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 2004  ottobre 30 Sabato calendario

”Life”, rivista per contadinotti del Middle West, io donna, 30/10/2004 Lo sbarco in Normandia di Robert Capa; i lager di Margaret Bourke-White; il Vietnam di Larry Burrows; gli astronauti di Ralph Morse fino all’11 settembre di McNally, solo per citare i grandi fatti del secolo

”Life”, rivista per contadinotti del Middle West, io donna, 30/10/2004 Lo sbarco in Normandia di Robert Capa; i lager di Margaret Bourke-White; il Vietnam di Larry Burrows; gli astronauti di Ralph Morse fino all’11 settembre di McNally, solo per citare i grandi fatti del secolo. Per festeggiare il ritorno in edicola di ”Life Magazine” Time Inc, l’editore, ha dato alle stampe anche la prima monumentale monografia dedicata alla più celebre rivista statunitense: Life - I Grandi fotografi, in Italia per le edizioni Contrasto. Ovvero: 600 pagine di storia, circa cento autori, un solo credo, vedere la vita; vedere il mondo. Primo tra i titani di allora, nella pubblicazione in rigoroso ordine alfabetico, è Carlo Bavagnoli, l’unico reporter italiano che ha militato per oltre dieci anni nello staff, prima a New York, quindi nella centrale operativa di Parigi, fino al 1972 quando il settimanale fondato nel 1936 spense per la prima volta le luci, senza che per questo ne fosse oscurata l’aura. ”Io donna” l’ha incontrato a Roma, in una tersa giornata d’autunno ai Parioli, giostrine, una terrazza sul verde, molti ricordi. E qualche scatto da cui cominciare: per esempio, 1967, Jane Fonda formato Barbarella («Ne fecero una copertina: la fotografai a Hollywood, stretta in quella buffa guaina, senza un’ombra di trucco, sembrava una ragazzina...»); 1958, Gente di Trastevere, viaggio neoralista nella borgata romana, forse la carta di identità del fotoreporter piacentino. Tempie bianche, iride azzurra, Bavagnoli confida: «Quando ho visto le bozze ho chiamato New York per chiedere: ”Scusate perché queste immagini e non altre?”. ”Tutti hanno fatto le guerre. Noi abbiamo fatto giornalismo a tutto campo, anche raccontando un semplice momento della vita...”, la risposta. Non ho capito che cosa volessero dire, ma questa cosa mi ha commosso un po’». Dieci anni in prima linea: come si lavorava a Life? «Henry Luce, il fondatore, diceva sempre che fare un numero del magazine era come mettere in piedi uno spettacolo a Broadway. A ”Life” era molto importante avere delle idee, crederci e fare selling, ovvero vendere, convincere l’editore della tua scelta. In un certo senso era come stare al mercato. Un talento in questo senso fu Alfred Eisenstaedt, veniva dalla Germania e raccontava sempre quando fotografò Mussolini a piazza Venezia nel ’39: all’epoca non esistevano i flash ma c’erano i lampi di magnesio. Eisenstaedt ne piazzò cinque o sei, scattò e si accesero tutti. Un disastro: pensavano fossero bombe. Eisenstaedt si dava molto da fare, ogni giorno faceva visita ai capi-dipartimento. Sempre addosso, sempre prodigo di proposte e di aneddoti. Ricordo le sue soste davanti al dipartimento spettacoli per assicurarsi il via libera per ritrarre Sophia Loren: al sì, stette un mese a Napoli, uscirono dieci pagine. Sophia Loren ogni tanto se lo pigliava in braccio, era piccolino. Per il resto ”Life” non aveva pregiudiziali di contenuto. Né tanto meno ideologiche. C’era solo molta competizione». Chi erano i titani di allora? «Ce n’erano tanti: i più grandi. Vorrei citare i meno noti, almeno in Italia. Per esempio: Larry Burrows, londinese, ex-ferroviere, uno con la fotografia nel sangue. Ricorda Robert Capa e il reportage sullo sbarco in Normandia? Fu sviluppato a Londra e il ragazzino che bruciò i negativi era proprio lui. Una storia tremenda: Burrows, pieno di sensi