Massimo Oriani La Gazzetta dello Sport, 29/10/2004, 29 ottobre 2004
Nel trionfo dei Red Sox brilla il diamante pazzo del baseball, La Gazzetta dello Sport, 29/10/2004 C’è qualcosa di magico nel gioco del baseball
Nel trionfo dei Red Sox brilla il diamante pazzo del baseball, La Gazzetta dello Sport, 29/10/2004 C’è qualcosa di magico nel gioco del baseball. C’è tutta l’America, racchiusa in un fazzoletto di terra ed erba che contiene incantesimi secolari. Ci sono generazioni di padri e figli che sono diventati amici grazie a una pallina e a un guantone. Ci sono nonni che hanno accarezzato i loro nipotini ascoltando voci lontane ma famigliari raccontare alla radio di imprese su diamanti solo immaginati e mai visti, cullandoli sulla veranda di una piccola casa con la staccionata bianca e la casella della posta in legno, stregandoli con il loro affetto e il loro amore per il National Pastime, il Passatempo Nazionale, cercando di tramandarlo ai loro teneri eredi. Al Busch Stadium si è compiuto un miracolo, iniziato poco più di una settimana fa, quando i Boston Red Sox, la squadra degli eterni secondi, dei belli ma dannati (e perdenti), hanno riscritto la storia del batti e corri, rimontando da 0-3 nella serie di semifinale contro gli odiati rivali di New York, gli Yankees, impresa mai riuscita a nessuno in passato. Spazzando via nelle World Series, le finali per il titolo, i St. Louis Cardinals con un secco 4-0, quelle generazioni di nonni, figli e nipoti, il cui cuore batte per la squadra che fu del Di Maggio sbagliato, Dom e non il leggendario fratello Joe, ma anche di Ted Williams, il più grande battitore che sia mai vissuto, hanno potuto assaporare una gioia immensa, inimmaginabile perché mai provata prima. Quando l’ultima eliminazione, una pallina accompagnata con la dolcezza di una carezza dalla mano del lanciatore Keith Foulke al guanto del prima base Doug Mientkiewicz, ha sancito la fine della Maledizione del Bambino, l’ormai famoso anatema lanciato da Babe Ruth ai Sox dopo essere stato ceduto per un pugno di dollari agli Yankees nel 1919, nell’aria si è potuto letteralmente sentire un enorme sospiro di sollievo. Campioni del mondo, campioni del campionato più importante del mondo, campioni a dispetto di una sorte che pareva ancora una volta volergli voltare le spalle, quando la caviglia del loro miglior giocatore, Curt Schilling, aveva fatto crac, sul più bello, nella prima partita dei playoff. Quel sinistro rumore, quella smorfia sul volto del pitcher dell’Alaska, avevano trafitto il cuore dei bostoniani. Pareva che la Maledizione - rigorosamente con la M maiuscola, per distinguerla da tutte le altre - non volesse saperne di andare in pensione, di ricordarsi che anche alla sofferenza c’è un limite. I Red Sox non sono solo la squadra di Boston, sono una vera e propria nazione. La chiamano Red Sox Nation. Nasce dal dolore, da 86 anni, 31.458 giorni per la precisione, di delusioni che solo il copione di un sadico regista poteva immaginare. Più volte vicini, tante volte a un passo, ogni volta traditi, sempre beffati, nei modi più atroci, ammesso che allo sport si possa affiancare un aggettivo così forte. L’ultima volta che Boston vinse il titolo era l’11 settembre 1918. Le donne non potevano ancora votare negli Stati Uniti. Il presidente era Woodrow Wilson. Le truppe americane non erano ancora tornate a casa, impegnate nel primo conflitto bellico mondiale. La Nba non esisteva. Alle partite si andava in bicicletta, accomodandosi a bordo campo, sull’erba, pagando qualche centesimo. passata una vita. La storia infinita nello stadio più bello del mondo, il