Giuliano Ferrieri L’Europeo, numero 6/2004 (pubblicato per la prima volta su L’Europeo, numero 17/1974), 12 gennaio 2006
Alle radici dello Stato d’Israele c’è una coraggiosa ebrea, L’Europeo, numero 6/2004 (pubblicato per la prima volta su L’Europeo, numero 17/1974) «Sono arrivata», ha detto il primo ministro d’Israele Golda Meir, parlando ai giornalisti dopo l’annuncio delle dimissioni, «alla fine della strada
Alle radici dello Stato d’Israele c’è una coraggiosa ebrea, L’Europeo, numero 6/2004 (pubblicato per la prima volta su L’Europeo, numero 17/1974) «Sono arrivata», ha detto il primo ministro d’Israele Golda Meir, parlando ai giornalisti dopo l’annuncio delle dimissioni, «alla fine della strada...». Lo ha detto con un sorriso, pacatamente, come attenta a evitare che la frase sembrasse grossa o retorica. Prima aveva parlato dell’età (settantasei anni), degli acciacchi, di un governo «che è divenuto ingovernabile». Tre buone ragioni per smettere: tre cause, e le dimissioni come conseguenza. Ma è più probabile che sia vero il contrario. Che la frase sia proprio ”storica”: la lunga strada è finita. Che la causa sia questa, e la sola. Perciò Golda non può più procedere: ed è naturale, di conseguenza, che si accorga per la prima volta degli anni, senta ora i mali che prima ignorava. Che le paia ingovernabile un paese in cui (era stata l’accusa fino a ieri) «tutte le decisioni sono prese nella cucina di Golda» e i ministri rigano tutti, sia pure per ragionato rispetto piuttosto che per viltà, come scolaretti agli ordini della maestra. Se questo è vero, due domande: la strada è proprio finita? E: quale strada, perché? Cominciamo dalla seconda risposta. Sta, trasparente e ricca di insegnamenti, nella storia di Golda Meir. E allora la risposta alla prima domanda, che pareva la più difficile, si snoda da sola. La lunga strada comincia a Kiev, nel 1898, il 3 di maggio. Nasce nella casa di Moshe Mabowehz, ebanista, una bambina che chiamano Goldie. Il padre è mite, subisce, sopravvive a ogni fallimento per aspettare il successivo. La madre è diversa, una tartara dai capelli di fiamma che chiamano ”Bluma la rossa”: lo è di dentro e di fuori. Anni di pogrom. Goldie ha tre anni quando un omaccione afferra per i capelli lei, una sua compagna la prende con l’altra mano, ne sbatte fra loro le testoline e «presto», grida, «la faremo finita con tutti voialtri!». Ne ha cinque quando il padre inchioda le assi di traverso alle persiane, la vigilia dei pogrom, perché resistano più a lungo e invoglino semmai i pazzi a scegliersi come bersaglio un’altra casa meno munita. Ne ha sette quando i cosacchi avventano i cavalli su di lei e solo all’ultimo istante, con un colpo di frusta, sollevano le grandi bestie e le volano sopra il capo, ridendo. Non c’è bisogno di Freud. Non c’è nemmeno bisogno di attendere quarant’anni, quando sull’antisemitismo Hitler darà una lezione semplice, diretta, comprensibile a tutti: nella teoria, il sadismo che è magari in ognuno può venire nobilitato nel nazionalismo razzista, dottrina di massa; nella pratica, la tecnologia dei campi e dei forni dà al genocidio un pulito risvolto tecnologico. A tre, a cinque, a sette anni la bimba Goldie Mabowehz ha già afferrato, prima confusamente poi in modo sempre più chiaro, la sostanza del male e del bene. E sogna da allora un mondo di bambini che non debbano ripetere le sue esperienze: dove un galoppo di cavalli non dia i brividi, il battere di un martello non scandisca le ore che precedono una strage. Sogni e realtà. Utopie? La forza di Golda Meir sarà, per settant’anni, di credere nell’utopia e di agire come se essa fosse un obbiettivo concreto. «Credo che la cosa più necessaria», ha scritto una volta, «sia la capacità di sognare grandi sogni e agire in modo da tradurli in realtà». Molti si sono stupiti che, spesso, ci sia riuscita. Forse, più che per i risultati (i quali spesso contenevano errori, fanatismi, fallimenti, la traccia dei limiti stessi delle cose e di Golda Meir), dovremmo guardarla ammirati per le intenzioni. Per le speranze cui non ha mai rinunciato. Per questo essere rimasta, settant’anni e più, a battersi