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 2004  novembre 18 Giovedì calendario

Velleità ipertecnologiche con la pancia vuota, L’espresso, 18/11/2004 Nascosto all’ombra del monte Myohyangsan, uno dei più alti e scenografici del Paese, nella contea di Hvangsan, circa 200 chilometri a nord di Pyongyang, la capitale della Corea del Nord

Velleità ipertecnologiche con la pancia vuota, L’espresso, 18/11/2004 Nascosto all’ombra del monte Myohyangsan, uno dei più alti e scenografici del Paese, nella contea di Hvangsan, circa 200 chilometri a nord di Pyongyang, la capitale della Corea del Nord. Uno dei pochi segni della sua reale esistenza è il sito web governativo, alla cui sezione ”Sport ed Istruzione” si legge, con linguaggio insolitamente diretto da queste parti, che «l’Automated Warfare Institute (Awi) nasce per creare un corpo militare di tecnici capaci di ideare e gestire un sistema informatico militare e di cimentarsi nella guerra elettronica». da qui, secondo molti osservatori di cose nordcoreane e stando a un recente e allarmato rapporto del ministero della Difesa della Corea del Sud, che escono ogni anno un centinaio di maghi dell’informatica, pronti a scrivere virus da iniettare nella Rete, penetrare nei network nemici e programmare sistemi elettronici di guida per armi. Una fucina di brillantissimi hacker che la Corea del Nord avrebbe approntato per poter lanciare attacchi cibernetici contro i sistemi informatici soprattutto dei dirimpettai del Sud, ma anche di Giappone e Stati Uniti. Qualche avvisaglia c’è già stata la scorsa estate, quando i computer di una decina di istituzioni pubbliche sudcoreane (fra cui il Parlamento e l’Istituto per lo Sviluppo della Difesa) sono stati infettati da virus che ne hanno causato il blocco per ore. Superata la crisi, quando è stato il momento di cercare i responsabili il pensiero è andato (anche se non è stato possibile tracciare l’attacco fino all’origine) alle unità di élite uscite da quello che, alla sua apertura nel 1986, si chiamava Mirim College. Unità fortemente volute da Kim Jong-Il, il padre-padrone del Paese, unico leader comunista al mondo ad aver ereditato il potere. Fin dalla morte del padre Kim Il-Sung, nel 1994, Kim Jong-Il ha infatti rivolto un’attenzione speciale al Mirim College e ad altre strutture, come il Computer College di Pyongyang o il Chosun Center di Mankyungdae, dove si forgiano programmatori e ingegneri informatici. Un interesse spasmodico che si spiegherebbe con il vero e proprio shock vissuto nel 1991 da Kim Jong-Il durante Desert Storm, nel vedere le difese irachene spazzate via dai bombardamenti teleguidati degli americani. L’idea che in una crisi con gli Usa il suo esercito, un milione di soldati, potesse fare una fine simile lo convinse che era improrogabile per il Paese dotarsi di una capacità di contrasto allo strapotere tecnologico americano. Di qui la campagna di informatizzazione forzata del Paese (comunque confinata alle sole strutture politico-militari, collegate fra loro da un’efficientissima Intranet), l’obbligatorietà dell’informatica come materia scolastica e il supporto incondizionato a strutture come l’ex Mirim College. Una mobilitazione che un qualche risultato sembra averlo raggiunto. «Le forze armate americane tengono sotto costante controllo la capacità nord-coreana di utilizzo dell’arma informatica», ammette John Arquilla, consulente del Pentagono in Desert Storm, docente di Analisi della difesa alla Naval Postgraduate School in Monterey e inventore del termine cyberwar: «Anche perché la penisola coreana è uno dei posti al mondo in cui eventuali danni ai nostri sistemi informativi militari potrebbero portare a pesanti conseguenze sul campo: per esempio, nelle operazioni aeree e nell’arrivo di rinforzi. I primi cento chilometri dalla zona demilitarizzata in territorio sudcoreano sono fondamentali e, in caso di invasione dal nord, anche un leggero ritardo nella capacità di risposta sarebbe fatale». Ma la tecnologia agli occhi di Kim Jong-Il non è solo una necessità di difesa. , assieme alla scienza, uno dei tre pilastri, al pari della potenza militare e dell’ideologia, presenti nella mente