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 2004  ottobre 06 Mercoledì calendario

APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 18 OTTOBRE 2004

L’Iran è ormai a un passo dall’atomica: che fare?
Un paio di settimane fa l’Iran ha fatto sapere che dispone di missili ”difensivi” con 2000 chilometri di gittata. Nome in codice: Shahab-3 (in lingua farsi significa Meteora). Mara Gergolet: «Basta aprire un atlante per capire la portata di questo ”progresso militare” iraniano: l’Europa sudorientale è a tiro; ma soprattutto, la Meteora potrebbe, potenzialmente, accendersi sopra Israele o le basi americane nel Golfo». [1] Nel dare la notizia, l’ex presidente Akbar Hashemi Rafsanjani ha aggiunto che «chiunque sia familiare con questo tipo di tecnologia, sa che chi ne è in possesso può anche accedere ai passi successivi». [2] Alberto Ronchey: «Nello stesso tempo a Teheran una proposta di legge, contraddicendo impegni presi un anno fa, sollecita lo sviluppo del programma nucleare definito ”civile” ma convertibile a fini militari. L’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) aveva intimato all’Iran di sospendere ogni attività per la produzione di uranio arricchito entro il 23 novembre. Oltre quella data, l’Onu potrà decretare sanzioni, si vedrà se più o meno efficaci». [3]

Da mesi si gioca, nella disattenzione delle opinioni pubbliche, una partita sull’abisso. Maurizio Blondet: «Ricapitoliamo le mosse: in febbraio, Israele ha ricevuto dagli Usa 102 aerei F.161 equipaggiati con serbatoi supplementari per raggiungere l’Iran: il segnale che se il regime di Teheran continua a sviluppare il suo programma nucleare, si espone a un attacco preventivo. A giugno, per rafforzare il messaggio, Sharon ha acquistato dagli Usa 5 mila bombe teleguidate, fra cui 500 ”bunker buster”, capaci cioè di perforare bunker sotterranei con muri di cemento spessi due metri. Teheran ha risposto annunciando pubblicamente d’essere oggi in grado di produrre l’esafluoruro di uranio, il gas che serve ad arricchire il materiale fissile per usi militari». [4]

Gerusalemme segue con preoccupazione questi sviluppi. ”Haaretz” ha scritto che gli Shanab-3 alterano l’equilibrio nella regione alzando il peso negoziale dei Paesi arabi. Risultato: ogni trattativa diventa più complicata. A inizio estate un rapporto pubblico dell’intelligence dichiarava che la prima minaccia per Israele non è più il terrorismo palestinese ma l’Iran. Gergolet: «Quasi una sorta di annuncio ”ufficiale” di un cambio delle priorità, per quanto riguarda la strategia di sicurezza. E pochi giorni fa, il ministro della Difesa Shaul Mofaz in un’intervista a ”Yedioth Ahronot” ha così spiegato il punto di vista israeliano: il regime degli ayatollah non può disporre di questo tipo di armi. Esistono quindi, per Mofaz, due possibilità: che il regime sia rovesciato o che le armi siano fermate. ”Agiremo per raggiungere uno di questi obiettivi”. Un’idea condivisa dagli americani». [1]

Israele minaccia quasi ogni giorno di «prendere le misure di autodifesa» che riterrà necessarie. Adriano Sofri: «Qualcuno pensa di andare a bombardare le stazioni atomiche in Iran. Idea avventurista, brigantesca? Certo, certo. Però successe già. Aerei israeliani andarono a far fuori l’ultramoderno reattore nucleare di Osirak, alla periferia di Bagdad, 70 megawatt, fornito dalla Francia e sostenuto dagli italiani. Ci furono universali proteste: briganti, criminali internazionali. Non so, senza quell’impresa criminale, se si sarebbe trovato un altro modo di impedire a Saddam Hussein di dotarsi dell’atomica fin dagli anni ’80». [5] Mimmo Cándito racconta così quel 7 giugno 1981: «Gli F-16 israeliani passarono rasenti sul territorio giordano (in modo da evitare l’occhio del radar) e arrivarono inaspettati e precisi sul reattore nucleare che Saddam stava facendo realizzare a Tamuz, poche decine di chilometri da Baghdad; e lo distrussero. I missili avevano testate particolari, studiate per creare una prima esplosione di penetrazione e poi la vera esplosione distruttiva; riuscirono ad arrivare fino al nucleo sotterraneo del reattore Osirak, e lo sbriciolarono, completamente». [6]

