[1] Fulvio Scaglione, ཿAvvenire 5/11/2004; [2] Enzo Bettiza, ཿLa Stampa 10/3/2002; [3] Camille Eid, ཿAvvenire 5/11/2004; [4] Sergio Romano, ཿCorriere della Sera 26/6/2002; [5] Sergio Romano, ཿCorriere della Sera 28/1/2002 [6] Igor Man, ཿLa Stampa 5/, 5 novembre 2004
APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 8 NOVEMBRE 2004
Il guerrigliero che non seppe farsi statista (Yasser story).
Mohammed Abdel-Rahman Abdel-Rauf Arafat al-Kidwa al-Husseini nacque il 24 agosto del 1929. Non si sa bene dove: a Gerusalemme, Gaza o al Cairo, a seconda della vicinanza del biografo alle ragioni dell’Olp. [1] diventato noto con un nome più breve e memorizzabile: il soprannome, Yasser (’tranquillo”, ”facile”, ”senza problemi” [2]), e il nome del ramo familiare, Arafat. Lo hanno chiamato anche al-Khityar, ”il Vecchio”, o Abu Ammar, ”il Costruttore”. [3] Secondo alcuni biografi, avrebbe rivendicato con orgoglio, in qualche circostanza, una inesistente parentela con Amin al Husseini, Gran Muftì di Gerusalemme, alleato di Hitler nella lotta contro gli inglesi e gli ebrei durante la Seconda guerra mondiale. [4]
Arafat nacque quasi certamente al Cairo. Sergio Romano: «Il padre commerciava in tessili ed era egiziano di origine palestinese mentre la madre apparteneva a una vecchia famiglia di Gerusalemme. Fu questa la ragione per cui il piccolo Yasser, dopo la morte della madre, fu affidato a uno zio materno e allevato per qualche anno nella città santa. Più tardi, parlando di quel periodo, disse di non avere mai dimenticato la notte in cui alcuni soldati inglesi devastarono la casa dello zio e trattarono brutalmente i membri della famiglia. Ma è probabile che questi ricordi appartengano al suo autoritratto agiografico». [4]
Dopo quattro anni a Gerusalemme, Arafat tornò al Cairo. Romano: «Terminata la guerra, trasportava armi di contrabbando in Palestina per le operazioni di guerriglia contro gli inglesi e gli ebrei. A diciannove anni, durante il primo conflitto arabo-israeliano, combatteva con l’esercito egiziano nella Striscia di Gaza. Qualche mese dopo era di nuovo al Cairo, scoraggiato, depresso, deciso a emigrare in America. Ma rimase in Egitto, terminò gli studi con un diploma d’ingegneria all’università del Cairo e divenne leader di organizzazioni studentesche». [4]
La sua carriera politica comincia in Kuwait alla fine degli anni Cinquanta. Un gruppo di esuli costituisce una organizzazione chiamata al-Fatah e cerca di farne il fulcro della resistenza palestinese. Arafat riesce a controllare i fondi dell’organizzazione e ne diventa il leader. Per farlo costruisce anzitutto il proprio personaggio. [5] Igor Man: «Consapevole d’aver orecchie da elfo, labbra esagerate, occhi rotondi, una statura mediocre, insomma un fisico brutterello assai, quando decise di guidare la resistenza armata allo strapotere di Tsahal, pensò bene di darsi un look da guerrigliero. La kefiah a pepi bianconeri a mo’ di elmo prussiano, la barba rada da combattente in clandestinità, pistola alla cintola e kalashnikov distrattamente portato a guisa d’ombrello. (E stivali con un tacco generoso)». [6]
Nel 1969 riuscì a farsi eleggere alla presidenza dell’Olp. Il suo programma proclamava a chiare lettere che i palestinesi dovevano diventare gli artefici della propria autodeterminazione. Marcella Emiliani: «Non bisognava più affidarsi alle sole sorti delle armi arabe, ma portare la guerriglia all’interno dei Territori recentemente conquistati di Israele (Gerusalemme Est, la Cisgiordania, Gaza, la penisola del Sinai e le alture del Golan). Il quartier generale dell’Olp fu spostato ad Amman in Giordania e per Arafat cominciò una durissima lotta in due direzioni: imporre all’attenzione internazionale la causa palestinese con tutti i mezzi (militari e non) e difendersi dalle mire egemoniche che i vari leader arabi continuavano ad esercitare sulle sorti del suo popolo». [7]