Fenway Park, piccolo gioiello incastonato tra case ormai da abbattere e piccole strade che trasudano di mille vicende da narrare, era iniziata nel 1912. L’apertura dell’impianto era stata però scalzata dalla prime pagine dei giornali dal naufragio del Titanic. Avrebbero dovuto capire subito che c’era qualcosa di tremendamente sbagliato... «Può capitare a tutti di avere un secolo storto». I venditori di T-shirt che popolano Yawkey Way e Landsdowne Street, da dove si possono ammirare le mura in mattoni rossi e il celeberrimo Green Monster, l’altissima parete che delimita il campo esterno sinistro di Fenway, la prendevano con ironia e filosofia, cercando di monetizzare in qualche modo quella dannata Maledizione. Ci si rideva sopra, salvo poi girare l’angolo, stringere i pugni, levarli al cielo, e imprecare al destino, a Babe Ruth, a Bucky Dent, a Bill Buckner, ad Aaron Boone, nomi tristemente noti a chi tifa Sox, nomi che hanno scritto le pagine più tristi del libro della passione bostoniana. Passeggiando sul campo di St. Louis, pochi minuti dopo la fine, che in realtà era solo l’inizio, si potevano vedere immagini che un tifoso, non solo dei Sox, ma del baseball e dello sport in generale, non dimenticherà mai. Le lacrime di gioia solcavano visi di tutte le età. Una nonna stringeva teneramente al petto una neonata di quattro settimane, a cui un giorno racconterà cosa questa notte ha rappresentato per chi c’era. Una ragazza piangeva a dirotto, abbracciata al suo fidanzato. O forse semplicemente a un improvvisato compagno d’avventura di cui neppure conosceva il nome, uno che, come lei, aveva sognato per tutta la vita questo momento. Tutti si affannavano a raccogliere manciate di terra, da conservare come preziosi cimeli. I flash immortalavano scene di pura felicità, che riconciliavano con il mondo e con la vita. «Ora possono morire felici - diceva Pedro Martinez, l’altro lanciatore fenomeno dei Sox, riferendosi a chi ha atteso sin da bambino di vedere vincere Boston ed ora ha i capelli bianchi e la dentiera -. Non che mi auguri che muoia qualcuno, ovvio, ma se accadrà, lo farà in pace con il mondo». Capito? Il significato della vittoria dei Red Sox trascende lo sport. Sul ”Boston Herald” di sabato scorso, giorno di gara-1, si potevano leggere annunci inquietanti: «Vendo notte di sesso con mia moglie per un biglietto». E non era uno scherzo... Il volto della vittoria è quello di Schilling, capitan coraggio, il lanciatore preso dal 31enne general manager Theo Epstein al solo scopo di portare a casa il Sacro Graal. E lui l’ha fatto, mettendo a rischio la carriera, facendosi torturare una caviglia a pezzi, cucita e ricucita con piccoli interventi chirurgici quel tanto che è bastato per far sì che regalasse un capolavoro di tenacia e di arte del lanciare una pallina da baseball in gara-2. Stringeva a sé la moglie Shonda, mentre il diamante del Busch Stadium era diventato il campo dei sogni. Nessuno voleva andarsene, tutti cercavano di raccogliere immagini, sensazioni, emozioni, che diventeranno i ricordi più belli, quelli che tieni nel cassetto della memoria e tiri fuori in un giorno di pioggia, lasciando che siano loro a illuminare, radiosi come il sole, la tua cupa giornata. E mentre le ultime gocce di champagne venivano spruzzate verso le centinaia di tifosi della Red Sox Nation, accalcatisi ancora increduli sopra la panchina bostoniana, l’orologio del Busch Stadium segnava mezzanotte. E poi mezzanotte e un minuto. Uno sguardo quasi tremante e carico di complicità faceva il giro dei presenti. Un attimo per capire. Niente zucche. Era tutto vero. Massimo Oriani