Giorgio Montefoschi Corriere della sera, 18/10/2004, 18 ottobre 2004
Yukio Mishima: il desiderio è dolore, Corriere della sera, 18/10/2004 La sensazione tragica della inafferrabilità della vita coglie all’età di cinque anni il protagonista delle Confessioni di una maschera, il romanzo largamente autobiografico che dette la fama a Mishima
Yukio Mishima: il desiderio è dolore, Corriere della sera, 18/10/2004 La sensazione tragica della inafferrabilità della vita coglie all’età di cinque anni il protagonista delle Confessioni di una maschera, il romanzo largamente autobiografico che dette la fama a Mishima. Il bambino in cui possiamo identificare Yukio è tenuto per mano da una donna. Dall’alto della strada, contro i raggi obliqui del sole, vede scendere un ragazzo con due secchi sulle spalle. un bottinaio: svuota i pozzi neri. Il ragazzo è bello, virile; e ha un contatto profondo con l’oscurità della terra, rappresentata dal liquame. Il bambino lo ama: pazzamente, come sanno amare i bambini. Vorrebbe essere come lui. Ma il ragazzo se ne va. «Intuii che nel mondo esisteva un desiderio penetrante quanto il dolore...». Questo desiderio che è in tutto e per tutto simile al dolore, e non ci abbandona fino agli ultimi istanti della consapevolezza, è il nucleo centrale dell’opera di Mishima: lo scrittore che Kawabata, il suo maestro, riteneva autore dei più mirabili libri della letteratura giapponese dopo il Genji Monogatari. Il dolore può essere riconoscibile nel desiderio, può essere identificato col desiderio, perché - come ci insegnano Platone e Buddha - è il desiderio. Il desiderio di possedere ciò che non abbiamo e non avremo mai. Il desiderio che, dinnanzi alla bellezza dell’amato, ci fa formicolare il sangue e spuntare le ali sulle spalle. Il desiderio che ci culla nell’illusione di essere la persona che si ama. Il desiderio che ci sovrasta e annichilisce. Il desiderio che sconvolge la mente e ci spinge a uccidere, in noi, tutto ciò che amiamo. Del resto: «Si può amare senza desiderare? Può mai esistere un amore del tutto sradicato dal desiderio?». Se la vita è un palcoscenico e il tempo della vita è quello di una recita, è possibile che codesto amore freddo abbia le sue maschere di scena [...]. Altrimenti, vivere nel desiderio, lasciarsi consumare dal desiderio, equivale a vivere nelle tenebre del cuore: a vivere - e sappiamo che le occasioni sono infinite - in perenne conflitto col mondo. In Confessioni di una maschera, il conflitto col mondo si incarna in quello del sesso. Il giovane protagonista è omosessuale. Ha scoperto le sue pulsioni segrete contemplando il corpo nudo, martoriato dalle frecce, del San Sebastiano di Guido Reni; ne ha avuta la conferma a scuola, quando ha capito di essere attratto dagli zigomi sfrontati, la peluria sotto le ascelle, la mascella volitiva di Omi, un suo compagno. [...] Ma il nucleo del piacere [...] è sempre lì: nell’amore che non si realizza; nell’amore che non realizza il desiderio. Perché sulla scena che domina la vita ci sono le donne. E lui, il ragazzo che chiamiamo Yukio, non riesce a desiderare le donne: non riesce a desiderare la loro pelle, i loro baci, il loro profumo, la loro nudità. Siamo nei cupi anni della II guerra mondiale. Su uno sfondo di umiliazione e di sconfitta, gli episodi attraverso i quali il ragazzo omosessuale confronta la sua sessualità, alla ricerca di una conferma femminile che non potrà mai avere, ritagliano momenti di disperazione ancora più cupi: la sorella di un amico; una ragazza che suona il piano; una cugina; la prostituta col dente d’oro decretano l’incapacità e la vergogna. Nel Padiglione