per le sue intatte speranze di bambina: in questa luce si fa già chiaro perché un giorno sarà la strada, non Golda, a concludersi. Naturalmente, non si può credere e vivere così senza diventare ”ribelli”. A quattordici anni Golda annuncia al padre Moshe che vuol continuare gli studi: per insegnare, fare la maestra. Ma Moshe Mabowehz è un ebanista che fa lavori d’intarsio per gli aristocratici i quali poi non lo pagano, e lui non protesta perché pensa che i ricchi hanno sempre ragione. Sulla stessa linea, ritiene che una ragazza, se studia, non troverà mai marito. Veto, dunque, a una nuova scuola per Golda. Così lei scappa, da Milwaukee (la cittadina del Wisconsin dove tutti i Mabowehz hanno cercato, nel 1900, rifugio dai pogrom) a Denver, dove vive la sorella sposata Shaineh. Però Goldie fa l’alba discutendo di politica con gli amici, e giorno dopo giorno Shaineh si vede costretta a sostituirsi al padre: prediche, non si deve, non si può. Allora Goldie scappa anche da lei: trova un sottotetto, l’affitta, lavora di giorno come lavandaia, di notte studia, discute, arringa. Non ha ancora sedici anni. Tre quarti dei rivoluzionari che la incontrano sono innamorati di lei. Oggi tutti gli sciocchi che guardano Golda Meir in fotografia si sfogano a ridere dei tratti mascolini, del velo di baffi, delle rughe scavate (solo Oriana Fallaci in un coraggioso ritratto, ”L’Europeo” n. 48, 1972, ha guardato dentro e scritto con giusta enfasi: «Dio, com’è bella!»): allora la bellezza che oggi perdura nell’animo si esprimeva negli occhi grigi, nel corpo sinuoso, nei lunghi capelli castani di Goldie. La quale invece respinge gli spasimanti perché ama tutti gli uomini, ma non ancora attraverso uno solo. L’anno dopo, il padre matura: se Goldie fa pace con la famiglia, vada pure anche a scuola. E matura anche Goldie: torna a casa, studia, fa comizi (si è iscritta al partito sionista) e trova il tempo di aiutare l’intraprendente ”Bluma la rossa”, che ha deciso di sostituirsi al marito nel capitolo finanze domestiche aprendo un negozietto dove si vende un po’ di tutto. Trova finalmente, Goldie, anche il tempo di innamorarsi. Lui è disegnatore e pittore, ama la musica, tiene un po’ dell’inetta e dolce mitezza del babbo di Golda, Moshe. Divisi ma uniti. Golda e Morris Meyrson si sposano nel ’17, la ragazza ha posto come condizione che, appena possibile, si trasferiranno in un kibbutz della terra promessa, la Palestina. Morris, si capisce, ha detto di sì. Ma non reggerà poi (quando andranno nel ’21, finita la guerra, nel deserto di Merhavia) alla dura vita di agricoltore e allo stillicidio delle prime pallottole arabe. Nel ’23 si arrende, e Golda ha la bontà, la nobiltà di arrendersi con lui: lasciano il deserto e vanno ad abitare a Tel Aviv. Golda prova con impegno a fare solo la casalinga (nel ’24 nasce il figlio Menahem, nel ’27 la figlia Sarah), ma il risultato è un disastro: scoramento, frustrazione. Una parte del legame col marito si rompe allora: anni dopo i due si separano, il marito andrà in America, poi tornerà in Israele e la coppia divisa si rivedrà quietamente ogni giorno, senza ardori ma con una affettuosa stima reciproca, fino alla morte di lui nel ’51. Un’altra parte del legame non si romperà mai: Golda non divorzia e non si risposa, nemmeno dopo la morte di Morris. «Il nostro», dice, «fu un grande amore, durò dal giorno che ci conoscemmo a quello in cui lui morì. Eravamo diversi, e l’ho fatto soffrire. Ma tutto era buono in lui, e ho appreso da lui tutte le cose belle: un amore simile non si sostituisce». Libera e sola, Golda torna brevemente al kibbutz del Negev, dove non c’è che «sabbia, cielo, qualche tenda e un pozzo di acqua salmastra». Poi, a Tel Aviv, ha bisogno di lei l’Histadrut, la forte organizzazione dei sindacati diretta da Ben Gurion che Golda ha conosciuto in America. Lei accetta con entusiasmo, si occupa prima di amministrazione, poi dirige il ”Consiglio delle donne lavoratrici”, nel ’34 la chiamano nell’esecutivo dell’Histadrut. Deve combattere, si capisce, con l’antifemminismo viscerale dei vecchi ebrei osservanti, che supera anche quello dei ”gentili”. Lo