e nelle dichiarazioni del «Caro Leader» (così chiamato per distinguerlo dal padre, il «Grande Leader»), per aiutare il Paese a uscire dalla condizione disperata in cui è piombato. Una situazione in cui si può morire, letteralmente, di fame. Come rischiano di fare ogni giorno che passa almeno sei milioni di persone, un terzo degli abitanti del Paese, a causa di anni di carestie, cattiva gestione e, ultimamente, anche per la riduzione degli aiuti alimentari provenienti dall’estero. Un calo dovuto in parte alla carenza di fondi a disposizione del Programma alimentare mondiale, l’agenzia Onu che presidia le emergenze in materia di cibo, e in parte alla sospensione delle forniture decisa da alcuni Paesi donatori dopo la ripresa del programma di riarmo nucleare nord-coreano, nel timore che venissero destinate ai militari e non alla popolazione. Una popolazione in molti casi dipendente da un sistema di distribuzione alimentare che funziona solo nelle aree limitrofe alla capitale e che garantisce giornalmente non più di 300 grammi di cibo - fra riso, uova e pane - a persona. Razioni che non tutti ricevono davvero: spesso vengono privilegiate le fasce economicamente attive e le persone politicamente allineate. Chi vive nelle aree rurali, specie dopo la mini-riforma agricola del 2002 che ha ampliato gli appezzamenti coltivabili a uso privato, riesce a barcamenarsi un po’ meglio. Ma bastano un’alluvione o un inverno più freddo del solito e anche questo mini-paracadute di sussistenza svanisce. In un quadro del genere i più colpiti sono i bambini, dei quali un milione risulta malnutrito e un altro milione è anemico, mentre sono 5 milioni quelli che rischiano di vedere compromesso il proprio sviluppo cognitivo a causa della carenza di iodio nella propria dieta. A tutto ciò il governo cerca di mettere una pezza ordinando la somministrazione dell’ormone della crescita a tutti i bambini in età compresa fra i 12 e i 15 anni, la cui altezza quasi mai supera i 140 centimetri. O indirizzando gli scienziati verso la clonazione del gene dell’eritropoietina, un ormone che stimola la produzione di globuli rossi, da infondere poi a pazienti anemici. E sempre la scienza viene chiamata in soccorso per ovviare alla costante insufficienza dei raccolti agricoli, dovuti sì a disastri naturali (alluvioni e siccità), ma anche, se non soprattutto, a politiche agricole insensate e a una presuntuosa autarchia che sta strozzando il sistema produttivo. Ecco allora un laboratorio di genetica creare una varietà di patate a prova di virus e un altro cercare di trasferire i geni resistenti agli insetti del Bacillus thuringiensis nel riso e nel granoturco. Il tutto mentre l’Istituto di Biologia sperimentale, che nel 2002 è stato il secondo al mondo a clonare conigli da cellule somatiche, prova a dar vita a una genia di super-capre mediante il trasferimento di embrioni da una specie particolarmente produttiva, così da innalzare la produzione di latte del Paese. Ora, forse per cercare di puntellare l’unico dei suoi tre «pilastri» in qualche modo accettabile al mondo esterno, Kim Jong-Il ha ammorbidito le restrizioni cui gli scienziati nordcoreani sono da sempre sottoposti in tema di contatti con i colleghi stranieri: da quest’anno i ricercatori di Pyongyang potranno entrare in team con colleghi occidentali per lo sviluppo congiunto di progetti scientifici. Proprio in questi giorni una delegazione ad alto livello dell’Accademia delle Scienze nordeoreana è a Londra per discutere di collaborazione, mentre la primavera prossima una conferenza Internazionale a Mosca traccerà le linee guida della cooperazione scientifica con la Corea del Nord. Qualcuno l’ha chiamata «diplomazia della scienza», sperando che ciò che sembra non riuscire a politici e militari (riportare la Corea del Nord nel consesso mondiale) riesca ad accademici e ricercatori. Non sarà semplice. Come sottolinea un diplomatico svedese da tempo di stanza a Pyongyang: «Ogni volta la domanda da porsi sarà sempre quella: chi è davvero colui che ci sta davanti? Un biochimico o un colonnello dell’esercito? Un genetista o il capo del programma di riarmo biologico?». Stefano Gulmanelli