite la mediazione della democrazia in nome di valori di diritto naturale di cui la chiesa è custode: dapprima dentro le visioni politiche e poi - lo ha documentato Daniele Menozzi a proposito del Sacro Cuore - perfino nel sostrato ideologico di devozioni che milioni di fedeli praticano con tutt’altro intento, il mito agisce anche dopo che il Vaticano II ha introdotto la categoria dei segni dei tempi, come appello a riconoscere nella speranza mondana echi e scintille della stesa voce evangelica. Lo si coglie nell’impegno e nel modo col quale la chiesa ha battagliato su temi ad alto valore simbolico lungo tutto il secolo scorso: dalle costituzioni al diritto di famiglia, dalla politica scolastica ai diritti dell’embrione, dall’insegnamento religioso alla memoria delle radici cristiane dell’Europa, il cattolicesimo profonde un impegno che non è commisurato ai risultati o ai problemi, ma al desiderio di affermare il proprio diritto/dovere di parlare, contro le culture della seprazione e contro la religione della laicità (il che accende di tanto in tanto scaramucce verbali con reperti di un anticlericalismo che si solletica, dimentichi di cosa esso fosse). Ma il sogno della cristianità perduta non visita solo il sonno della chiesa: perché il mito di una simbiosi politico-religiosa è sopravvissuto al suo incubatore ideologico, generando anche al di fuori del cristianesimo il rimpianto per un’età nella quale un’agenzia specializzata era incaricata di dipanare le matasse valoriali. Rimpiangendo una chiesa che fungeva da ministero degli affari etici, la politica crea una lusinga che la chiesa sente: offrire alle chiese un posto nella compaginazione della società, nella manutenzione del suo immaginario e dello iato fra i ricordi dell’infanzia e le durezze dell’età adulta significa fornire alla vita cristiana una funzione civile, articolata in modi sensibilmente diversi in universi culturali differenti. Nell’American way of life il valore della religione è tale a prescindere dal suo contenuto o dal grado di riconoscimento che ottiene. Questo sostrato è quello che legittima e pretende legittimità da tutte le compagini religiose, con effetti che la vecchia Europa guarda con sufficienza paternalistica o con superficialità. usuale, di qua dell’Atlantico, sospettare una strumentalizzazione della religione a fini politici o giudicare fittizia la separazione stato/chiesa della costituzione americana: invece è proprio il contrario. La devozione presidenziale è «sempre» sincera ed è proprio l’effettiva separazione tra sfere che impone alla politica di esprimersi in termini morali (con un appello al dovere e al sacrificio, al bene e al male, che risuonano nei discorsi dei presidenti degli Stati Uniti, quasi fosse una predicazione, soggetta però al vaglio democratico). Ciò comporta dei rischi: l’enfasi religiosa della filiera neoconservatrice che ha gestito le guerre dopo l’11 settembre è ben nota. Ma in un paese dove un romanzo apocalittico a puntate che vede nell’arrivo di un ex comunista alla guida dell’Onu il segno del pericolo escatologico per la nuova Sion americana vende milioni di copie, non è questo il dato saliente. Quello della civil religion nordamericana è un sistema compensato dalla solidità democratica della cultura politica che impone alle chiese un’effettiva uguaglianza e l’assunzione di stili politically correct. Altro è il discorso in Europa, dove prevale una diversa tradizione, che - a monte di tutte le divisioni confessionali – era già stata intuita dal poeta latino Varrone, secondo il quale la città ha bisogno di una theologia civilis - culto indispensabile alla vita collettiva. Il tema, riassorbito dall’esperienza della christianitas medievale (che somministra l’una e l’altra teologia nello stesso calice), riemerge nella teoria politica moderna sia attraverso Hugo Grozio sia con Jean-Jacques Rousseau, e vi rimane fino alla rivisitazione filosofica di Robert N. Bellah, secondo il quale le chiese possono o devono fornire una base di valori a una società che può sorridere del loro fondamento dogmatico. Il che pone un problema enorme al vissuto dei cristiani. Essi rivendicano l’originalità della loro presenza nella società a partire dalla fede nell’uomo come immagine del creatore e dall’evangelo come contenuto della missione della chiesa: si trovano, però, una società che, archiviata la parentesi dell’ateismo scientifico, non ha nessuna intenzione di limitare i loro spazi d’azione. Anzi: è disposta a concederne di immensi, a patto che i cristiani concedano che la loro motivazione sia ignorata. Gli esempi si potrebbero moltiplicare, ma due mi paiono particolarmente significativi: quello della povertà e quello dell’escatologia.  