Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2004  novembre 28 Domenica calendario

APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 1 NOVEMBRE 2004

Klaus Konrad, ritorno in scena d’un nazista passato tra i buoni.
Klaus Konrad è un vecchio tedesco nato a Berlino il 22 dicembre 1914. Giurista, avvocato, notaio, dal 1962 al 1969 è stato membro della dieta dell’Holstein. Eletto al Bundestag nel 1969 (Spd), vi è restato fino al 1980 distinguendosi per l’appoggio alla Ostpolitik di Willy Brandt. Questa, fino ad agosto, era la sua biografia ufficiale. Poi, in Italia, qualcuno ha deciso che era giunta l’ora di chiedergli conto del passato. È una storia che inizia nel 1933 con l’iscrizione alle Sturmabteilungen, le «camicie brune» istituite nel 1921 come servizio d’ordine per l’allora piccolo partito nazionalsocialista guidato da Adolf Hitler. [1]

Konrad combatté la seconda guerra mondiale da ufficiale della Wehrmacht (274° Reggimento Granatieri). In particolare, il 14 luglio del 1944 prese parte ad un terribile eccidio: 61 persone uccise tra Molin de Falchi, Pietramala e San Polo, in provincia d’Arezzo, molte delle quali costrette a scavarsi la fossa da sole. Erano sfollati dalla città, soltanto alcuni appartenevano a formazioni partigiane della zona. Negli atti della procura militare si legge: «Venivano sottoposti a violente percosse con bastoni, tubi di gomma e calci di fucile e, quindi, condotti nella vicina Villa Gigliosi, ove venivano barbaramente uccisi, in parte con colpi di fucile e di pistola alla testa, in parte facendo esplodere - dopo avergliene collocato nelle tasche alcuni quantitativi - delle cariche di esplosivo e mine e seppellendone quindi alcuni ancora vivi». Per quella strage, nel 1969 la magistratura tedesca aprì un procedimento penale, ma le indagini si arenarono e non ci fu alcun processo. Nell’agosto 2003, gli atti custoditi dalla Procura generale di Ludwisburg hanno permesso ai magistrati italiani di riaprire il caso. [1]

Nel frattempo, molti autori dell’eccidio sono morti. Di venti che furono indagati, ne rimangono meno della metà. Più d’uno dice che fu Konrad a dirigere i plotoni di esecuzione. [1] L’ex sottotenente ha parlato con un’intervista a ”Kontraste” (tivù pubblica Ard): «Ero il terzo nella catena di comando del 274° Reggimento. Non ero io a decidere le modalità con le quali i prigionieri sarebbero dovuti passare dalla vita alla morte [...] Furono interrogati. Sì, duramente. Piaccia o non piaccia, i metodi in guerra non sono quelli dei tempi di pace [...] Il parroco del paese ha detto che mi sono comportato con sarcasmo e cinismo, quando è venuto a chiedere per le famiglie i resti dei morti. vero, risposi che non doveva essere rimasto molto, dopo che erano state buttate le bombe nella fossa comune». [2]

Anche il 2004 ha le sue ”camicie brune”. Francesco Battistini: «La camicia bruna di solito cala all’imbrunire. Dopo le dieci, boia chi ha fretta. Prima sta al lavoro, se ce l’ha. O nelle foreste, a far sgambare i rottweiler. O in casa a stordirsi di Division S, la canzone del cuore che muore, refrain: ”Crepa straniero, crepa, sei solo un pezzo di merda, sei spazzatura, rifiuto, sparisci, puzzi d’aglio, crepa”. La crapa pelata che tutto spacca e divide, la crepa sociale della Germania che allarma politici e sociologi, dappertutto si vede meno che nella paciosa e operosa Sebnitz. Qui l’importante è sparire, fino alle dieci di sera. Tirare giornata. Per aspettare che la brava gente del centro chiuda le porte e gli occhi. Per rasare con cura l’ultimo pelo. Per lucidare bene le Springer Stieffel, gli anfibi con la punta d’acciaio rinforzata che sui mozambicani funzionano a meraviglia. Le dieci di sera per calare finalmente tutti da Trog, la sala giochi dietro la piazza. Biliardo e freccette. Birra e rutti. L’ultima da raccontarsi: ”Sai perché i turchi sono meglio delle Mercedes? Per accenderli ci vuole meno benzina”». [3]

Sebnitz è uno dei tre collegi dell’ex Germania Est che a settembre hanno visto una forte affermazione dell’Npd. Il partito neonazista dell’ultradestra ha preso in Sassonia il 10%. Paolo Valentino: «Oggi conta almeno 5 mila tesserati. Ne aveva 6 mila nel 2002 e almeno 28 mila alla fine degli anni Sessanta, all’apice della popolarità, quando ottenne un clamoroso 4,3% nelle elezioni federali del 1969, mancando di poco l’ingresso al Bundestag. sicuramente la formazione più dura della galassia estremista, quella più contigua ai gruppi illegali neo-nazisti. Alle marce e ai raduni, che organizza periodicamente, immancabile è la presenza di bande di skinhead. Il manifesto della Npd critica gli ”eccessi multiculturali” della società tedesca, denunciandone l’berfremdung, la sovrappopolazione da stranieri, con scelta non casuale del termine, che fu infatti molto caro al capo della propaganda nazista, Joseph Goebbels». [4]

