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 2006  gennaio 12 Giovedì calendario

APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 25 OTTOBRE 2004

Carlo Petrini «fa la rivoluzione d’accordo coi carabinieri».
«Babele dei contadini». [1] «’Quarto stato” dell’agricoltura mondiale». [2] «National Geographic vivente di antropologie, facce, favelle, vite, culture e colture». [3] «Primo evento davvero globale e allo stesso tempo locale che si sia mai visto finora». [4] Così i giornali hanno descritto ”Terra Madre”, l’appuntamento organizzato a Torino la settimana scorsa da Slow Food e ministero delle Politiche agricole. [5]

Terra Madre è la traduzione del termine ”Pachamama”. Gli indiani quechua lo usano per indicare il valore spirituale della terra. [2] Carlo Petrini: «Terra Madre nasce dai Premi Slow Food: venivano contadini da ogni parte del mondo, parlavano lingue diverse ma dopo mezz’ora, magari a gesti, cominciavano a comunicare, mettevano a confronto le loro culture materiali, erano felici. Erano un centinaio, i loro nomi e le loro storie, assolutamente straordinarie, erano segnalati da una giuria di ottocento giornalisti sparsi nei vari continenti. Al Premio venivano anche loro, gli ottocento giornalisti, tutti grandi amici, per carità. Però mi sono chiesto se invece di invitare ottocento giornalisti e cento contadini non fosse il caso di invertire le proporzioni». [6]

Ospitare cinquemila contadini costa più o meno come ospitare ottocento giornalisti. Petrini: «Macché! Costa molto di meno! Anche perché i contadini si accontentano, li abbiamo sistemati tutti in case private, comunità religiose, da altri contadini». [6] A Torino sono arrivati in quattromilatrecento tra campesinos, paysannes, farmers ecc. [5] Marina Forti: «Persone venute da 129 paesi, pochi meno di quelli rappresentati alle Nazioni Unite: ciascuno per raccontare il proprio lavoro, spiegare come sono riusciti ad addomesticare una certa erba degli altopiani masai che ha proprietà nutritive eccezionali e può crescere in ogni orto del Kenya, o come funziona l’economia dei pastori nomadi della Mongolia». [7] Antonio Cianciullo: «Per risolvere i problemi pratici si sono dovuti mobilitare la Farnesina, in modo da ottenere visti straordinari per 1.400 invitati che senza la ”raccomandazione alimentare” rischiavano di essere presi per immigranti clandestini; un gruppo di sponsor significativo (dal Comune di Torino alla Coldiretti, dal ministero delle Politiche agricole alla Regione Piemonte), in modo da onorare 1,6 milioni di euro di biglietti aerei; uno stuolo di interpreti, in modo d’assicurare la traduzione simultanea nelle sette lingue ufficiali di Terra Madre». [8]

Visti a Torino: i produttori di sciroppo d’acero del Quebec (usano tecniche documentate dal 1609). I Groupements des femmes delle montagne del Benin (lavorano semi di baobab per ricavare una farina che ha il 50% di proteine e il 15% di olio). Gli allevatori di lama del Potosì, regione tra le più povere e disastrate della Bolivia. I produttori d’uvetta di Herat, Afghanistan (piantano le viti in trincee profonde due metri per difenderle dai micidiali sbalzi di temperatura). [8] I pastori del Ladhak, Tibet (coltivano miglio e allevano yak). [6] Le donne della cooperativa Amal, Marocco (hanno recuperato l’olio di argan). [2] Quelle di Palau, Micronesia (hanno illustrato entusiaste le meraviglie della tapioca, e i vari modi di cucinarla). [9] E poi: produttori di riso biologico dal Vietnam, di spezie dallo Sry Lanka, di cous cous dalla Palestina, di orzo biologico dall’Ungheria, apicoltori dal Kirghizistan, «pluviali» dal Burkina Faso, affumicatrici di pesce dal Senegal. Le storie del sale dell’Algarve, del mais delle Ande, del grano etiope, dell’olio israeliano... [10] Forti: «Solo chiamare sul palco un delegato per ogni paese è stato cosa lunga». [7] Roberto Di Caro: «Certo, la si può girare anche come una corte dei miracoli, a caccia di esotiche stranezze. Ma tutt’altro è il senso». [11]

Che cosa si dicono un allevatore di conigli dell’Astigiano e un allevatore di topi di canneto del Benin? Che esperienze si scambiano un produttore cerealicolo della provincia di Torino e le rappresentanti della Comunità femminile dell’alga spirulina (Ciad)? [12] Petrini: «Io sono arciconvinto che mettere insieme queste realtà sarà una grande opera di globalizzazione virtuosa. Le multinazionali hanno potenza politica e potere economico, io punto, da sempre, sull’autostima degli uomini che è da risvegliare, sull’orgoglio di esistere. Quelli del Ladakh, quando torneranno a casa, avranno molte cose da raccontare, e ne avranno raccontate altrettante. Sapranno di essere meno soli, di far parte di una rete preziosa, insostituibile, di valori materiali. Perché l’altra globalizzazione, quella dei fast-food e dell’omologazione, ha il torto e insieme la debolezza di essere immateriale. Loro vendono ”stili di vita”, noi facciamo le cose con le mani». [6]