d’oro, da molti considerato il capolavoro di Mishima, insieme alla tetralogia del Mare della fertilità, il protagonista, figlio di un prete-contadino, destinato lui stesso a diventarlo, è un balbuziente. Stavolta, prima ancora del sesso, la realtà si nega con la spietata esclusione dall’armonia della parola: «La realtà esterna attendeva calma e immobile l’esito dei miei sforzi ma, quando la raggiungevo a furia d’annaspare ed entravo in contatto con lei, era scolorita, tremante». Tuttavia, è il Padiglione d’oro, il meraviglioso reliquiario antico nel recinto del tempio Zen, all’ombra del quale i novizi sono iniziati alla vita religiosa, a schiacciare definitivamente il balbuziente. La sua bellezza, infatti, è eccessiva: incorruttibile, eterna. [...] Cade la neve, infuriano le tempeste: imperscrutabile, misterioso, il Padiglione d’oro tace immobile, resiste a tutto. «Che hai, che rappresenti?» gli domanda il giovane novizio [...]. Il Padiglione non risponde. Dunque, prima o poi, lui dovrà uccidere il Padiglione, dargli fuoco. Il simbolismo, che è presente sempre in Mishima, attraversa questo stupendo romanzo dalla prima riga all’ultima - insieme all’idea della morte. [...] «Non c’è nulla - scrive Mishima - al pari di un morto che ci dica quanto sia lontana da noi la materia, quanto sia impossibile raggiungerla». Forse, l’unica maniera per raggiungerla è quella di rendersi simile a essa. quella di distruggerla: con la bellezza, con la natura, il Padiglione d’oro, il proprio corpo, il proprio spirito, tutto. Come accade in Patriottismo, il racconto lungo nel quale si descrive il doppio suicidio di un tenente - che vorrebbe espiare un’onta - e sua moglie. Il racconto, dal quale fu tratto un film interpretato dallo stesso Mishima, anticipa in un delirio di eros e morte, con efferata precisione, il seppuku: il suicidio rituale al quale lo scrittore si sottopose all’età di 45 anni, davanti a una guarnigione di soldati vocianti, il 25 novembre del 1970, per protestare contro il decadimento dell’antica tradizione giapponese, il materialismo, la modernità. Il resoconto della lugubre liturgia ci dice che la morte fu orribile. I soldati che dovevano assistere parevano indifferenti. Il generale che avevano legato per entrare nella caserma mormorava confuse preghiere. Mishima arringava i soldati saltando, agile com’era, dal pavimento del terrazzo alla balaustra. Urlava: «Vediamo il Giappone affondare nel più assoluto silenzio dello spirito. La prosperità gli ha dato alla testa . Noi stiamo per restituirgli la sua immagine e moriremo facendolo. possibile che vi accontentiate di vivere accettando un mondo in cui lo spirito è morto?». Ma un elicottero copriva la sua voce. I suoi seguaci, componenti della Società dello scudo [...] tremavano. Morita, il giovane compagno che, dopo lo squarciamento del ventre, avrebbe dovuto tagliare la testa a Mishima e a se stesso, era sull’orlo dello svenimento. E quell’elicottero girava, copriva le parole col ronzio meccanico delle sue pale. La crudeltà era stemperata nella luce quotidiana; la luce quotidiana equiparava la tragedia a un balletto sinistro, una farsa. Del resto, era un destino che il culmine della negazione dovesse sposarsi con la distrazione della vita; una vita tanto inseguita da non accorgersi del suo inseguitore e distrarsi. « in un pomeriggio di primavera come questo che improvvisamente ci si sente crudeli» aveva scritto Mishima: «Mentre il sole filtra tra i rami degli alberi». In terra sarebbero rimaste due teste. Due paia di occhi vuoti, scrisse Margherite Yourcenar. La materia. Irraggiungibile: come lo spirito. Giorgio Montefoschi