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 2004  ottobre 21 Giovedì calendario

E pensare che dietro al Qaida c’è solo un bambino offeso, Vanity Fair, 21/10/2004 Occorre fare una premessa: di giorni certi, per data e accadimenti correlati, nella vita di Osama ne esiste uno solo, il 30 giugno 1957, quello in cui nacque a Riad, in Arabia Saudita

E pensare che dietro al Qaida c’è solo un bambino offeso, Vanity Fair, 21/10/2004 Occorre fare una premessa: di giorni certi, per data e accadimenti correlati, nella vita di Osama ne esiste uno solo, il 30 giugno 1957, quello in cui nacque a Riad, in Arabia Saudita. Attualmente molti, compreso chi scrive questo articolo, sospettano che esista, nei giorni del 2004, quello della sua morte. Tra le due date scorre una biografia inaffidabile, poiché la storia è oscurata dalla propaganda: da una parte si tenta la creazione di un mito, dall’altra la sua dissacrazione. Se provi a ricostruire il 17 aprile 1986 in cui a Jaji avrebbe condotto la resistenza afghana contro le soverchianti truppe sovietiche, trovi da una parte il suo mistico racconto («Ero sotto i bombardamenti, ma mi sentivo così in pace che mi addormentai. Più tardi un proiettile di mortaio mi raggiunse, ma non esplose»), che, a valanga, cresce (mi disse un beduino nello Yemen: «Ero con lui quel giorno, una pallottola lo colpì al torace, ma lui teneva il Corano sul cuore e quella si fermò tra le pagine»). Dall’altra c’è chi smitizza, come Milton Bearden che rappresentava la Cia a Kabul («quella storia è stata esagerata ad arte») e, più affidabilmente, uno dei combattenti, Tareq al Fadhli, che a Jonathan Randal, autore di Osama, the Making of a Terrorist, ha dichiarato: «La battaglia ci fu, ma ne ho viste di ben più tremende, non mi lasciò ricordi speciali». E così avviene per ogni data e circostanza. Si può provare, allora, ad andare più indietro nel tempo, quando Osama non era un mito ma solo un bambino. Lì, come nella vita di ognuno, si possono individuare piccoli traumi che determineranno grandi svolte. Lì esiste, alla fine di ottobre del 1967 (indicare la data esatta sarebbe una forzatura), un giorno in cui un ragazzino di dieci anni viene fermato davanti alla porta di un palazzo regale, torna indietro ferito e il resto sarà, drammaticamente, storia. Anzitutto: chi è quel ragazzino? «Ibn al Abeda», il figlio della schiava. Il padre, Mohammed bin Laden, lo ha avuto, unico, da una moglie a sua volta unica. Hamida non è diversa dalle altre soltanto perché siriana, ma anche perché indipendente (nei limiti in cui può esserlo una donna araba) e quindi ben presto in disparte. Nel palazzo di Jedda non c’è posto per lei, che vive lontano, a Tabuk. L’ostilità verso Hamida viene trasferita, ma in misura minore, sul figlio che ha dato al padrone dell’harem. Osama cresce timido e schivo. Con i fratelli lega poco. A scuola si fa notare soprattutto per tre cose. La prima, evidente, è l’altezza. La seconda è la cortesia. La terza è l’eccellenza in una sola materia: religione. A casa si chiude spesso nella sua principesca camera e memorizza il Corano. Il padre è quasi sempre lontano, a Riad, dove tratta affari immobiliari con la famiglia Saud che dispoticamente regna sul Paese. Dal ’64 il fondatore dell’Arabia Saudita ha un successore, re Faisal, uno dei suoi 42 figli (che sposarono 1.400 donne). Sovrano non illuminato, risolve ogni questione con la massima: «Tutto è nella legge islamica». Morirà nel ’75, ucciso da un nipote a cui aveva fatto decapitare il padre per aver disobbedito alla legge islamica. Il regicida verrà decapitato. Con Faisal, Mohammed bin Laden, fa affari d’oro (lo chiamano ”il re mercante”). Ma il suo uomo di fiducia nella casa Saud è Fahd, fratello del re, ministro dell’Interno e attuale, ottuagenario, sovrano. una curiosa amicizia. Il padre di Osama, per quel che se ne tramanda, fu un uomo devoto. Di Fahd sono leggendarie le seguenti caratteristiche: era così pigro che non ha mai firmato un documento; così prodigo che un giorno, saputo che qualche dozzina di fratelli era in difficoltà diede a ciascuno 15 milioni di dollari per farsi una «casa»; così attratto dalle donne che quando entrava al Regine’s a Parigi le porte si chiudevano per chiunque altro; così ardente e perdente ai casinò che i suoi servi portavano Samsonite ripiene di contanti per pagarne i debiti. Inevitabilmente, Fahd ha molti figli. Pretende che facciano amicizia con quelli di bin Laden. Sotto le volte dei palazzi le cose vanno al solito modo: tra i bambini uno resta in disparte, il più alto, il più cortese. Poi, nell’inverno del 1966 qualcosa cambia, come racconta Adam Robinson in Behind the Mask of the Terrorist. Bin Laden padre decide di prendersi