Dino Boffo Avvenire, 13/11/2004, 13 novembre 2004
Cortese duello fra le due anime del cattolicesimo, Avvenire, 13/11/2004 Egregio Direttore, ho letto e riflettuto sui numerosi interventi critici, a cominciare dal suo editoriale, che ”Avvenire” di giovedì ha dedicato a un mio articolo comparso su ”Repubblica” del 10 scorso
Cortese duello fra le due anime del cattolicesimo, Avvenire, 13/11/2004 Egregio Direttore, ho letto e riflettuto sui numerosi interventi critici, a cominciare dal suo editoriale, che ”Avvenire” di giovedì ha dedicato a un mio articolo comparso su ”Repubblica” del 10 scorso. Il suo editoriale conclude con due domande alle quali naturalmente desidero rispondere. Ma vorrei ancora prima di rispondere alle sua domande proporle alcune osservazioni di carattere generale. Non nego certo che il mio articolo possa essere discusso in tutte le sue affermazioni, ma trovo davvero strano che un giornale, che dovrebbe essere il quotidiano dei cattolici italiani, in un fondo e due pagine di commenti (forse troppo, per discutere un articolo!) non abbia saputo dare una voce, dico una, che non fosse critica e di dissenso. La cosa mi sorprende perché io ho direttamente avuto sul mio telefono, manifestazioni di consenso da voci, anche autorevoli, di cattolici, laici e vescovi. Non dovrebbe, il suo giornale, essere lo strumento offerto al cattolicesimo italiano perché possa esprimersi e confrontarsi lealmente e fraternamente, in tutte le sue ricche componenti, ai fini di una riccerca e di una maturazione comune? Non rischia invece di diventare la voce di una tendenza di parte? Una tendenza di parte che, quando si tratta di argomenti, come quello che io ho trattato su ”Repubblica”, che sono a cavallo tra religione e politica, diventa fatalmente tendenza politica di parte? La domanda è per me retorica perché, a me preclusa la possibilità di collaborare al suo giornale (se non, occasionalmente, per qualche commento sulle pagine culturali) ma è tuttavia doverosa rispetto al pubblico dei suoi lettori. Tralascio ora ogni tentativo di rispondere alle molte critiche che mi sono state mosse: se lei vorrà invitarmi sarò ben lieto di farlo in una prossima occasione. Vengo invece alle due domande che lei mi pone: le trascrivo perché trovo sgradevole che il pensiero altrui, specialmente quando si dissente, sia riassunto utilizzando pezzi scelti con intento polemico. Prima sua domanda: «Non era un contenuto irrinunciabile del cosiddetto cattolicesimo democratico l’assoluto rispetto per la coscienza individuale? E non è forse vero che per affermare questo principio si sono affrontati notevoli dissensi intraecclesiali dal referendum sul divorzio in poi? Perché allora non accordare questo rispetto per la coscienza di chiunque? Non solo a chi fronteggia ostilmente la Chiesa ma anche a chi - per una volta - si avvicina con curiosità intellettuale diversa e nuova?». Seconda sua domanda: «Perchè tanta stizza se in partibus infidelium si va incontro alla Chiesa sul piano della ragionevolezza di certe posizioni e della plausibilità di alcune sue ragioni? Come mai questo fastidio? Forse per gelosia, come di un’usurpazione di ruolo? O per il sospetto di qualche convenienza politica, quasi fosse un vizio inesorabilmente esportabile?». Mi consenta una risposta unitaria dato lo stretto nesso fra le due domande. Certo, la coscienza va sempre rispettata; non c’è bisogno di essere cattolici democratici per pensarlo e professarlo. Le lacerazioni ecclesiali in nome di questo principio fanno parte integrante della storia della Chiesa dalla Mirari vos di Gregorio XVI al Sillabo di Pio IX sino (finalmente) alla Dignitatis Humanae. Il referendum sul divorzio del ’74 (sono passati 30 anni!) meriterebbe una approfondita riflessione che mi piacerebbe veder affrontata dai cattolici in un dibattito sereno. Il rispetto della coscienza dunque deve andare a chiunque, ad avversari dichiarati come a chi si avvicina; con tutti va praticato il dialogo più rispettoso; nessuna stizza e nessuna gelosia per chi si avvicina, anzi accoglienza fraterna. Credo di aver sempre praticato questi principi con tutti. Se non lo ho fatto, ho sbagliato. Ma