Con l’Iran la faccenda è un po’ più complicata. Cándito: «I tempi sono diversi, la sensibilità del mondo islamico è molto più reattiva e determinata, i rischi d’una rottura d’ogni possibile equilibrio di contenimento assai più alti. Israele fa calcoli strategici che non sempre coincidono con quelli americani o, ancor meno, con quelli dell’Onu. E dentro l’Iran la lotta tra riformisti e integralisti sta segnando un forte arretramento d’ogni politica di moderazione, soprattutto dopo la pesante sconfitta delle liste di Khatami nelle elezioni di febbraio». [6]

Israele ha uno scenario di attacco preventivo. Cándito: «Questa operazione, con un nome in codice passato ormai al top delle analisi dei servizi di spionaggio, da qualche mese sta circolando con troppa insistenza nei circuiti diplomatici e nei massmedia più attenti agli equilibri internazionali: ”New York Times”, ”Wall Street Journal”, e ”Financial Times” ne hanno dato ripetutamente notizie e valutazioni. Può essere anche soltanto una tattica di Gerusalemme che attraverso quei giornali lancia moniti velati a Teheran; però può essere un vero lavoro d’indagine dei massmedia, e l’ipotesi si fa allora inquietante». [6]

La politica non si esercita con frasi ufficiali, o annunci istituzionali dettati tra bandiere e ottoni. Cándito: «Questa è la parte meno significativa, polvere negli occhi dell’opinione pubblica. Ciò che in realtà conta sono i messaggi in codice, le allusioni e i segnali velati che i politici si scambiano attraverso i massmedia, perché in quelle parole stanno nascosti fatti, impegni, minacce, che, loro sì, possono cambiare la Storia». [6] Blondet: «Il lato comicamente tragico di questa sfida a colpi di pugni sul petto è che, presa per sé, ciascuna delle mosse dei due gorilla è intesa a scongiurare il rischio più temuto da entrambi, nella folle logica delle deterrenza. Teheran ha pur chiarito che ”la sospensione del programma nucleare è materia di negoziato”: insomma che può rinunciarvi, se riceverà qualche tipo di garanzia: oggi non ne ha, essendo nella lista americana degli ”Stati canaglia” passibili di attacco preventivo». [4]

Israele teme che l’attacco preventivo possa rivelarsi tutt’altro che risolutore. «La nostra intelligence sull’Iran è debole», ha ammesso l’analista Reuven Pedatzur. Blondet: «Secondo la rivista militare ”Jane’s”, le installazioni atomiche iraniane sono sparse e probabilmente duplicate al modo sovietico. Da una parte, imporre sanzioni è impossibile data l’attuale sete mondiale di greggio (e l’Iran ne produce 2,6 milioni di barili al giorno). Dall’altra, un attacco preventivo lascerebbe vulnerabile Israele, Paese vasto come la Puglia, a una ritorsione rovinosa: proprio a segnalare questo serve l’annuncio iraniano della lunga gittata acquisita dai missili». [4]

Gli esperti dell’Aiea non credono che Teheran possieda già la bomba atomica. Ma sospettano che stia ad appena un passo. Cándito: «L’arricchimento dell’uranio è una pratica che può essere certamente destinata a creare combustibile per le centrali nucleari, ma ugualmente può servire a realizzare la bomba atomica; il procedimento è praticamente identico, se ne può cogliere la destinazione reale soltanto nell’ultima fase di lavorazione. Quando ormai è troppo tardi». [6]