Il piccolo ingegnere è ormai il ”chairman Arafat”. Romano: «Grazie a lui l’Olp non è più un semplice strumento della politica araba. una organizzazione indipendente, capace di formulare i propri obiettivi politici e di affrancarsi, entro certi limiti, dal controllo delle potenze regionali. Ma è certamente una organizzazione terroristica. Dove gli eserciti hanno fallito, riusciranno, secondo Arafat, le bombe, le operazioni di commando, i dirottamenti. Comincia così la sanguinosa stagione degli attentati negli aeroporti, sugli aerei, contro le istituzioni ebraiche nel mondo e contro gli atleti israeliani ai Giochi Olimpici di Monaco». [4]
Ha pagato quel terrorismo, che a differenza dell’attuale era tutto laico? Emiliani: «Molto cinicamente bisogna dire di sì: il mondo conobbe attraverso quegli attentati chi erano e cosa volevano i palestinesi e il mix di terrorismo ed embargo petrolifero orchestrato dai paesi arabi produttori di greggio nel ’73 proprio a sostegno della causa palestinese, spalancò ad Arafat le porte dell’Onu nel 1974. Uno dei suoi obiettivi era stato raggiunto. Con le porte dell’Onu gli si spalancò anche la possibilità-necessità di affiancare all’opzione delle armi quella della politica in un nuovo e complicato esercizio di equilibrismo». [7] Romano: «Non tutti gli atti terroristici sono riconducibili ad al-Fatah, ma Arafat diventa rapidamente il maggiore avversario dello Stato ebraico. Ha molti nemici, tuttavia, anche nel campo arabo. In Giordania, dove i palestinesi sono divenuti ingombranti e l’Olp è ormai uno Stato nello Stato, re Hussein [...] ordina all’esercito di cacciare gli ospiti. Dopo dieci giorni di combattimenti per le vie e nelle case di Amman, le ostilità cessano con una tregua, sottoscritta al Cairo dal re, dal presidente dell’Olp e da alcuni leader arabi. Ma le milizie di Arafat dovranno abbandonare la Giordania e trasferirsi in Libano». [4]
In Libano, nell’82, Arafat incontra il suo maggiore nemico. Romano: «A Gerusalemme il ministro della Difesa è Ariel Sharon, veterano di tutte le guerre e paladino delle maniere forti. Sharon invade il Libano e si serve delle milizie cristiane per attaccare i campi palestinesi di Sabra e Shatila». [4] Antonio Ferrari: «Cacciato da Beirut, e costretto nuovamente a peregrinare nelle capitali del mondo arabo, pareva un uomo distrutto. La strage di Sabra e Chatila, che sconvolse la coscienza del mondo, rilanciò, assieme all’orrore per un conflitto che pareva non avere fine, sia la causa palestinese, sia l’uomo che ne era l’alfiere. A Tunisi, dove aveva trovato rifugio dopo l’ennesima e obbligata fuga dal Libano in guerra, gli israeliani cercarono di colpirlo. Fu bombardato, nel 1985, il quartier generale dell’Olp. Oltre 70 morti, ma il leader riuscì miracolosamente a salvarsi». [8]
Nella seconda metà degli anni Ottanta la protesta si estende ai territori occupati. E diventa una «rivolta delle pietre» (Intifada). Emiliani: «Sull’onda della forza propulsiva dell’Intifada e in un clima internazionale che vedeva ormai l’inarrestabile declino dell’Unione Sovietica - patron di sempre dell’Olp - nel novembre 1988 ad Algeri Arafat si risolse a riconoscere con le risoluzioni Onu 242 e 338 proprio il fatidico diritto all’esistenza di Israele. Ora si trattava di passare all’incasso, di avvicinarsi cioè agli Stati Uniti per porre sotto la loro mediazione le sorti della causa palestinese e la marcia di avvicinamento era già cominciata quando nel ’90 l’Iraq invase il Kuwait e nella successiva Guerra del Golfo Arafat, seguendo gli umori del suo popolo, non trovò di meglio che abbracciare la causa di Saddam. In un attimo tutto il credito politico accumulato nei confronti dell’Occidente svanì». [7]
La conferenza di Madrid del ’91 consentì la resurrezione di Arafat. Emiliani: «Per quella pace, dopo gli storici accordi di Oslo del ’93, Mister Palestina si è guadagnato il premio Nobel e nel ’94 è stato eletto alla presidenza della neonata Autonomia palestinese, ma in lui non si è mai compiuta la metamorfosi completa da leader guerrigliero a statista. rimasto a metà». [7] Il resto è storia degli ultimi dieci anni, vale a dire di un periodo in cui ogni evento è oggetto di almeno due interpretazioni contrastanti. Romano: «Arafat non ha potuto o voluto controllare le fazioni più radicali del campo palestinese e ha certamente permesso che l’amministrazione dell’Autorità divenisse una delle più corrotte della regione. Ma ha dovuto confrontarsi con governi israeliani a cui premeva diluire o sabotare gli accordi di Oslo. Il suo maggiore errore fu a Camp David (luglio 2000), verso la fine della presidenza Clinton, quando non ebbe il coraggio di accettare il piano offertogli dal Primo ministro israeliano Ehud Barak». [4]