il problema, caro Direttore, non è questo, non è quello cioè del rapporto con le singole persone, con le singole coscienze: è ben più duro il problema del rapporto della Chiesa con il potere politico (ed economico), un problema che la accompagna in tutta la sua storia e che la vede sempre lacerata fra la coerenza al Vangelo e il coinvolgimento nelle logiche del potere. è su questo terreno che nascono le domande più impegnative e scottanti. Su questo terreno nascono i rischi di quello che Luigi Sturzo chiamava clerico-moderatismo e poi clerico-fascismo, i rischi cioè dello scambio: consenso della Chiesa e legittimazione morale del potere in cambio di benefici e favori del potere medesimo. Il richiamo all’Action française non voleva affatto attribuire alla Chiesa di oggi le posizioni che furono allora di tanta parte della Chiesa francese, o ai laici di oggi che cercano un rapporto con la Chiesa le posizioni di Charles Maurras, ma semplicemente indicare la forma estrema e culturalmente più elaborata del fenomeno. Ebbene, caro Direttore, io le chiedo se oggi, dopo che è venuta meno la Dc, a questo rischio la Chiesa italiana non sia esposta. Molti cattolici - e io sono fra questi - lo pensano e lo temono. A questo rischio unica e valida risposta è proprio quella della laicità dello Stato intesa non nel senso di un’ideologia di Stato, sicché alla religione non restino che gli spazi della coscienza individuale, ma nel senso in cui, ispirandosi alla esperienza americana e alla lezione di Tocqueville, l’idea di laicità è venuta maturando nel nostro Paese non senza l’apporto di illustri cattolici. E poi ancora: non vede lei il pericolo che di fronte alla minaccia reale del terrorismo si voglia coinvolgere la Chiesa in uno scontro di civiltà o in una crociata? Quando invece il suo compito, sulla scia dell’insegnamento di Giovanni Paolo II, sembra a me quello di chiamare il mondo ricco dell’occidente ad assumere le sue responsabilità di fronte alle enormi ingiustizie che sono fra i fattori in cui il terrorismo affonda le sue radici. Non si tratta certo di negare il diritto alla difesa dal terrorismo, ma di aggiungere un coerente impegno al dialogo interreligioso e per far sì che il fattore religioso sia elemento di pace e di convivenza e non di lacerazione fra gli uomini. Sarei lieto di poter continuare e approfondire con lei questo confronto e intanto la prego di gradire i migliori saluti. Pietro Scoppola Avvenire, sabato 13 novembre La ringrazio, illustre Professore, per la corposa attenzione che ha voluto prestare al nostro giornale, e in particolare all’edizione di giovedì 11 novembre. La ringrazio per il tono colloquiale e per la disponibilità dichiarata a proseguire il confronto anche in altre occasioni. Non mancheranno, vedrà. In fondo, quando mercoledì 3 novembre l’abbiamo cercata per raccogliere un’intervista sui risultati ancora bollenti delle urne americane, ci muoveva appunto la curiosità squisitamente cattolica di conoscere le valutazioni potenzialmente più interessanti. Lei mi fece sapere, attraverso il mio collega, che per una serie di giorni sarebbe stato molto preso e che dunque avremmo dovuto rinunciare all’intervista.Un motivo in più per apprezzare la riflessione che oggi ci invia. Cos’è in fin dei conti ”Avvenire”, se non un giornale che con lealtà e senza stucchevolezze discute con tutti i cattolici e tutti i laici che ci stanno ad averci come interlocutori? Che discute all’interno, nelle sue stesse pagine, ma che partecipa anche al dibattito generale che è sempre in corso nel Paese. Qualcuno pensa che il nostro appellarci a intelligenze e competenze laiche sia un modo per scantonare rispetto alle esigenze del confronto interno al mondo cattolico. Niente è meno vero di questa supposizione. Riconosciamo a noi, giornalisti di ”Avvenire”, la stessa libertà di interlocuzione che hanno tutti. C’è, ovvio, un ”galateo” per noi e per chiunque parla attraverso le nostre pagine, ma ritengo che ci sia un ”galateo” anche per i cattolici che scrivono su altre testate. Con garbo lei mi fa notare che l’aver reagito al suo articolo apparso su ”Repubblica” attravero un fondo e ben due