Abbiamo visto in tv le facce degli ultrà di destra. Wim Wenders: «Un cameraman si è infiltrato in una loro riunione. Si vedono un paio di bevitori di birra di spalle, e la voce roca di un oratore: ”Non siamo un partito come gli altri, siamo contro tutti gli altri. Non vogliamo lavorare insieme agli altri per migliorare il sistema, vogliamo abbattere questo sistema”». [5] A capo del partito c’è Udo Voigt: «Vediamo due temi principali. Primo, la società multiculturale. Secondo, la globalizzazione e il libero commercio. Non è vero che i salari tedeschi siano diventati troppo cari. Il problema sono le merci a basso costo del terzo mondo. Sono in diretta concorrenza con i lavoratori tedeschi. Una politica che permette tutto ciò distrugge i posti di lavoro del popolo [...] Quando al posto di una società multiculturale avremo di nuovo una identità tedesca, una Volksgemeinschaft, allora questa nazione potrà sprigionare un’energia che trascini altri popoli». [6]

Tra le tante sparate di Voigt, fanno particolarmente scalpore quelle su Hitler. «Con il suo movimento è riuscito a unire la volontà del popolo tedesco e così a realizzare l’impossibile. In questo senso e per la soluzione dei problemi sociali - ai suoi tempi non c’era disoccupazione di massa ma Kraft durch Freude, energia con gioia, c’erano molti programmi sociali - è stato sicuramente un grande statista del suo tempo. Ma dopo, con una serie di errori politici, ha permesso al nazionalsocialismo di trasformarsi in un movimento nazionalista e sciovinista, e ha distrutto tutto. Quindi ha anche la responsabilità della disfatta della Germania». [6]

Il 16 settembre è uscito in Germania il film Der Untergang (la disfatta). Basato su un libro dello storico Joachim Fest (in Italia è pubblicato da Garzanti), racconta gli ultimi giorni di Hitler. Wenders: «Penso, sarà infine il grande film tedesco sulla fine del nazismo, sulla fine del dominio di idee fanatiche in questo paese. Proprio il messaggio giusto al momento giusto. Insomma, sono andato a vederlo. Uscendo dal cinema, sono stato preso da un profondo choc causato da qualcosa che posso solo definire la ”minimizzazione”. [...] ho parlato con la gente. Molti erano ”impressionati”, altri no, ma senza sapere perché. [...] Ammetto di aver già avuto un attacco d’ira 27 anni fa, quando su ”Die Zeit” scrissi l’unica volta prima d’oggi un articolo con la rabbia nel ventre contro un film. Contro il documentario del professor Joachim Fest, oggi il consulente del film su Hitler. E che allora realizzò un documentario su Hitler, e commise l’errore imperdonabile di credere di poter mostrare film e immagini della propaganda nazista distanziandosene con freddezza con il solo commento verbale». [5]

Tra le fonti del film ci sone le memorie di Traudl Junge, ultima segretaria di Hitler. lei a pronunciare l’ultima frase del film: «Non è una scusa essere giovani, perché anche da giovani si possono fare esperienze... mi riesce difficile perdonarmelo». Wenders: «Ma fino a che punto il film condivide davvero questo monito? Il film in realtà narra della fine di Hitler vista dagli occhi di Traudl Junge giovane segretaria. Avrebbe potuto essere il ”suo” film. Ma non è solo questo. anche il film dello storico, dal cui punto di vista sono state girate tutte le scene in cui Traudl Junge non poteva essere presente. Quelle in cui sono protagonisti i massimi gerarchi del regime, in cui si discute con mappe a tavolino dei piani di battaglia e si ascoltano rapporti dal fronte. Sono scene che pretendono di essere il megafono della Storia, scene in cui si sente quasi mormorare un ” stato così e non altrimenti”, il punto di vista del professor Fest». [5]

Der Untergang mostra tutto, ma non la morte di Hitler. Wenders: «Hitler si uccide e fa suicidare con sé la sua Eva. Così come Hitler si volta dall’altra parte quando la sua cagna muore, così il film si volta dall’altra parte mentre Hitler muore. Mostra Traudl Junge che imburra panini per i figli di Goebbels, e si sente uno sparo. ”Centro”, dice il più grande. Poi si aprono le porte e tutti guardano, ma non noi spettatori. Tutti sembrano scossi. ”Signor Reichsleiter, è successo, vi annuncio che il Fuhrer è morto”. In un film sulla fine di Hitler la sua morte non sarebbe dovuta essere un semplice annuncio. Perché questo rispettoso non mostrare, perché l’improvvisa pruderie? Perché, dannazione, perché? Perché il film non mostra che il porco finalmente è morto?». [5]