Arafat ha cercato di difendersi dall’accusa di aver gettato nel cesso «le premesse di una pace in buona e dovuta forma». Man: «Com’è noto, non c’è riuscito. Rischia, dunque, di passare alla Storia come uno sprovveduto politico guastato dall’essere un fanatico terrorista. Ma c’è un libro, appena uscito in Italia, intitolato Arafat, l’irriducibile (Ponte alle Grazie) che monda di tanta sconcezza storica il vecchio Abu Ammar. L’autore di questo libro destinato a far rumore, è Amnon Kapeliouk, giornalista e arabista, collaboratore di ”Le Monde”, inviato di ”Yedioth Aharonoth”, israeliano: non arabo bensì ebreo. Chi volesse avere un quadro completo di quanto avvenne in realtà a Camp David, si legga il capitolo ”Diktat” diciamo da pagina 361 a pagina 368. Nella peggiore delle ipotesi la lettura di queste pagine davvero drammatiche insinuerà nel lettore il dubbio: forse il fallimento di Camp David non va addebitato, come un po’ tutti assumono in Israele (e non solo), ad Arafat. Sia Barak che Clinton portano un bel po’ di responsabilità sul groppone». [6]
Pur non essendo stato un genio della politica, Arafat entrerà nei libri di storia. Ferrari: « vero che, più di una volta, cedendo alla megalomania, aveva sostenuto d’essersi ispirato a Cavour più che a Garibaldi, e di aver seguito l’esempio di Nelson Mandela. Tuttavia Arafat, benché consapevole di essere il simbolo della riscossa palestinese, non aveva lo charme e la sofisticata intelligenza di re Hussein. Non aveva la grinta decisionista di Anwar Sadat, e non possedeva neppure il lucido cinismo di Hafez el Assad». [8] Romano: «Nella grande galassia dei cospiratori e degli agitatori del Novecento, alcuni riescono, dopo la fine della lotta, a costruire uno Stato, altri restano per tutta la vita nei panni rivoluzionari indossati all’inizio della loro carriera. Alla prima categoria appartengono Lenin, Stalin, Mussolini, Hitler, Castro, Ho Chi Minh e per certi aspetti Mao. Alla seconda, Yasser Arafat». [9]
«Un misto di imbecillità e saggezza». Così Shimon Peres definì una volta Arafat. [8] Lo storico israeliano Danny Rubinstein, autore di Il mistero Arafat: « stato in grado di prendere per mano un gruppo di persone sparse e farne un popolo. Non solo, ha posto il popolo palestinese al centro del teatro politico mondiale. Anche se negli anni ha fatto molti errori, per esempio appoggiare il terrorismo e la violenza, nessuno gli può togliere questo merito» [10] Elie Wiesel: «La sua eredità è universalmente negativa. Da quando Arafat ha assunto la leadership dell’Olp [...] quell’organizzazione è progressivamente regredita. Per citare il grande Abba Ebban: ”Non ha mai perso un’occasione per perdere un’occasione”». [11]
Arafat era il più grave ostacolo alla pace tra Israele e palestinesi? Wiesel: «Aveva i mezzi e le informazioni per fermare il terrore di Hamas, della Jihad islamica e delle Brigate al-Aqsa, ma ha scelto di non farlo. Mentre li condannava verbalmente, sottobanco dava loro luce verde per continuare le stragi. Che portano tutte il suo marchio». [11] Ferrari: «I voltafaccia del presidente palestinese ne hanno progressivamente appannato la credibilità e il prestigio. Erano in molti, dietro i sorrisi diplomatici di facciata, ad esprimere irritazione quando il raìs, prima d’essere costretto nel bunker della Mukata, a Ramallah, decideva improvvisamente una visita ufficiale o di lavoro. Tanti preferivano parlare con il felpato Mahmoud Abbas (Abu Mazen), con l’attuale premier Ahmed Qurei (Abu Ala) o con l’elegante ministro degli esteri Nabil Shaat. Non perché ne condividessero sempre la linea politica (dettata da Arafat), ma perché si presentavano senza la presunzione del loro leader, al quale in sostanza interessavano soprattutto due cose: il controllo della cassa e dei servizi di sicurezza». [12]