sotto gli occhi di tutti che il significato della povertà cristiana è sempre più debolmente affermato: se c’è una povertà che parla, non è quella della chiesa, ma quella dei poveri disgraziati ai quali la chiesa va incontro con iniziative generose, in ogni angolo del mondo. Frutto della dedizione cristiana che riconosce nel povero e nella sua insistenza il volto stesso di Dio, la carità diventa lo strumento col quale le chiese garantiscono la compensazione di disparità socialmente pericolose, partecipano agli utopismi degli «altri mondi possibili» che eccitano i sentimenti della meglio gioventù, si procurano gratitudine e spazio mondano. Anche le forme più radicali e «profetiche» alimentano il circuito mediatico, quasi a indicare che la disadorna bellezza della sobrietà è privilegio di pochi e non può suggerire una via di liberazione collettiva degli insostenibili imperativi del consumo. Altro argomento che viene sterilizzato ancor più radicalmente dalla religione civile è quello dell’escatologia. L’annuncio della finitezza di questo mondo e il censimento delle sue tante tragiche doglie non gode oggi di particolare attenzione: è piuttosto la capacità di dare motivazioni socialmente riconoscibili che viene offerta dalle chiese e accolta dalle autorità politiche. Che questo sia funzionale a posizioni conservatrici è evidente: per disciplinare i propri sudditi il sacrum imperium – lo scoprì Aloys Dempf negli anni Venti – ha bisogno che l’orizzonte ultimo del mondo sia presidiato dall’autorità ecclesiastica che lo mantiene vistoso e lontano. Eppure, perfino in quelle esperienze che si vorrebbero più radicali, la logica rimane la stessa: si dà voce e legittimazione politica (da sinistra, per dirla in termini semplicisticamente parlamentari) a posizioni radicali, enunciate «senza se e senza ma», ma al basso prezzo d’una ideologia gauchiste della cristianità, che cerca di guadagnare a Dio ciò che sarebbe il dovere di Cesare. La tentazione, dunque, è generale e imbarazzante: perché chi sente l’attrazione fatale della religione civile è la chiesa di popolo, nei cui capi c’è forse avidità di potere, ma nel cui corpo c’è invece una misura di realismo e di disincanto, che non è certo il peggior servizio reso dai credenti alla società. In chi contesta la validità di questo modello, non mancano i segni di una supponenza intellettuale o di un rigorismo intollerante, nel quale baluginano tratti di ipocrisia e disumanità. Giuseppe Ruggieri ha scritto che questo dilemma è quello che Francesco d’Assisi enuncia nel testamento del 1226: fedeltà alla forma evangelii e insieme riconoscimento della forma ecclesiae romanae. Ma l’umiltà buona della sintesi del poverello non è merce che abbonda. *** Carl Schmitt, un giurista intrigante per il denso pensiero e inquietante per il suo rapporto giovanile col nazismo, scrisse un folgorante saggio sulla «tirannia dei valori» pubblicato per l’emeritato di Ernst Forsthoff nel 1967: la tesi del politologo tedesco è che, nel momento in cui la teologia si adegua alla costruzione di una scala di valori con Dio in testa, nega con ciò stesso l’irriducibile alterità di Dio assimilandolo, appunto, a un valore. Quel grido d’allarme non cessa d’interpellare le teologie e le esperienze cristiane, con un significato particolare per il cattolicesimo. Prescindendo dalla lunga discussione filosofica sulla trascendenza oggettiva o meno dei valori rispetto al riconoscimento del soggetto, sulla loro riduzione o irriducibilità all’esperienza morale, che ha segnato il secondo Novecento, le chiese si trovano oggi alle prese con un fatto. E cioè che il «valore» ha sostituito il bene, almeno sul piano descrittivo: se il valore è ciò che hic et nunc muove l’azione individuale o collettiva, questa può essere capita accettando la riduzione sociologica dei valori operata da Max Weber. Un «valore» è tale perché è «valutabile» e non ha altra trascendenza che quella «normativa», grazie alla quale diventa riferimento dell’azione storica concreta. In questo contesto le chiese acquistano agli occhi delle società la funzione di «agenzie» che orientano verso valori essenziali all’equilibrio della polis. A una parte della chiesa questo non dispiace, specie se prefigura quel ruolo di agenzia del senso e cappellania della religone civile già accennato: in fondo c’è tutta una filiera spirituale e politica che parte proprio dalla presunzione che il compito dell’homo religiosus sia fornire senso, specialmente laddove l’esperienza lacerante della morte e di tutti i suoi possibili prodromi rende l’uomo più vulnerabile. Non solo in un noto libro di don Luigi Giussani, ma in tutta una serie di opere e attività pare che il massimo «valore cattolico» sia quello di somministrare senso a persone stordite, dalla modernità o dal dolore, dal benessere o dalla malattia. Il valore primo sarebbe la capacità di sferzare senza pietà l’inquietudine, di somministrare in tempo reale il sofisma del senso nel momento più estremo, pavimentare in lisci teoremi ogni passaggio della vita e della morte: ma nel rivendicare come un possesso ciò che renderebbe più sciagurati coloro che s’avviano al triste cammino verso lo Sheol senza quel conforto, non si finisce per perdere il contenuto stesso della grazia? Non si finisce per perdere la capacità di sperimentare quella che la Vulgata definiva humanitas et benignitas di Dio manifestatesi in Gesù? Su questo le chiese non attendono di rispondere, ma di riflettere; e poi di scegliere, come chiosa Giuseppe Ruggieri, «il modo di servire l’uomo che maggiormente corrisponde alla loro vocazione: annunciando il regno o costruendo una città ”religiosa”». (brani tratti da: Alberto Melloni, Chiesa madre, chiesa matrigna, Einaudi 2004, pagine 99-104 e 130-132)