John Steinbeck L’Europeo, 1/1969 (ripubblicato sul numero 5 del 2004), 13 gennaio 2006
Steinbeck ci spiega l’America, un sogno gonfio d’energia, L’Europeo, 1/1969 (ripubblicato sul numero 5 del 2004) Il sistema di governo che abbiamo adottato, mentre senza dubbio ha le sue origini in precedenti europei e asiatici, è però per molti versi unico
Steinbeck ci spiega l’America, un sogno gonfio d’energia, L’Europeo, 1/1969 (ripubblicato sul numero 5 del 2004) Il sistema di governo che abbiamo adottato, mentre senza dubbio ha le sue origini in precedenti europei e asiatici, è però per molti versi unico. Questo sistema desta, quando lo si osservi a fondo, la incredula meraviglia non dei soli stranieri ma degli stessi americani. Che soltanto possa funzionare è già, in sé, un motivo di stupore: e che funzioni anche bene è, veramente, cosa che sbalordisce. Nel trasporto che ci distingue per voler donare ad altri popoli la benedizione del nostro sistema di governo, spesso scordiamo che esso è il prodotto della nostra storia: una storia che non ha termine di paragone in nessun altra del mondo. Sentimenti e pregiudizi che sono radicati in noi certamente li abbiamo derivati dal nostro background; e d’altronde essi sono così solidi, fanno a tal punto parte di noi stessi che li rispettano e li condividono, fra noi, anche quelli che non ne conoscono la derivazione. Il rapporto che intercorre fra gli americani e il loro presidente è anch’esso peculiare. scontato che noi rispettiamo la funzione della presidenza e ammiriamo l’uomo che abbiamo, col nostro voto, chiamato a svolgerla. Andiamo orgogliosi del nostro presidente: al tempo stesso lo biasimiamo anche per cose di cui non è responsabile. Al presidente siamo legati in un modo assai stretto, e in un certo senso familiare: controlliamo ogni suo gesto e ogni mossa, e spesso svolgiamo questo controllo con l’animo incline al sospetto. Esigiamo che il presidente sia cauto nel parlare, guardingo nell’azione, immacolato nella vita pubblica come in quella privata. E, a dispetto delle pressioni con cui vincoliamo il suo modo di agire, siamo avidi di sapere tutto dell’uomo vivo che esiste. Ho vissuto e viaggiato in molti Paesi stranieri dove sono frequenti le venature di sangue irlando-scozzese, inglese e tedesco che porto in me dagli antenati. Il mio volto reca i tratti, belli o brutti, dei progenitori lontani. Ho gli occhi di un blu «nordico», i miei capelli avevano (prima che diventassero bianchi) quel noncolore che si è convenuto di definire castano. Ho le guance floride, con le venuzze sottili affioranti, caratteristiche degli scozzesi e degli irlandesi del Nord. Nonostante tutto questo, non una sola volta sono stato mai scambiato per un europeo. Ogni europeo che avvicinavo, purché provvisto di un minimo di sensibilità, avvertiva istantaneamente l’americano che è in me. Conoscevo un ragazzo dell’Oklahoma che non mi assomigliava nemmeno alla lontana: gli occhi nerissimi, i capelli di un nero lucido, gli zigomi tirati verso l’alto, la pelle molto scura: tutto tradiva a chiare lettere l’ascendenza degli indiani Cherokee nel suo sangue. Ebbene, se questo ragazzo si fosse recato in una qualsiasi città dell’Europa, lui pure sarebbe stato immediatamente identificato come americano. In ognuno di noi vi è qualcosa che definirei American look, un aspetto americano. Non so esattamente cosa sia, né gli stranieri possono aiutarmi a descriverlo. Però c’è. Una delle definizioni che più ricorrono a proposito di noi americani è che siamo gente sempre insoddisfatta, che non ama fermarsi, che è alla perenne ricerca di qualche cosa. In effetti, dedichiamo la vita alla ricerca della sicurezza: e la odiamo quando l’abbiamo conquistata. Siamo, parlando in generale, un popolo intemperante: appena possiamo mangiamo troppo, beviamo troppo, sperimentiamo e facciamo troppo godere i nostri sensi. Siamo intemperanti nelle nostre stesse virtù. Chi è astemio non si accontenta di non bere alcolici: deve darsi da fare perché tutti al mondo smettano di bere. Chi è vegetariano sogna un mondo in cui siano al bando della legge coloro che mangiano carne. Lavoriamo troppo: e molti di noi è il super-lavoro a ucciderli. Ma poi, forse, per compensare questo eccesso, giochiamo e ci divertiamo con una violenza che non è meno suicida. E risultato è che sembriamo essere costantemente in uno stato di ebollizione, sia fisica che mentale. Ci capita spesso di credere che il nostro governo sia debole, stupido, prepotente, inetto, disonesto: e, al tempo stesso, è profonda in noi la convinzione che il nostro sia il miglior governo possibile, tale anzi che è nostro dovere imporlo a tutto il resto del mondo. Gli americani sono troppo indulgenti nei confronti dei figli, e questo non