Fest diede alle stampe Hitler, una biografia nel 1973. Lo stesso anno divenne condirettore del più prestigioso quotidiano di area conservatrice, la ”Frankfurter Allgemeine Zeitung”. Quando nel 1986 decise di pubblicare un articolo di Ernst Nolte, ”Passato che non vuole passare”, in cui il nazionalsocialismo era interpretato come reazione al bolscevismo, gli intellettuali della sinistra tedesca videro nella nuova interpretazione della genesi del nazismo un modo di relativizzare le colpe della nazione. Fest ha sempre rifiutato l’epiteto Tätervolk: «Un popolo di colpevoli? La colpa è qualcosa di individuale». [7]

La maggior parte dei giovani tedeschi è consapevole delle colpe, ma vuole chiudere col passato. Fest: «Quelle colpe verranno rimproverate ancora in eterno e il risultato è che i giovani non ne possono più. In televisione ci sono trasmissioni sull’argomento ogni giorno. Si immagini sempre nuove trasmissioni in Italia sul fascismo e l’olio di ricino. Non c’è popolo che possa sopportare alla lunga una cosa simile». Insomma, dice lo storico, la paura dell’oblio impedisce al passato tedesco di passare: «Chi può dimenticare Auschwitz? Questo è escluso. La paura dell’oblio non ha, secondo me, un reale fondamento. La vera paura è quella davanti all’uomo, una paura antropologica, che vale però ovunque nel mondo». [7]

Nel 1997 lo scrittore W. G. Sebald tenne a Zurigo una serie di conferenze. Escono adesso per Adelphi, titolo Storia naturale della distruzione. Bruno Ventavoli: «Le conferenze, come aveva già fatto nel bellissimo Mattatoio N° 5 Kurt Vonnegut, americano prigioniero a Dresda, sottolineano la cinica, assurda, spietata logica della guerra aerea. Sebald è asettico. Ma le sue parole pesano come macigni. I bombardamenti sono vigliacchi, spietati, militarmente inutili. La distruzione sistematica delle città era stata voluta da Churchill per fiaccare il morale del popolo tedesco nel momento in cui le armate di Hitler conquistavano il continente. Chiese e ottenne che l’industria bellica si concentrasse sulla costruzione di bombardieri e ordigni. Quando il traguardo fu raggiunto bisognava ”necessariamente” agire. Che farsene di tutto quel ben di dio costoso se non sganciarlo sulle teste del nemico? Dopo tanti sforzi non si poteva ”sprecare” le bombe sganciandole in un campo, dice un pilota alleato, nemmeno se le città scelte come bersaglio avessero issato bandiere bianche, sarebbero state risparmiate». [8]

I bombardamenti colpirono quasi sempre obiettivi civili. Ventavoli: «Quartieri residenziali, edifici pubblici, monumenti, il sistema industriale di Hitler venne solo minimamente intaccato, uccisero donne vecchi bambini. La fine della guerra non fu anticipata di un sol giorno con quel diluvio di fuoco. Naturalmente Sebald non vuole mettere sul banco degli imputati gli strateghi della Raf. Né accreditare un’immagine revisionista di un silenzioso olocausto tedesco. I generali della Wehrmacht avevano, a loro volta, pianificato l’annientamento dell’esercito francese e di intere zone della Francia, come nelle visionarie scenografie nibelungiche di Fritz Lang e Thea von Harbou. Hitler e Goebbels sognavano di cancellare Londra dalla faccia della terra, ma non ci riuscirono. L’analoga missione con gli ebrei sappiamo come è andata a finire». [8]

Come sarà codificata la futura memoria della Germania? Wlodek Goldkorn: «Sarà una memoria composita e conflittuale. Costruita dalle pietre. Quelle del monumento alle vittime dell’Olocausto, l’unico caso di un popolo che costruisce un memoriale alle proprie vittime, nel centro della capitale. In tutto, 2.700 blocchi di cemento che assomigliano a un cimitero a due passi dalla Porta di Brandeburgo, dalla nuova cancelleria e dal Reichstag con la cupola di vetro che significa trasparenza. I simboli di una Berlino imperiale, accanto alle testimonianze della colpa». L’architetto Axel Schultes, profugo bambino da una Dresda rasa al suolo che ha costruito la nuova cancelleria di Schröder: «Vorrei una Berlino metropoli cosmopolita, come negli anni Venti. Una città con l’anima. Ma per far questo ci vuole slancio, coraggio e una visione del futuro. Non sono sicuro che ce l’abbiamo». [9]