Mario Gherarducci Corriere della Sera, 29/10/2004, 29 ottobre 2004
The Greatest vinse l’incontro impastando carisma e astuzia, Corriere della Sera, 29/10/2004 «Le combat du siècle» c’era scritto in francese sui grandi manifesti che trent’anni fa tappezzavano i muri di Kinshasa, capitale di quello che si chiamava ancora Zaire prima di ridiventare Congo
The Greatest vinse l’incontro impastando carisma e astuzia, Corriere della Sera, 29/10/2004 «Le combat du siècle» c’era scritto in francese sui grandi manifesti che trent’anni fa tappezzavano i muri di Kinshasa, capitale di quello che si chiamava ancora Zaire prima di ridiventare Congo. L’incontro del secolo. Un’esagerazione? Probabilmente no perché in un match si mescolava un po’ di tutto. Pugni e suggestione, quattrini e politica, novità e passione. Non era mai successo che un campionato mondiale dei pesi massimi mettesse di fronte due pugili di colore nel cuore dell’Africa nera. Non era mai accaduto che intorno a una sfida di boxe circolasse tanto denaro (almeno 30 milioni di dollari) e che allo sfidante fosse destinata la stessa borsa del campione (5 milioni di dollari, tre miliardi e mezzo di lire al cambio dell’epoca). Per la prima volta un combattimento pugilistico sarebbe cominciato alle 4 locali della notte (quella tra martedì 29 e mercoledì 30 ottobre 1974) per le esigenze della Tv americana [...]. Ideatore dell’evento era stato Don King, un intraprendente ex galeotto la cui capigliatura sembrava percorsa da una scarica elettrica, che s’era procurato il sostegno economico di un paio di società svizzere, di un network americano, del presidente Mobutu che intendeva far circolare nel mondo il nome dello Zaire, patria dei diamanti e del rame, dopo che la nazionale del suo Paese s’era sorprendentemente qualificata per il Mondiale di calcio del ’74 in Germania Ovest. Da una parte c’era George Foreman, imbattuto gigante texano di 25 anni. Medaglia d’oro nei massimi all’Olimpiade messicana del ’68, Big George aveva vinto prima del limite 37 dei 40 incontri disputati ed era diventato campione del mondo 21 mesi prima, impiegando complessivamente appena 11 minuti e 5 secondi per mettere k.o. Frazier e gli sfidanti Roman e Norton. «Sono orgoglioso di essere americano» ripeteva lui, un nero perfettamente integrato nella società dei bianchi, che sul ring della finale olimpica s’era avvolto in una bandiera a stelle e strisce per replicare ai connazionali Smith e Carlos, che sul podio messicano avevano contestato vessillo e inno Usa. Dall’altra parte c’era Muhammad Ali, un nome che Cassius Clay s’era dato sette anni prima, allorché aveva abbandonato la religione metodista («Quella dei padroni» diceva) per abbracciare l’islamismo e la causa dei musulmani neri. Passato professionista sullo slancio della vittoria olimpica del ’60 a Roma, meno di 4 anni dopo Clay aveva conquistato il mondiale dei massimi con una discussa vittoria su Liston, difendendolo per 9 volte prima di essere dichiarato decaduto da una discutibile sentenza a causa del suo rifiuto a prestare servizio militare («Non ho niente contro i Vietcong, perché dovrei andare a combatterli?»). Riabilitato tre anni più tardi, Ali era tornato sul ring per tentare invano la riconquista del titolo nel ’71 contro Frazier, che lo aveva battuto ai punti dopo 15 riprese. Infilando in seguito una dozzina di vittorie, colui che simboleggiava il riscatto della razza nera pareva ormai pronto per sfidare Foreman. Trasferito dai consueti templi americani della boxe a uno stadio africano, «le combat du siécle» era programmato per il 25 settembre 1974, allorché 9 giorni prima Foreman aveva riportato in allenamento una ferita al sopracciglio destro. Inevitabile rinvio, nuova data la notte tra il 29 e il 30 ottobre. Entrambi i pugili avevano deciso di restare nello Zaire. Ma se Foreman alloggiava in un lussuoso albergo di Kinshasa, schivando ogni contatto con la gente, Ali aveva scelto di prepararsi a N’Sele, una cittadina residenziale a 40 chilometri dalla capitale. Circondato da una corte di 35 persone, che comprendeva anche genitori, moglie, segretari e persino un biografo personale, l’ex Clay familiarizzava festosamente con gli abitanti. I suoi allenamenti erano aperti a tutti e le sue passeggiate erano infarcite di sorrisi, strette di mano, autografi e auguri. Impareggiabile press agent di se stesso, complici anche le sue convinzioni politiche, Ali s’era conquistato rapidamente la simpatia e l’affetto dell’intero Zaire. «Ali boma yé», Ali uccidilo. Consegnato alla leggenda del pugilato, il possente coro che accolse l’apparizione sul ring dei due avversari fece intendere subito da quale parte fossero schierati i 60 mila spettatori. Il resto lo fece la sorprendente tattica adottata da Ali. Il pugile che svolazzava come una farfalla e pungeva come un’ape, parole sue, si lasciava stringere contro le corde, la guardia a riccio, i gomiti sui fianchi e i guantoni sul volto. Foreman era costretto in pratica a picchiare un bersaglio introvabile. Assorbite le possenti ma sterili sfuriate del campione, lo sfidante sferrava destri e sinistri rapidissimi che piombavano inesorabili sulla faccia di Foreman. La quinta ripresa segnava l’inizio della fine di Big George, i cui colpi diventavano sempre più larghi, fiacchi e imprecisi, mentre Ali beffeggiava il rivale e lo tempestava di pugni implacabili. Ormai pallida fotocopia del poderoso picchiatore che abbatteva gli avversari come birilli, Foreman sembrava un robot senza forza, fiaccato da un’impacciata e inutile aggressività. A metà dell’ottavo round due sinistri e un destro centravano il mento del texano, che cadeva sulla schiena dopo una grottesca piroetta, incapace di risollevarsi prima dei dieci secondi scanditi dall’arbitro Clayton. A quasi 33 anni Ali riconquistava il titolo mondiale dei massimi con un match-capolavoro: «Ho vinto perché io sono un professore del ring e George solo un dilettante». Se una rivincita solo ipotizzata ma mai disputata faceva svanire ogni malizioso sospetto di combine, nel ’96 alla memorabile notte di Kinshasa sarebbe stato dedicato uno splendido documentario, intitolato Quando eravamo re e premiato con l’Oscar. Mario Gherarducci