una vacanza con i figli: attraverseranno il deserto, campeggeranno fra le dune. Fahd e i suoi ragazzi andranno con loro. Il cambio di scenario determina un rovesciamento dei ruoli. Il ragazzo più a disagio nella metropoli è il più sicuro di sé all’aperto. La sua mente inciampa nelle complicazioni della modernità, ma viaggia leggera nel nulla. Le moschee sono gusci vuoti, l’Islam è semplificazione delle altre fedi. Il leader naturale del gruppo dovrebbe essere il più maturo dei Saud, Abdul Rahman, ma in quel contesto lo surclassa il più giovane dei bin Laden, Osama, anni nove. Il padre assiste sorpreso e compiaciuto alla metamorfosi. Il piccolo asociale diventa amico di tutti. In particolare di un figlio di Fahd, che viene identificato (ma sui nomi la confusione regna letteralmente sovrana) come Abdul Aziz. Cavalcano insieme lo stesso cammello, siedono dietro i padri nella Land Rover che li conduce a battute di caccia. Si racconta anche un episodio di coraggio e/o sventatezza: i due si presentano al campo tenendo tra le mani un rettile gigante, capace di staccare un braccio con un morso, e lo gettano ai piedi dei genitori. Tutti urlano. Fahd e Mohammed guardano il rettile, i bambini, ridono. Osama appare felice. Alla fine della vacanza lui e Abdul Aziz si scambiano qualcosa di molto raro in tutto il Paese: i numeri di telefono. Decidono di stare in contatto, rivedersi appena possibile, giocare ancora. I bin Laden tornano a Jedda, i Saud a Riad. Non ci saranno altre vacanze così per Osama. Quando andrà a Parigi avrà le vertigini sulla Torre Eiffel e, tornato a terra, gli sanguinerà il naso. In Svezia il delicato stomaco che gli funesterà la vita lo terrà a letto per giorni dopo che avrà mangiato una salsiccia con la mostarda. Ne avesse mangiate due, ci saremmo risparmiati qualche epocale tragedia. La sua tragedia, nel 1967, è la morte del padre, caduto con il suo elicottero. «Oggi ho perso il mio braccio destro», dichiara il re Faisal. Osama accarezza quelle parole, che ricorderà in una intervista televisiva. I Saud sono suoi amici, Abdul Aziz gli ha scritto una lettera di condoglianze. Osama ha una famiglia, che non è la sua. Da quella, se ne va. Si trasferisce a Tabuk, dalla madre ”straniera”. Il rapporto non funziona. Osama scrive una lettera allo zio Abdullah e gli chiede di tornare a Jedda. La risposta è positiva, il rientro no. La vita è quella di sempre, in più manca il padre. Improvvisa, arriva l’insperata notizia: Fahd è a Jedda, i suoi figli sono con lui, c’è anche Abdul Aziz. Osama non nota neppure che, curiosamente, il suo ”migliore amico” non l’ha avvertito dell’arrivo. Corre al telefono, chiama la residenza dei Saud, chiede di parlare con Abdul Aziz. Non glielo passano. Osama manda un messaggero. Attende una risposta che non arriva. Poi, quel giorno alla fine d’ottobre, esce dal suo palazzo diretto a quello dei Saud. Porta con sé un omaggio, come si conviene. Percorre la strada con l’anticipazione di gioia che solo i bambini conoscono. Quando arriva la delusione si diventa adulti, spesso cinici, talvolta assassini. Alla fine, nulla di tutto questo è scusabile. soltanto patetico e comunque criminale. Osama si presenta al portone. I custodi si informano. Non lo fanno passare. Non gli danno spiegazioni. La spiegazione è che suo padre è morto. Da vivo era il braccio destro del re, faceva e procurava affari d’oro, i suoi figli erano figli dei Saud. Da morto è, come tutti, niente. La sua posizione era personale, non ereditaria. La sua prole dovrà riconquistarsela. Osama torna da dove è venuto. Quel che farà, da grande, sarà dichiarare una personale guerra alla casa Saud, creare un’organizzazione terroristica che ha tra gli obiettivi (francamente, quello meno preoccupante) il rovesciamento del suo regime. Nel 1994 gli verrà revocata la cittadinanza saudita. Gli storici diranno che la rottura definitiva è avvenuta il 7 ottobre del 1990. Nell’agosto di quell’anno Saddam ha invaso il Kuwait e minaccia l’Arabia Saudita. Osama è andato, ancora una volta, a casa Saud. Ha bussato e stavolta, all’eroe dell’Afghanistan (qualunque cosa sia successa nella battaglia di Jaji) hanno aperto. Ha spiegato che in due giorni può arruolare 10 mila mujhaeddin e respingere la minaccia. Gli hanno detto di sì. Lui ha avviato il piano. Il 7 ottobre si viene a sapere che re Fahd ha accettato l’offerta d’aiuto degli Stati Uniti: truppe occidentali e infedeli metteranno piede sul sacro suolo di Mecca e Medina per preparare l’offensiva. Scoppierà la Tempesta nel deserto. Osama fonderà al Qaida. Se è ancora vivo, tra i suoi folli propositi c’è anche quello di entrare un giorno nel palazzo di Jedda che gli fu proibito e bruciarlo. Gabriele Romagnoli