significa però che siano genitori affettuosi (spesso, anzi, non li amano). I bambini a loro volta sentono di dover dipendere in tutto dai grandi e nei confronti dei genitori nutrono un’animosità che sconfina a volte nell’odio. Gli americani sono cortesi e aperti nei confronti dell’ospite, come dello straniero: ma se un uomo agonizza sul selciato si terranno alla larga per evitare di venire comunque coinvolti in una questione che non li riguarda. Per salvare un gatto in cima a un albero o un cane caduto in un pozzo si spenderanno senza rimpianti grandi somme: ma una ragazza che invochi aiuto, assalita in strada, non troverà che finestre sbarrate, porte che si richiudono, silenzio. Gli americani appaiono vivere e respirare e «funzionare» come per paradosso: ma più paradossali che mai siamo nella fede appassionata che riponiamo nei nostri miti. Noi veramente crediamo di essere nati col genio della meccanica, capaci di «far da soli» tutto e dovunque. Trascorriamo, tra l’altro, una discreta parte della nostra vita su un’auto: eppure la maggior parte di noi (o moltissimi di noi, insomma) non sa, del funzionamento d’una vettura, nemmeno quanto basta per ricordarsi di guardare nel serbatoio della benzina quando l’auto si arresta inspiegabilmente. I miti che amiamo sono dappertutto: sosteniamo con energia che la nostra è una nazione di cittadini osservanti delle leggi, ed è risaputo che infrangiamo qualsiasi legge appena abbiamo la certezza (o la convinzione) di poterlo fare impunemente. Il sesso è per noi un fatto dominante, dalla pubertà in poi, ma i nostri tribunali, i nostri consiglieri, i nostri psichiatri hanno le giornate piene a forza di vagliare casi di fallimenti sessuali o reciproche accuse di frigidità e impotenza (in sostanza la stessa cosa). Una delle caratteristiche che stupiscono maggiormente l’osservatore straniero è rappresentata dalla forza e dalla immutabilità dei sogni che ogni americano nutre. Se poi si valuta a fondo il problema e lo si sviscera, ci si rende conto che questi sogni hanno poco o nulla a che fare con la realtà del «modo di vivere» americano. Prendete, ad esempio, il sogno e il mito della casa. La sola parola home commuove quasi tutti i miei compatrioti fino alle lagrime. Architetti e costruttori non edificano mai, negli Usa, delle case nel senso corrente della parola: ciò che essi fanno sorgere da terra è una calda home, un focolare. Il focolare più sognato è quello che costruiremo in una città piccola o in una zona periferica della metropoli, dove erba e alberi hanno il compito di creare una finzione di campagna. La casa del sogno americano è una sede permanente; deve essere di proprietà, non d’affitto. Attorno a questo focolare un uomo e la sua donna invecchieranno con grazia, riscaldati dal calore dei figli e dei nipoti, che crescono sani e puliti. Di focolari del sogno se ne progettano, costruiscono, reclamizzano e vendono migliaia di esemplari ogni anno: ma è anche vero che, come indicano le statistiche, la famiglia americana media raramente sosta per più di cinque anni nella stessa casa. O il capofamiglia non ha avuto molta fortuna: le sue uscite hanno superato il previsto e, nel giro di qualche anno, l’onere del pagamento rateale della casa «di proprietà» si è fatto troppo gravoso. O, al contrario, il successo gli ha arriso; siccome sono aumentati gli introiti, la casa gli appare troppo piccola per la famiglia, o il quartiere non è più quello adatto al suo rango sociale. Nell’un caso e nell’altro, la famiglia fa i bagagli e si sposta. O ancora, la vita in periferia è venuta a noia, e tutti in casa si son trovati d’accordo nel trasferirsi nel centro della grande città, che offre di più e fa risparmiare sui trasporti. Sono di ogni anno queste migrazioni di massa dalla città ai sobborghi, e le equilibrano le contro-migrazioni di quanti hanno scelto di tornare in città. Parte di questi moti ondosi, avanti e indietro, possono essere giudicati come manifestazioni di puro nervosismo, di una irrequietezza che spinge ad andare, a cambiare. [...] Noi non siamo mai soddisfatti. La nostra inquietudine, retaggio degli emigranti affamati da cui discendiamo, non si è spenta. I giovani americani sono ribelli, arrabbiati: cercano ovunque, come il terrier di razza che va stanando la preda. L’energia erompe dappertutto, anche se in parte si disperde in fracasso, in scontri, in cause perse, al limite magari del delitto: è sempre energia. Il problema dello spreco di energia è piccolo: drammatico sarebbe invece quello della mancanza di energia. Il mondo è aperto dinanzi a noi come mai lo fu nel passato; e, per la prima volta nell’esperienza dell’umanità, abbiamo gli strumenti per scoprirlo. Tre quinti, quattro forse, della ricchezza del mondo giacciono