Montanelli direbbe che Petrini è uno di quei rari uomini capaci di «fare la rivoluzione d’accordo coi carabinieri». [4] Recentemente nominato da ”Time” «eroe europeo dell’anno», ha messo in piedi un’associazione internazionale come Slow Food, in prima linea nella difesa delle colture in via d’estinzione e delle biodiversità; la prima università al mondo di Scienze dell’alimentazione (a Pollenzo); una rete mondiale di contadini che non ha eguali nella storia. [6] Michele Serra: «’Terra madre” è un gran bel nome. Ma è l’argomento che genera pensieri e parole importanti: avrebbe potuto chiamarsi anche Internazionale del Pane, e segnalare una volta per tutte il salto di qualità politico di Slow Food, che si è fatta conoscere (nel mondo) per la cultura gastronomica, ma è ormai a pieno titolo un movimento contadino transnazionale». [3]

Slow Food vuol fondare un’internazionale contadina? Petrini: «Questo è un punto di vista vecchio che continua a mettere l’Europa al centro del mondo. Invece abbiamo tutti molto da imparare, molto da ascoltare. Non abbiamo chiamato a raccolta i diseredati per diffondere il verbo del vero cibo. [...] Vogliamo costruire una rete operativa in cui tutti sono protagonisti: paesi poveri e paesi ricchi. Tutti alla pari. A tutti è fornita la possibilità di scambiare informazioni teoriche e indirizzi commerciali: Terra Madre somiglia più a un Internet sensorialmente basato che a un’internazionale vecchio stampo». [7]

Quello che nelle società premoderne si svolgeva all’interno di piccole comunità oggi si svolge su scala mondiale. Lo storico Massimo Montanari: «Il conflitto, in società medioevali di tipo feudale, vedeva classi sociali contrapposte con schemi più o meno complicati, però ben definiti. Adesso questo conflitto avviene a livello planetario tra economie di sfruttamento e economie sfruttate, di fronte a una complessità del mondo che è disorientante. Probabilmente un’esperienza come Terra Madre è un’occasione per mettere in luce la ricchezza che hanno le economie sfruttate. Ma si badi bene, siamo di fronte a una ricchezza che nella società contemporanea rischia di essere dimenticata, mentre nelle società medievali tendeva a essere integrata. Il pericolo è che il sistema industriale uccida queste culture e non le ”espropri”, neppure come gesto di furbizia o di imperialismo culturale. Un tempo avveniva l’esproprio perché le classi dominanti questa cultura la conoscevano e la apprezzavano. L’industria corre rischio di non capire e fare danno. Il conflitto per il controllo delle risorse c’è sempre stato, però in passato difficilmente questo conflitto ha portato alla distruzione delle risorse». [13]

Servono strategie diverse. Montanari: «Di fronte a un fenomeno come l’industria, che si muove a livello mondiale, anche le forze produttive legate ai saperi tradizionali devono porsi allo stesso livello, altrimenti non sopravvivono. Quello che oggi è un po’ in crisi è l’elemento di una conoscenza comune che attraversa i vari livelli sociali e culturali, perché nelle società premoderne il contadino, il fattore, il padrone erano comunque collegati da interessi e cultura. Il padrone scriveva le istruzioni al fattore, che le passava ai contadini: tutto questo avveniva in un clima di conflitto, ma intorno a un oggetto che interessava tutti e che tutti conoscevano. Il problema è che oggi il mondo dell’industria, la società moderna, ha perso il contatto con le culture della terra. Tant’è vero che il consumatore stesso non conosce più ciò che consuma e proprio sull’ignoranza si gioca il successo dell’industria e del suo modello di società». [13]

Nell’intero pianeta, due lavoratori su tre sono contadini. Nel secondo dopoguerra il settore agricolo italiano contava il 48% degli addetti, oggi solo il 3-4%. Petrini: «Un declino inesorabile che porta allo spopolamento della campagne, con tutte le conseguenze che derivano anche in termini di difesa del territorio. Se abbiamo tanti disastri ambientali è anche perché non ci sono più in campagna i contadini che governavano le acque di scolo e che pulivano i fossi. In questo momento in Italia stiamo vivendo una situazione drammatica, con i prodotti agricoli che vengono remunerati sempre meno ai contadini e fatti pagare sempre più cari ai consumatori. Una intermediazione schizofrenica per cui i pomodori vengono pagati 20 centesimi il chilo e poi rivenduti ai supermercati a 2 euro. Nella mia Langa ci sono i coltivatori di grano che prendono 8-10 euro al quintale, una cosa vergognosa. Dobbiamo creare un circuito virtuoso che unisca i consumatori ai contadini, altrimenti il sistema agricolo italiano andrà verso il disastro. Mangiare è il primo atto agricolo. Se mangio bene, contribuisco anche a promuovere un certo tipo di agricoltura». [14]