Le cancellerie arabe disegnano scenari per il futuro. Ferrari: «Ai vertici, sulla sedia riservata all’Autorità nazionale palestinese, siederà probabilmente un uomo con chiari poteri, che non dovrà più parlare tormentandosi alla sola idea di dover affrontare, subito dopo, gli umori di giornata del suo capo. Politicamente, una leadership senza vincoli sarà quantomeno garanzia dell’assenza di un doppio binario, con il quale, per anni, i capi arabi hanno dovuto fare i conti». [12] Wiesel: «La rosa dei candidati include almeno due dozzine di giovani, ansiosi di sedersi attorno a un tavolo con Israele per discutere la loro visione moderata, e fino a oggi repressa, dell’uscita da questa crisi. Giovani e non solo. A partire da leader come Abu Mazen e Abu Ala, che fino a oggi non hanno potuto lavorare perché Arafat non glielo ha consentito». [11]
Alle spalle dei due capi pragmatici, spunta ora Farouk Khaddoumi, alias Abu Luft. Guido Olimpio: «Responsabile del Comitato centrale di al-Fatah, il principale partito palestinese, vive da anni in esilio a Tunisi non avendo mai accettato l’intesa di pace di Oslo, nel 1993. La stampa israeliana e fonti palestinesi hanno aggiunto il nome di Khaddoumi alla lista dei possibili successori di Arafat. Sarebbe stato lo stesso raìs, nel suo testamento politico, a designarlo. Sia per la carica che ricopre nel Fatah, sia per il prestigio. Dalla ”piccola Palestina” che sorge poco fuori Tunisi, Khaddoumi ha il controllo delle ambasciate Olp all’estero, una prerogativa che il ministro degli Esteri Nabil Shaat e Abu Mazen hanno invano cercato di sottrargli. Khaddoumi ha fama di duro. Amico della Siria e dell’Iraq di Saddam, ha mantenuto legami con i ”tunisini” tornati nei territori, come l’attuale responsabile degli Interni Akam Balawi». [13]
Alla faida dei colonnelli si aggiunge quella generazionale. Olimpio: «In testa ci sono i ”tunisini”, venuti nei territori dopo la pace di Oslo e spesso accomunati dall’uomo della strada alla corruzione. Poco più sotto coloro che hanno fatto da ponte tra le due intifade, divisi tra fedeltà alla scelta negoziale e voglia di ribaltare il tavolo. Alla base spingono i giovani leoni della rivolta, che vedono in Marwan Barghouti (detenuto in Israele) un modello e nelle Brigate al-Aqsa lo strumento. Questo gruppo è frantumato in cellule locali. La componente principale riconosce - parzialmente - la legittimità di Arafat e avverte: ”Con il raìs abbiamo accettato di ingoiare bocconi amari, non sarà così con Abu Mazen”». [13]
Fin qui la ridistribuzione dei poteri non ha presentato intoppi. Alberto Stabile: «Abu Mazen era il segretario generale del Comitato esecutivo dell’Olp. Logico, quindi, che subentrasse ad Arafat che dell’Olp era il presidente. Abu Ala era il primo ministro perennemente tentennante tra i suoi doveri di lealtà verso Arafat e l’intransigenza del raìs a concedergli quei poteri sui servizi di sicurezza e sull’utilizzo delle risorse finanziarie senza i quali è rimasto per mesi un primo ministro dimezzato. Logico che, con il raìs non più in grado di interferire, Abu Ala si prendesse quei poteri direttamente dalle mani di Abu Mazen». [14]
(segue dalla prima pagina)
All’inizio si può immaginare una leadership collettiva. Dennis Ross, uno dei principali mediatori in Medio Oriente sia sotto Bush padre che Clinton: «Con i ”vecchi” Abu Ala e Abu Mazen a gestire l’emergenza. Ma poi, una volta traghettata la situazione verso le urne, la nuova guida sarà scelta tra i ”giovani”. Mohamed Dahlan e Jibril Rajoub sono tra i nomi più ripetuti, ma c’è anche il ”parlamentare” Qadura Fares. Tentare di identificare una persona specifica oggi è un azzardo». [15] Bir Zeit, il più prestigioso degli atenei palestinesi, ha fatto un sondaggio sul futuro capo preferito dai palestinesi: Barghouti, quattro ergastoli per 29 omicidi, ha preso il 51%, Abu Mazen e Abu Ala non sono arrivati al 2. [16]