stesso Ben Gurion le farà un complimento ben rozzo quando, anni dopo, definirà Golda Meir «l’uomo più in gamba del mio governo». A un giornalista che le chiede: «La disturba non essere uomo?», risponde seccata. «Non lo so, non sono mai stata un uomo». Però ha capito, e se ne ricorderà, la lezione: per avere lo stesso successo, una donna deve essere molto più brava di un uomo. Scorrono i duri anni della costruzione della Palestina. Golda lavora anche per ”la zia”, l’Haganah, l’organizzazione semiclandestina della resistenza. A un processo in cui difende due ebrei, il giudice inglese le si rivolge per chiederle in tono di scherno: «Ma non sarà anche lei, signora, un membro di quelle bande? ...». La risposta è sferzante: «Tutti, vostro onore, lo siamo». 1947-48, le Nazioni Unite votano la spartizione della Palestina, la coalizione araba attacca il neonato Stato d’Israele, gli ebrei vincono e sopravvivono. Quella di Golda Meir è una delle trentasette firme sotto la carta che proclama la costituzione dello Stato d’Israele, che Ben Gurion legge agli ebrei e al mondo il 5 Iyar 5708, 14 maggio 1948. A Gerusalemme la bandiera con la stella di David, azzurro pallido su fondo bianco, sale per la prima volta sul pennone del palazzo del governo. Golda scoppia in lacrime, e la folla piange con lei, giurando di dedicare la vita alla nuova patria. La accuseranno di avere la lacrima facile, ma Golda non se ne vergognerà poi tanto: «Mi fa pena», dice «la gente che ha paura dei sentimenti». Alla vigilia della guerra lord Cunningham, il governatore inglese, le propone discretamente di far tornare con un compito ufficiale la figlia Sarah dal Negev, dove «non è prudente» che resti. «Vi ringrazio», dice Golda «ma tutti i ragazzi e le ragazze di quelle colonie hanno una mamma: se ogni mamma accettasse di far tornare i figli a casa, chi fermerebbe gli egiziani?». Golda cerca di fermare gli arabi incontrando segretamente re Abdullah di Giordania, che raggiunge travestita da beduina. un colloquio drammatico fra due nemici che si stimano. Abdullah deplora le stragi che dovevano venire, insieme parlano dell’alternativa di un futuro di pace. Ma anche un colloquio inutile, sul piano concreto, perché Golda respinge la richiesta del giordano di «essere ancora pazienti» e Abdullah rifiuta quella ebrea di dissociare dalla prossima guerra la Giordania e la Legione araba. Ma Golda aveva promesso che sarebbe «andata fino all’inferno» pur di salvare la vita di un solo combattente ebreo. Se non vi riuscì, non si pentì comunque mai di esservi andata così vicina, recandosi inerme e travestita nel campo del capo nemico. Non fu inutile, invece, il suo viaggio negli Stati Uniti per raccogliere i fondi con cui armare il nuovo Stato d’Israele. Kaplan, il tesoriere degli ebrei negli Usa, aveva escluso che si potessero raccogliere in America più di cinque milioni di dollari. Ben Gurion aveva bisogno almeno di cinque volte tanto per acquistare le armi con cui difendere Israele dalla coalizione dei sette stati della Lega araba. A Golda Meir, alla vigilia del viaggio, Kaplan raccomanda: «Soprattutto, non parli delle persecuzioni, non faccia del sentimentalismo: si spaventano, magari, però chiudono le tasche». La prima tappa è Chicago, la sala è piena di ebrei che hanno avuto successo negli affari, conti in banca e le mogli in pelliccia. Golda, che nel freddo polare ha indosso solo il vestitino con cui era partita da Israele, si alza e guarda smarrita queste persone così diverse. Poi smette di pensare a loro e parla senza più riflettere: del passato, quando sofferse le persecuzioni bambina, a Kiev e a Pinsk; di Hitler e dei forni, dei sei milioni di vittime; del presente, della sola vera arma segreta di cui dispongano gli ebrei: «I nemici hanno dove fuggire, noi no: per noi ogni guerra è l’ultima, se la dovessimo perdere». E parla dell’avvenire: se gli aiuti non verranno subito «domani non serviranno, perché noi avremo cessato di esistere». Sembrava, ricorda uno dei presenti, «una donna della Bibbia». E le signore in pelliccia, gli aridi ebrei del business sono, in qualche modo misterioso, toccati. Danno già la prima