pagine di Agorà sia stato un tantino eccessivo. Come ingombro tipografico, non parliamo della qialità degli interventi. E per certi versi posso darle ragione. Non per altri, tuttavia, e mi conceda questo piccolo puntiglio. Il suo editoriale era il terzo bombardamento che la nave ammiraglia egregiamente capitanata da Ezio Mauro faceva partire nell’arco di tre giorni nella stessa direzione. In precedenza erano intervenuti Eugenio Scalfari e Stefano Rodotà, e la concatenazione dei pezzi era evidente, al punto che i due superlaici sono gli unici (unici) referenti citati nel suo pezzo. Ebbene, per chi, come noi di ”Avvenire”, ha tutta la libertà che ha lei e in più qualche responsabilità per il retroterra cui dobbiamo dar voce, non era forse il momento di mandare un segnale? Proprio noi che, nelle settimane precedenti, avevamo evitato di farci coinvolgere in prima persona in iniziative di mobilitazione, noi per la responsabilità che abbiamo anche di fronte al mondo laico, non dovevamo forse dire: attenzione, state oltreppassando il segno? Sa, Professore, che cosa mi è piaciuto nella sua lettera di oggi? Il ridimensionamento che lei opera circa l’analogia con l’Action française, che era - spiega ora - solo un esempio che andava preso in modo circoscritto. Ok, professore. Così va molto meglio, perché - siamo sinceri - nella sua intemerata iniziale il riferimento alla infelice esperienza francese non era proprio accidentale. Era il cuore dell’articolo, una parabola elaborata nei particolari e capziosa nei rimandi. Posso? Era un’evocazione forzata e subdola, con accentuazioni di (involontaria, ne sono certo) violenza. Per fortuna, lei ora ridimensiona l’analogia, come peraltro aveva già fatto ieri rispondendo a Giuliano Ferrara su ”Repubblica”. Lei può capirci, specie in tema di analogie storiche. Qualcuno un bel giorno ha pensato di accostare l’attuale stagione della vita della nostra Chiesa a quella clerico-fascista del famoso ventennio. Anche in questo caso, doveva trattarsi di una semplice paragone, appena accennato. è diventato l’unico argomento con cui si obietta, una giaculatoria invocata a proposito ma anche no, come una frase taumaturgica che si ripete per gli scongiuri. Professore, lei non ha idea di quanto io rispetti la sua cultura e la sua saggezza. Per questo mi lasci dire che mi attendo da lei delle argomentazioni un po’ scomode se vuole, ma meglio pertinenti alle dimensioni e alle caratteristiche dei problemi che sono oggi sul tappeto. Io non nego che i pericoli in cui si è imbattuta la Chiesa nei decenni scorsi possano in parte ancora presentarsi. In fondo, la tentazione del potere e dell’avere non sarà mai vinta del tutto: come per i singoli credenti così per tutta la Chiesa. Ma, davvero, lei vuol convincermi che questo pericolo è più incombente di quello rappresentato dall’afasia dinnanzi alla cultura radicaloide, antropologicamente disarcionante, come l’attuale? Davvero, non possiamo ragionare attorno a questo concreto allarme per il terrore che ciò implichi in partenza un’opzione di tipo politico? Siamo a tal punto assorbiti nel dilemma Berlusconi-Prodi da non riuscire a delucidare con la dovuta accortezza i rischi che tutti corriamo, e che ammorbano l’ambiente comune? Possibile che l’unica obiezione che inesorabilmente salta fuori sia il pericolo clerico-fascista? Ma c’è proporzione secondo lei, sia impavido, tra i problemi veri e crescenti e queste minianamnesi? Mi dà sollievo sapere che anche lei è preoccupato dalle questioni poste dal fondamentalismo islamico e dal terrorismo internazionale. Se un poco ci segue, saprà che questo giornale non ha eluso tali scogli, e non ci siamo accontentati dei pensierini-che-danno-sicurezza. Abbiamo cercato le derivazioni e indagato sulle implicanze. Ci siamo messi in guardia dagli scivolamenti. Non ci siamo piegati a risposte mediocri. Certo, alla scuola del Papa, può ben dirlo. In questo campo come negli altri di natura antropologica, come nei nessi sussitenti tra le due frontiere, riteniamo che il pontificato stia esprimendo non a caso il massimo della sua curvatura profetica. A presto, Professore. Con ogni cordialità. Dino Boffo