di colpa, crebbe con l’idea di fare il fotografo di guerra e a ogni guerra si preparava e partiva. Trascorse i suoi ultimi nove anni in Vietnam, dove morì sul campo. Oggi, Yankee Papa 13, non è solo uno dei suoi reportage migliori, forse è il migliore reportage in prima linea di tutta la storia della fotografia». Ma ”Life” era famosa anche per il colore. «Certo, ed Eliot Elisofon ne fu il maestro, uno tra i primi a sperimentare le catteristiche emotive del colore, una ricerca che gli valse anche numerose collaborazioni con il cinema, per esempio con John Huston in Moulin Rouge del 1952. Per Elisofon la fotografia era come il vocabolario di uno scrittore. Diceva spesso che al cinema era tutto molto più facile: noi, con i nostri stipendi cinque volte più alti di quelli degli operatori cinematografici, non potevamo che dargli ragione. Nel reportage puro, vorrei invece citare Bill Eppridge: giovane, vivace, acuto, fu ingaggiato nel ’63. Di lui si ricorda una fotografia molto famosa: 1968, Bob Kennedy, Los Angeles, il senatore a terra con le braccia aperte, quasi fosse la deposizione di Cristo. Ma Bill fece molto altro: inaugurò una nuova stagione del fotogiornalismo. Nel 1965 per due mesi visse nella casa di una coppia di tossicodipendenti. Li fotografò nella loro quotidianità restituendo all’America un documento sconvolgente». ’Time” contro ”Life”: c’era competizione? «Il fondatore di entrambi, Henry Luce, aveva studiato a Yale, con ”Time”, da sempre la rivista degli snob, aveva inagurato la formula del giornalismo ”alto”. Ma l’America era anche la gente del Middle West, ansiosa di conoscere il mondo. ”Life”, nata come contraltare a ”Time”, fu una testata di contadinotti, talenti square, gente un po’ quadrata. Un posto dove potevi andare e fare qualsiasi cosa, l’importante era che non raccontassi frottole. Non dovevi fare i conti con l’intellighentia bostoniana. Se dicevi Parma è una città importante perché c’è stato Proust e gli facevi scoprire quanto affascinante fosse il Teatro Farnese, il senso di sorpresa era tale che a questa microstoria venivano dedicate anche dieci pagine, senza per forza cercare uno spunto d’attualità o quant’altro. ”Life” credeva nelle sue storie. Ma soprattutto nell’autorevolezza del fotogiornalismo: le notizie andavano sempre cercate non rincorse. Nei cassetti di ”Life” i reportage potevano restare in giacenza anche due anni, senza per questo invecchiare». Quali erano le regole base? «La prima: niente sangue. Per raggiungere la drammatizzazione dovevi lavorare solo attraverso la fotografia. ”Life” non pubblicava cadaveri, ma storie. Le immagini non ammettevano tagli o correzioni: dovevi dire tutto in un’inquadratura, senza espedienti inutili». Mai una manipolazione? «Accadde una volta: il colpevole fu il pur validissimo John Dominis. Il reportage implicato - The Great Cats of Africa - fu persino premiato. Documentava l’incontro tra un babbuino e un leopardo: Dominis l’aveva costruito a tavolino, lanciando il felino tra le scimmie. Ci furono molte polemiche. Lui non ha mai negato». ’Life” era una rivista per famiglie: ma la sperimentazione non mancò mai. «Ognuno di noi aveva un piccolo ufficio, nei corridoi parlavi di tecnica, macchine e lenti. Così Andreas Feininger, il figlio del celebre pittore austriaco, un maestro: aveva grande capacità tecnologica, lavorava ai confini con l’arte, fu tra i primi a usare il teleobiettivo. Ma non era il solo. Ricordo anche Philip Halsman e la sua straordinaria vocazione per la fotografia in movimento. La sua più straordinaria invenzione fu far saltarellare la gente. Si dice che per una copertina del 1959 fece saltare Marilyn Monroe per ben duecento volte. Oggi, forse, niente di che: allora un’audace follia». Susanna Legrenzi