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 2006  gennaio 05 Giovedì calendario

Bill, l’uomo che prese il duce. La Stampa 05/01/2006. La raccontava così: «Un partigiano mi urla ”Bill gh’è chi el crapùn”

Bill, l’uomo che prese il duce. La Stampa 05/01/2006. La raccontava così: «Un partigiano mi urla ”Bill gh’è chi el crapùn”. Come l’ho visto, ho esclamato ”Eccellenza”, ma lui non ha risposto. Ho gridato anche ”Camerata”, ma quello ancora niente. Sono salito sul camion, mi sono avvicinato, e gli ho detto: ”Cavalier Benito Mussolini”, ed è come se gli avessi dato una scossa elettrica. Gli ho tolto elmetto ed occhiali, il mitra Beretta e l’ho arrestato. L’uomo che ha fatto tremare il mondo è lì, accosciato ai miei piedi, pallido, quasi senza vita». Andò veramente in questo modo? La morte, ieri, all’Ospedale di Vercelli, all’età di 81 anni, di Urbano Lazzaro, l’uomo che arrestò Benito Mussolini, riapre di colpo l’irrisolta querelle sulla cattura e la fucilazione del Duce in fuga, fra il 27 e il 28 aprile del 1945. All’epoca Lazzaro, nato a Quinto Vicentino, ex militare della Guardia di Finanza, incarcerato dalle SS dopo l’8 settembre, ma evaso prima di essere spedito in campo di concentramento, era vicecommissario di una formazione comunista: la 52° Brigata Garibaldi, col nome di battaglia Bill. Gli ultimi tre giorni di vita del capo del fascismo (e della sua compagna Claretta Petacci), carichi di interrogativi mai chiariti, sono passati alla storia come «il dramma di Dongo». Il Duce parte da Como con la speranza di trovare scampo in Valtellina o in Tirolo. Con lui c’è un gruppo di gerarchi. Nell’ultima stanca telefonata, dice alla moglie Rachele: «Non c’è più nessuno intorno a me». La mattina del 27 aprile, con un tempo terribile e la radio che diffondeva notizie dell’insurrezione, si unisce a un distaccamento motorizzato di duecento soldati tedeschi. L’autocolonna è bloccata da una unità di garibaldini: la si lascia passare, con l’accordo che a Dongo il convoglio sia ispezionato dalla 52° Brigata, per accertarsi che non trasporti italiani in fuga. Il comandante tedesco fa nascondere Mussolini in fondo a un camion, travestito da soldato, con elmetto, occhiali, pastrano e mitra. Ma a Dongo un partigiano, Giuseppe Negri, crede di riconoscerlo e avverte Lazzaro, suo vicecommissario: «Gh’è chi el crapùn». I contrasti (e le polemiche) fra le varie ricostruzioni riguardano quanto accadde dopo. E soprattutto la decisione e le circostanze della fucilazione. Sulla quale è caduta, non più di due mesi fa, anche la mannaia di un giudizio negativo di Massimo D’Alema (a Bruno Vespa, per il suo libro Vincitori e vinti). Secondo la versione più accreditata, la condanna a morte di Benito Mussolini venne decisa in quella notte da un gruppetto di membri del Comitato di Liberazione, di cui facevano parte Luigi Longo ed Emilio Sereni per il Pci, Sandro Pertini per il Psi e Leo Valiani per il Partito d’Azione. Incaricato dell’esecuzione un anziano partigiano delle brigate internazionali, Walter Audisio, noto come «il colonnello Valerio». Ma, ufficialmente, il suo compito doveva essere quello di portare il Duce a Milano: questo risultava al capitano americano e al generale Cadorna, che gli avevano firmato due lasciapassare. Con lui partono altri due personaggi della Resistenza: Aldo Lampredi e Riccardo Mordini, con una dozzina di uomini. Qui Lazzaro ha sostenuto un punto assolutamente divergente: «Il colonnello Valerio, quello che ho visto io a Dongo, non era il ragionier Walter Audisio, bensì Luigi Longo». Un altissimo dirigente del Pci, addirittura il successore di Togliatti, si sarebbe incaricato dell’uccisione del Duce. Urbano Lazzaro lo dichiara polemicamente in conferenze e interviste, in occasione di libri di destra e di sinistra sulla fine del Duce. E lo ripete apertamente, quando pubblica un suo libro: Il compagno Bill. Diario dell’uono che catturò Mussolini (Sei, 1989). L’oro di Dongo (titolo di un altro suo libro), cioè un tesoro dei fascisti di cui si è favoleggiata la scomparsa, è un altro punto controverso su cui Lazzaro ha fornito versioni destinate ad alimentare le polemiche: «Il cosiddetto tesoro di Dongo - sono sue parole - è costituito da un fiume di denaro, preziosi e documenti», la parte più consistente portata da Mussolini in fuga, da ministri e gerarchi. A chi gli chiedeva dove fosse finito questo fiume di ricchezze: «La gran parte è stata consegnata - rispondeva - al Partito comunista di Como». Vissuto per lavoro a Rio de Janeiro, ma sposatosi a San Germano Vercellese (dove rientrava spesso per l’estate), l’ex compagno Bill aveva avuto d’altronde aspri rapporti con il Pci. Raccontava di essere stato oggetto di discriminazione da parte di Palmiro Togliatti e dei vertici del partito: «Ero veramente uno da zittire, perché sapevo vita, morte e miracoli di chi stava davanti a me e dietro di me. Un testimone scomodo». Se custodiva ancora qualche segreto, lo porta con se nella tomba di famiglia della moglie, a Crova Vercellese, dove sarà sepolto oggi. Alberto Papuzzi