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 2004  novembre 09 Martedì calendario

L’impossibile missione della stampa: la neutralità sul conflitto in Israele, la Repubblica, 09/11/2004 Pochi libri m’avevano tanto coinvolto, negli ultimi anni, come questo Disenchantment: the Guardian and Israel (Guardian books, pagg

L’impossibile missione della stampa: la neutralità sul conflitto in Israele, la Repubblica, 09/11/2004 Pochi libri m’avevano tanto coinvolto, negli ultimi anni, come questo Disenchantment: the Guardian and Israel (Guardian books, pagg. 296, sterline 18), in cui una giornalista israeliana, Daphna Baram, ricostruisce la storia dei rapporti tra un vecchio e glorioso giornale europeo, l’inglese ”Guardian”, e lo Stato ebraico. La ragione della ricerca e ricostruzione condotta dalla Baram, è presto detta: il ”Guardian” viene accusato, per i suoi reportages e commenti sul conflitto israelo-palestinese, d’essere un giornale non solo fortemente critico dei governi d’Israele, ma persino antisemita. L’accusa d’antisemitismo viene dalle autorità israeliane e dalle organizzazioni della propaganda ebraica in Europa e negli Stati Uniti: e negli ultimi tempi è stata così martellante e violenta, che il ”Guardian” ha dovuto difendersene in numerosi editoriali, messe a punto e incontri con la comunità ebraica nel Regno Unito. La Barnam è andata perciò a vedere. Ha sfogliato pazientemente le collezioni, ha intervistato un paio dei direttori del giornale succedutisi nell’ultimo trentennio, ha sentito i giornalisti che da Israele o altri paesi del Medio Oriente hanno raccontato per il ”Guardian” le tante e sanguinose fasi del conflitto. Ha cercato di stabilire se un quotidiano autorevole, «liberal», il preferito dalla ”intellighentsia” britannica (e che per mezzo secolo, dal tempo della dichiarazione Balfour nel 1917 sino al 1967, fu fervidamente favorevole prima al progetto sionista e poi al giovane Stato ebraico), abbia potuto più tardi rivelare umori e atteggiamenti antisemiti. O comunque, se vi sia stata dagli anni Ottanta in poi una sua parzialità rispetto ai contendenti: una critica troppo aspra e sistematica della politica israeliana, uno sguardo più attento e partecipe sulle sventure dei palestinesi che non sulle esigenze della sicurezza d’Israele. Insomma un pregiudizio anti-israeliano, degenerato poi in pregiudizio anti-ebraico. Il lettore abituale di ”Repubblica” avrà certamente già capito perché ho detto all’inizio che la lettura del libro della Barnam mi ha profondamente coinvolto. Sono quasi quarant’anni che mi occupo del conflitto in Medio Oriente, e ho dovuto anch’io fronteggiare le accuse rivolte al ”Guardian” e ai suoi giornalisti. ”Repubblica” stessa (e non solo a causa mia: penso per esempio ai reportages e commenti di Bernardo Valli) viene considerato in Israele un giornale filo-palestinese: e nel linguaggio degli ultra filo-israeliani, addirittura antisemita. Così, anch’io sono dovuto ricorrere più volte a chiarimenti e messe a punto per ribadire che la solidarietà con lo Stato ebraico, le preoccupazioni per la sua sicurezza, non devono impedire la critica degli errori politici commessi dai governi d’Israele, né l’indignazione per l’uso smodato della forza militare che essi hanno fatto innumerevoli volte, e ancor oggi continuano a fare. Sicché il libro sul rapporto tra il ”Guardian” e Israele mi è servito da specchio per guardare al rapporto che io, e in certa misura ”Repubblica”, abbiamo con Israele. Accennavo più avanti che il ”Manchester Guardian” (come il giornale si chiamò sino agli anni Sessanta) fu all’inizio del Novecento il più filo-sionista dei giornali inglesi. Ed è da lì, dai rapporti tra il sionista Chaim Weizmann e l’allora direttore del giornale Charles P. Scott, che la Barnam avvia la sua ricostruzione. Seguiamola, beninteso per sommi capi, così da capire se, quando e come il ”Guardian” abbia rinunciato alla sua imparzialità per esprimere una tendenza antisraeliana. Per i primi trent’anni dalla dichiarazione Balfour in poi, il sostegno del giornale di Manchester all’impresa sionista è ferreo. C’è un sussulto nel ’46, verso la fine del Mandato britannico sulla Palestina, quando l’Irgun di Menahem Begin compie un tremendo attentato all’hotel King David di Gerusalemme, lasciando sul terreno novanta morti. L’editoriale del direttore Wadsworth è severo, ma l’appoggio alla fondazione d’Israele non viene meno. Nel ’48 la nascita dello Stato avrà infatti cronache e titoli entusiasti: e subito dopo Wadsworth invia a Gerusalemme Arthur Koestler, i cui articoli appassionanti sulla realizzazione del sogno sionista e l’emergere del «new jew», l’ebreo nuovo, diverranno la materia di Ladri nella notte, uno dei suoi libri migliori. Bisogna aspettare gli anni Sessanta perché dal ”Guardian” trapelino le prime preoccupazioni sul destino dei rifugiati palestinesi. Il direttore è adesso Alaistair Hetherington, le cui simpatie filo-israeliane sono note, ma tra i giornalisti e i commentatori che scrivono sulla crisi del Medio Oriente comincia a sorgere qualche perplessità sulla condotta d’Israele. E con la guerra dei Sei giorni e la folgorante vittoria israeliana, i dubbi si fanno sempre