sera un milione di dollari in contanti, alla fine del viaggio di questua Golda ha raccolto quasi sessanta milioni di dollari: dodici volte più del massimo previsto da Kaplan, più del doppio del «necessario» richiesto da Ben Gurion. Il quale dice di lei: «Quando si scriverà la storia, bisognerà ricordare che è stata questa coraggiosa ebrea a permettere allo Stato ebreo di venire al mondo». Urss classista. Vinta la guerra e venuta la pace, Ben Gurion manda Golda Meir (il nuovo cognome ebraicizzato) come suo primo ambasciatore nell’Urss che allora sta aiutando Israele. per la socialista Golda, un’esperienza scioccante: gli ebrei che hanno contatti con lei ”scompaiono” (spediti, pare, in Siberia), dell’Urss la colpisce soprattutto il fatto che sia «un paese di snobismi e di ineguaglianze, in ogni senso dominato dallo spirito di classe». Torna, l’hanno nominata ministro del Lavoro, più tardi sarà per dieci anni ministro degli Esteri. Viene anche ferita a una gamba dalle schegge di una granata lanciata in Parlamento per uccidere Ben Gurion. Lascia troppo presto l’ospedale per riprendere il lavoro ed è vittima di un’embolia; seguirà una flebite, intervento chirurgico e lunga ospedalizzazione; ancora oggi Golda Meir zoppica un poco per quell’«incidente». Nel ’66 si ritira dalla vita politica (benché rimanga segretario generale del Mapai, il Partito social-laburista di maggioranza relativa), la «guerra dei sei giorni» la combatte senza incarichi pubblici, come ogni altro dei cinque milioni di ebrei d’Israele. Nel ’69 muore all’improvviso il primo ministro Levi Eshkol, Golda Meir appare l’unica persona capace di offrire una «soluzione almeno temporanea», nel senso di porsi al di sopra dei quattro grandi contendenti del Mapai: Dayan, ”il falco”, che non crede alla pace con gli arabi e vuole rendere definitive le conquiste territoriali della guerra del ’67; il vice primo ministro Allon, che avversa il «colonialismo militare» di Dayan; Eban, ministro degli Esteri, per il quale «tutto è negoziabile», e può esserlo anche la cessione di parte dei territori conquistati contro una pace sicura; e Sapir, ministro delle Finanze, che propone un isolazionismo «che conservi il carattere ebraico allo Stato d’Israele». Occupanti e occupati. Golda Meir ricrea con energia almeno una parvenza d’accordo. E, anziché restare temporaneo, il suo governo raccoglierà alle successive elezioni una maggioranza più marcata, con 56 dei 120 seggi del Parlamento. Il dopoguerra del ’67 resta il problema chiave, coi suoi mille strascichi. «Nessuno ama essere un occupante», è la realistica conclusione di Golda, «ma è sempre meglio che essere un occupato». Il resto è storia di ieri: nuova guerra nell’ottobre 1973, la crisi gravissima che ne è seguita, specie per gli scacchi militari iniziali degli ebrei, le rivelazioni del mese scorso, dopo la grave inchiesta di Stato, sulle rivalità e i «tradimenti» dei generali divisi, che hanno fatto correre a Israele, per la prima volta, il rischio di perdere una guerra. E tutto questo porta drammaticamente le prove della risposta che avevamo anticipato: la strada della guerra non ha più sbocco. Ma era pur stata per mezzo secolo anche la sola strada di Golda. Che avrebbe quindi sbagliato, ieri e sempre? No certo. Storicamente la sua era stata una strada necessaria; anche giusta, forse in quei tempi la sola. Golda Meir, e con lei più generazioni eroiche, la riempirono di dignità, di sacrifici, di coraggio. Oggi le conferme che questa strada ha cessato di esistere sono quotidiane: l’ultima è la strage, i giorni scorsi del commando suicida fedayn che ha ucciso donne e bambini a Kiryat Shmona. E la dura quanto inutile reazione della rappresaglia israeliana. Siamo da una parte e dall’altra, ormai al limite della follia. I bambini muoiono ancora. La strada di domani deve essere un’altra: quella delle intese politiche. Chiedersi se gli arabi siano pronti, o se lo siano gli ebrei è solo passare a lato del problema maggiore: la vecchia strada è finita, e il piede di Golda non è fatto per battere la nuova. Perciò si è tirata di lato. Onore alla vecchia viaggiatrice. Giuliano Ferrieri