Cosa succederà dopo la morte di Arafat? Ross: «C’è un potenziale di miglioramento. Ma dividerei il ragionamento in tre fasi. La prima sarà quella emotiva, del lutto e dello smarrimento per l’icona paterna scomparsa. Il vuoto sarà psicologico prima ancora che di potere. La seconda sarà quella in cui la classe dirigente palestinese dovrà individuare dei candidati alla successione. L’ultima fase è quella delle elezioni vere e proprie, cui dovrà partecipare tutto il popolo». [15] Abu Mazen sarà il candidato dei riformisti. Gigi Riva: «Ha un vantaggio, quello d’aver lasciato la poltrona di premier nel 2003 perché è entrato in urto col raìs a causa di una vera volontà di cambiamento. Non come Abu Ala, l’attuale premier, la cui legittimazione arriva direttamente da Arafat, non si è mai dimesso, nonostante le minacce, e ha legittimato uno sterile tran-tran. Abu Mazen potrebbe essere il garante della nuova generazione cui lo unisce il moderatismo oltre alla visione di un funzionamento totalmente diverso degli apparati dello Stato. In attesa, naturalmente, di Barghouti». [16]
I movimenti terroristici potrebbero approfittare della transizione per allargare l’aria di potere già sottratta ad Arafat. Bernardo Valli: «In queste ore Abu Mazen e Abu Ala cercano di coinvolgere quei gruppi estremisti nelle consultazioni riguardanti la successione. Ma questo non rassicura certo Israele, da un pezzo intransigente nell’esigere dall’Autorità palestinese la loro messa al bando. Il recupero di Hamas e della Jihad islamica, e delle altre organizzazioni che forniscono kamikaze, è indispensabile, e al tempo stesso è un ostacolo alla ripresa del dialogo con Sharon». [17]
Si intravedono due scenari. Man: «1) Abu Ala e Abu Mazen faranno di tutto perché, al più presto possibile, torni a galleggiare la precaria zattera chiamata Road Map. un tracciato vago d’un esile sentiero che tuttavia potrebbe aprire la più ampia strada che porta a una seria trattativa di pace. Una zattera precaria appunto, ma può salvare dal naufragio i palestinesi che la guerra (non dichiarata) fra terroristi islamici ed esercito israeliano ha ridotto allo stremo: disoccupazione, fame per molte, troppe famiglie, l’incubo d’un inverno prossimo nel segno eterno d’una disgrazia sanguinosa. 2) Hamas, l’organizzazione assistenziale d’impronta religiosa che dagli Anni 80 opera nella Palestina occupata (a Gaza), non più condizionata dal possibilismo di Arafat, potrebbe decidere per il ”tanto peggio tanto meglio” e cioè: ancora e sempre attentati suicidi e, in parallelo, la discesa in campo dei giovani oltranzisti di Al Fatah decisi, costi quel che costi, a incrudelire l’intifada». [6]
C’è da temere una reazione violenta? Ross: «Non nel breve periodo. I palestinesi sono i primi ad averne paura. Ma se il processo non verrà instradato alla svelta su binari giusti, potrebbe deragliare. Perciò tutto il mondo deve fare il possibile per arrivare entro 2-3 mesi alle elezioni». [15] Ali Jirbawi, analista e docente di Scienze politiche a Bir Zeit: «L’eventuale successione istituzionale procederà senza problemi. [...] Forse ci saranno fatti di violenza, ma non un conflitto di ampie proporzioni tra palestinesi». [18]
Il venir meno di Arafat pare più un’opportunità che una perdita. Scaglione: «Da troppo tempo, ormai, il terrorista premio Nobel aveva perso ogni capacità d’iniziativa politica, mentre la scivolosità con l’estremismo terrorista l’aveva tagliato fuori dai rapporti coi leader decisivi per le sorti dei palestinesi, dal premier israeliano al presidente Usa. Anche l’Europa, pur con timidezza, aveva cominciato a tenerlo a distanza, a conferma che di isolamento vero e non di persecuzione si trattava». [19]
George W. I aveva abbandonato a se stessa la questione palestinese. Scaglione: «Da presidente rieletto scoprirà che nel frattempo molte cose sono cambiate in Medio Oriente. I Paesi cosiddetti ”amici”, primo fra tutti l’Arabia Saudita, sono in realtà un’incognita, mentre progressi di un certo rilievo sono stati fatti con la Siria. L’Egitto collabora con Israele, offrendosi per garantire la sicurezza al momento dell’esodo dei coloni da Gaza. L’Iraq è, a dir poco, un cantiere aperto, in cui non sono prevedibili svolte radicali a breve termine. Tutto, insomma, sembra richiamare la Casa Bianca verso il tema cruciale di Israele e dei palestinesi. Anche perché Sharon è ormai al limite: ha costruito il Muro, ha sparato a più non posso, si ritira da Gaza, che altro può fare?». [19]