più pungenti. Convinto che la vittoria stia fomentando nello Stato ebraico pericolosi progetti espansionistici, uno degli editorialisti, Frank Edmead, scrive più volte che Israele deve ritirarsi dai territori occupati e mostrare un atteggiamento di conciliazione verso i palestinesi. Ma il tono dei suoi articoli non piace alla comunità ebraica in Inghilterra né a Hetherington, e dopo un po’ Edmead deve lasciare il giornale. Per quanto filo-israeliana e favorevole all’annessione d’una parte dei territori, la direzione del ”Guardian” non è tuttavia disposta a tacere qualsiasi critica. Ecco infatti apparire un articolo profetico di Michael Adams in cui è detto che se Israele non coglierà l’occasione della sua grande vittoria per ricucire i rapporti con i vicini arabi e alleviare nella misura del possibile la tragedia palestinese, «noi in Occidente, e anche Israele, e forse il mondo intero, ne subiremo le conseguenze». è la posizione d’un altro glorioso quotidiano europeo, ”Le Monde”: e in Italia di alcuni giornalisti che cercano di far filtrare nei due maggiori quotidiani del paese, il ”Corriere della Sera” e ”La Stampa”, ambedue ferreamente pro-israeliani, le prime obbiezioni alla politica del governo di Golda Meir. Alla sua deliberata indifferenza per la sorte dei palestinesi, alla sua presunzione d’invincibilità: gli errori da cui sono poi derivate, così come aveva previsto Adams, tante sventure. Nella seconda metà dei Settanta, col nuovo direttore Paul Preston, la posizione del ”Guardian” si fa più critica. A Gerusalemme è andato al governo il Likud di Begin, con la sua visione d’un Grande Israele che comprenda i territori biblici di Giudea e Samaria. Inizia perciò, ispirata da Ariel Sharon, la politica degli insediamenti, il definitivo, sinistro segnale che Israele non intende ritirarsi dalla Cisgiordania e da Gaza, mentre il regime d’occupazione comporta il moltiplicarsi di sempre più gravi violazioni dei diritti umani. Ancora pochi anni, e Sharon convince Begin a lanciare la disastrosa avventura libanese che culmina nella strage di Sabra e Shatila. Ed è a questo punto che i moniti e i giudizi negativi del ”Guardian” (come di molta altra stampa «liberal» europea, per esempio il ”Monde”, ”Repubblica” o il ”País”) si fanno più frequenti e accalorati. Seguono gli anni della prima Intifada, quindi inizia con gli accordi di Oslo il cosiddetto processo di pace. I giornali europei cercano d’essere equanimi: condannano gli attentati dei primi kamikaze palestinesi, criticano le mosse con cui il governo di Benyamin Netanyahu ostacola, rallenta e poi insabbia il piano dei ritiri israeliani dai Territori, salutano l’avvento del nuovo primo ministro Ehud Barak e i suoi sforzi di giungere a un compromesso. Il resto è storia recente. Arafat rifiuta le offerte di Camp David, esplode la seconda Intifada, il terrorismo palestinese fa strage di innocenti nelle città israeliane e l’esercito israeliano risponde con rappresaglie altrettanto sanguinose. Chi ne avesse voglia, può andare a vedere - come ha fatto la Barnam per il ”Guardian” - quale sia stato in questi anni l’atteggiamento dei giornali che ho nominato. Sdegno verso il terrorismo palestinese, partecipazione per i lutti israeliani (una partecipazione certo più sentita che non di fronte alle vittime palestinesi), ma anche giudizi durissimi sull’operato di Sharon, sul suo sistematico affossamento d’ogni opportunità di riannodare la trattativa. Giudizi che non erano campati in aria: lo s’è visto pochi giorni fa quando il più fidato consigliere del primo ministro ha ammesso che Sharon non vuole, non vorrà mai uno Stato di Palestina, e che il piano di ritiro da Gaza non è altro che un espediente per congelare qualsiasi possibilità d’un compromesso con la parte palestinese. Resta, si capisce, la possibilità che il ”Guardian” abbia commesso degli errori. Il direttore del giornale lo dice con parole che potrei pronunciare io stesso: «Ci sono stati giorni in cui abbiamo forse minimizzato le perdite israeliane... ma di certo ce ne sono stati altri in cui non abbiamo dato sufficiente risalto alle perdite palestinesi... come in tutti i giornali, qualche squilibrio può esserci stato». E condivido l’amarezza che affiora dalle parole del responsabile dei commenti, Seumas Milne: «Quando c’è un attentato in Israele, spesso diamo i nomi delle vittime, le loro storie, e intervistiamo parenti e testimoni. Ma quando un giorno dopo l’altro muoiono due o tre o sei palestinesi, al numero non aggiungiamo alcunché». In ogni caso è possibile che sì, il ”Guardian” e alcuni di noi si siano dimostrati troppo arcigni con Israele e troppo benevolenti con i palestinesi. Ciò che potrebbe essere spiegato in termini emotivi: quando da un lato ci sono i carri armati che brandeggiano il cannone e dall’altro una folla di pezzenti (alla tv i kamikaze non si vedono), è difficile che si parteggi per i carri armati. Ma l’israeliana Daphna Baram suggerisce, al termine della sua indagine, un’altra spiegazione: «... Un giornale di tendenza dichiaratamente ”liberal” non può che trovarsi in opposizione con una società come quella israeliana, ogni giorno più di destra, bellicosa, chiusa in sé stessa». Sandro Viola