Lo iato fra l’enfasi del gusto e il mangiare quotidiano. Roberto Di Caro: «Idolatriamo i sapori unici e specifici e ingurgitiamo il ”nulla” indistinto delle produzioni standardizzate. Non è un termine scelto a caso. la categoria utilizzata da George Ritzer, sociologo all’Università del Maryland noto per i suoi La globalizzazione del nulla e La McDonaldizzazione della società: ”Il ’nulla’, perfetto esempio l’hamburger McDonald’s, è uguale ovunque, concepito e controllato da un centro, senza contenuti specifici che lo distinguano da un luogo all’altro. Sta vincendo perché è più forte, è più economico, prolifera globalmente, cancella nelle nuove generazioni anche la memoria di ciò che stanno smarrendo”». [11]
La partita è già persa? Ritzer: «In America temo di sì: a parte il vino in California e le mele nello Stato di Washington, quali produzioni tipiche possono mai vantare il Kansas, lo Iowa, gli Stati del Midwest? Anche da noi ci sono paladini della biodiversità, come ”Seed savers”, banca di semi che vengono preservati prima dell’estinzione: ma è poco più di una nobile operazione museale. No, se c’è qualche speranza, non può venire che dall’Europa. Voi, qui in Italia, voi sì potete resistere». Alberto Capatti, storico dell’alimentazione, ragiona per cicli lunghi: «Quello attuale è cominciato negli anni Cinquanta, ha attraversato la crisi degli anni Novanta culminata con la rivolta di José Bové, sconta gli scandali di mucca pazza, dell’accelerato impoverimento del territorio e dei regimi agricoli, di una standardizzazione dei prodotti dagli effetti nefasti sulla tavola. Una modifica di sistema è in corso, ma è progressiva, lenta, giocata più sui valori che sui consumi effettivi». [11]

L’uniformizzazione alimentare va indagata, non solo enunciata. Di Caro: «Passa attraverso la nascita della ”qualità media” come valore, la riorganizzazione delle stagioni dettata dal marketing, la conseguente modificazione o eliminazione delle specie vegetali». Capatti: «La pera era disponibile otto mesi l’anno, si legga il Trattato di frutticoltura di Jean-Baptiste de La Quintinie, giardiniere del Re Sole; ora resta quei sei mesi che il mercato le concede tra il tempo della pesca e quello della ciliegia. Se un frutto è troppo fragile lo si cancella, come l’amarena e la piccola dolce prugna quetche, o lo si muta in un unico duro fascio di fibre, come la fragola». [11]

L’agricoltura biologica è il nostro futuro? Petrini: « necessariamente il nostro destino, però l’etichetta biologico è stata usata più come marketing che non come pratica. Faccio il biologico e quindi applico prezzi diversi...». [10] Rosanna Massarenti, direttore di ”Altroconsumo”: «Ne denunciamo di tutti i colori. una bufala la metà delle etichette di stampo ambientalista, biologico, solidale, persino artigianale e locale. Risibile l’uso di verità scientifiche tipo ”il sodio fa male” per vendere acqua quasi senza sodio, visto che una qualunque bottiglia ne potrebbe contenere al massimo quanto ce n’è in un’unghia di parmigiano. Deprecabile che negli gnocchi mettano latte in polvere invece di patate, nei biscotti e cracker grassi vegetali saturi e dannosi invece dell’olio d’oliva. Quanto ai piatti pronti, sono in genere pieni di ”esaltatori di sapidità” come il glutammato di sodio: il che genera l’inconfondibile sindrome da ristorante cinese dove le cose hanno tutte lo stesso sapore e odore». [11]

Le multinazionali dell’alimentazione sono già passate al contrattacco. Di Caro: «La loro ultima frontiera, in testa la potente Nestlé con il suo yogurt Lc1 presentato come una specie di pozione di Panoramix, è quella dei ”probiotici” o ”nutraceutici”, cioè nutrizionali-farmaceutici. Mangiate da schifo e temete di star male? Ci pensiamo noi a curarvi preventivamente, addizionando al cibo tutto quanto vi serve: selenio antiossidante nelle patate, vitamina D ed E nel latte e C nelle chips, calcio nei biscotti, persino fermenti lattici vivi in prodotti da forno, salvo scrivere piccolissimo che alla cottura detti fermenti muoiono. Il dramma è che vendono alla grande e trainano il mercato». [11]