sotto il fondo del mare: e oggi, per la prima volta, noi possiamo giungervi. Il cielo è aperto sopra di noi: per la prima volta, siamo in grado di correrlo. La rivolta è ovunque nell’aria; nelle violenze delle lunghe estati calde, nel risentimento contro l’ineguaglianza, contro la cinica crudeltà. E c’è una rabbia sorda contro ogni ostacolo, ogni ritardo, contro la lunghezza stessa di questa fase in cui ci prepariamo a partire per il gran viaggio. Sarà il viaggio forse più lungo, più scuro di quanti mai ne facemmo: ma al suo termine avrà la luce più vivida. Siamo nella fase, densa di perplessità, in cui le cose cambiano. A qualcuno pare che stiamo correndo in tutte le direzioni in una volta. Non conta, importa che corriamo. Sono certo che la nostra storia, la nostra esperienza di americani ci abbiamo fornito delle doti di cui abbisogniamo per i cambiamenti che avanzano. Mai siamo rimasti fermi a lungo. Mai ci siamo accontentati di un luogo, di una casa, di noi stessi. Non mancano per gli americani i posti nuovi dove andare, le nuove cose da scoprire. Abbiamo saputo affrontare e vincere guerre, quando tutto in noi gridava contro l’assurdità e il peccato della guerra. Esperienze di gran lunga più ricche sono aperte alla nostra irrequietezza, l’ignoto che affascina è ovunque attorno a noi. Come agiranno gli americani, come reagiranno a circostanze e situazioni del tutto nuove, per le quali occorre creare regole nuove? Dal nostro passato sappiamo parte della risposta, sappiamo alcune delle cose che faremo. Intanto, faremo degli sbagli: ne abbiamo fatti sempre. Ma da quando nascemmo come nazione furono chiare in noi, nel fondo almeno, le grandi direttrici sociali del nostro fluire di nazione. Di tanti popoli che eravamo, sapemmo diventarne uno. Scegliemmo strade sbagliate, errammo, a volte sostammo per riprendere fiato, riassestare il carico sulle spalle, leccarci le ferite. Ma non siamo mai scivolati indietro, al punto di partenza: mai. I sogni di un popolo o creano di per sé soli una letteratura popolare o comunque trovano il modo di inserirsi nel filone letterario esistente: e letteratura popolare, o folclore letterario, affondano sempre le loro radici in qualcosa che è realmente avvenuto. Il folclore più manifesto, nella letteratura popolare degli Usa (ha riempito libri, film, radio e televisione), è quello che fa perno sui cow-boys, sugli sceriffi pronti di pistola e sui cacciatori che si battevano con gli indiani. Queste diverse figure esistettero: forse non proprio come ora le raffiguriamo o non nel numero che sottintendiamo oggi, ma certamente esistettero. E persiste oggi il sogno che affonda in loro. Anche seri uomini d’affari, nel Texas, calzano stivaletti dai tacchi alti e portano in capo i larghi cappelli che servivano un tempo per ripararsi dal sole cocente: benché oggi questi businessmen viaggino in lussuose auto con l’aria condizionata e abbiamo probabilmente dimenticato la ragione per cui gli stivali di un tempo avevano i tacchetti. I nostri bambini giocano tutti ai cow-boys e agli indiani. Lo sceriffo onesto e coraggioso che, con l’ardire e una valida sei colpi, imponeva legge, ordine e civiche virtù alla comunità dell’antico West è forse oggi il nostro eroe più familiare: né può esservi dubbio che egli è la derivazione, nei termini del secolo scorso, dei cavalieri di cappa e spada che nel Medio Evo affrontavano e sconfiggevano il demonio. Anche una certa simbologia esteriore si è tramandata intatta: è bianco il cappello dello sceriffo come bianchi erano scudo e armatura del cavaliere valoroso; nero era lo scudo del ribaldo d’allora come è nero il cappello del fuorilegge d’oggi nel West. In ognuno di questi raccontini morali, che ridestano echi così profondi in noi, raramente la virtù nasce dalla ragione o da un ordinato procedere secondo la legge: al contrario, essa è imposta con la forza, ed è la costante minaccia del ricorso alla forza che la mantiene. Vien fatto di domandarsi se la saggezza popolare che certi particolari tradiscono non sia, appunto, che la storia dei nostri limiti. Forse questo folclore non può tramontare perché abbiamo ognuno la certezza, nell’intimo, che solo la minaccia della violenza ci rende possibile una vita sociale armonica, pacifica. Un sogno nazionale non deve necessariamente essere (o può, insomma, non essere) elaborato nei dettagli ed esatto sul piano della verità di cronaca. Per gli americani la somma dei sogni ha un nome che li riassume: the american way of life, il modo di vivere americano. Nessuno, credo, può definirlo, nessuno può indicarvi un singolo americano, o un gruppo, che viva esattamente secondo i dettami dell’american way of life. Ciò non toglie che questo sogno sia del tutto reale. John Steinbeck