L’Iran deve essere in grado di produrre la sua prima atomica entro la metà del 2005. Sarebbe questo l’ordine impartito dalla Guida in persona, Alì Khamenei. Guido Olimpio: «Una scadenza ravvicinata per la quale il regime ha deciso di investire più scienziati e più risorse. Almeno due miliardi di dollari saranno aggiunti al budget nucleare, portandolo alla cifra di 16 miliardi. Le ricerche, ha aggiunto Khamenei, dovranno essere accelerate, facendo lavorare i tecnici anche durante i giorni festivi e oltre le tabelle di marcia previste. A rivelare il nuovo progetto è un rapporto del ”Consiglio nazionale della resistenza iraniana”, gruppo in esilio che ha buone informazioni sugli apparati khomeinisti». [7]

Secondo il Consiglio della resistenza, la strategia del regime è articolata su due livelli. Olimpio: «Il primo punta all’acquisizione dell’uranio arricchito, il secondo riguarda il plutonio. Gli iraniani, nell’intento di chiudere entro il 2005 il ciclo completo del combustibile atomico, hanno eseguito quattro mosse chiave: estrazione di uranio dalle miniere di Saghand e Yazd, produzione di yellow cake ad Ardekan e Bandar Abbas, trattamento di materiale a Isfahan, arricchimento d’uranio a Natanz. L’esistenza dell’impianto di Bandar Abbas, situato a circa 35 chilometri dalla città, non era stata ancora rivelata dagli esuli, per i quali è ormai operativo. Per quanto riguarda il plutonio gli scienziati hanno intensificato i piani di lavoro nel centro di Arak. Parte del materiale - sottolineano gli oppositori - proviene dal mercato libero e dalle ex repubbliche sovietiche». [7]

Importante è stata l’azione di società ombra, come la ”Rah-e-kar-e Sanayea Novin”. Olimpio: «Le ditte vengono usate in modo esteso da Teheran per nascondere i veri obiettivi del programma, per presentare le ricerche come fossero un’iniziativa del settore privato, per poter acquistare beni e tecnologia all’estero. In base al dossier del Consiglio la base operativa di alcune società è situata in un palazzo al numero 33 della ”Sayed Abadi Avenue” di Teheran. Al primo piano ci sono gli uffici della ”Pars Terash Company”, sopra invece lavorano i tecnici della Kala Eletric, specializzata in centrifughe. Al quinto e sesto piano sono pronti, ma non operativi, gli studi di una compagnia elettronica. Con due sedi, una nella capitale e l’altra a Isfahan, la ”Pishgam Development” segue la produzione del combustibile nucleare. Più delicato il compito della ”Rah-e-Kar”, i cui esperti devono cercare, acquistare e contrabbandare tecnologia acquisita in Occidente e nell’Europa dell’Est». In base alle previsioni degli esperti, se l’Iran riuscirà a rispettare l’agenda fissata, i suoi centri ricerche potranno produrre tre ordigni atomici l’anno con cui armare i missili terra-terra Shahab. [7]

«Dieci potenze atomiche invece che quattro». Era questo, secondo Kennedy, il pericolo massimo dell’Umanità. Ronchey: «Ora, quelle potenze sarebbero nove o forse più. Nel confronto televisivo di Miami per la campagna presidenziale americana, sia Bush sia Kerry hanno disputato a lungo sulla proliferazione delle armi nucleari. La minaccia oggi riguarda in particolare le ambizioni dell’Iran e della Corea di Pyongyang, sfuggenti ai controlli mentre da tempo aspirano a raggiungere la soglia del nazionalismo atomico, se non l’hanno già superata. In questi casi e forse in altri, i rischi più elementari sarebbero incidenti tecnici casuali benché autodistruttivi. Catastrofiche sarebbero poi le tentazioni di ricatti atomici nei conflitti locali, gli errori di calcolo politico e militare fino all’estremo azzardo capace di provocare guerre a catena o ”catalitiche”». [3]

Le presidenziali americane sono per l’Iran una variabile fondamentale. Angelo Sica: «Teheran non farà una mossa per favorire il nemico George W. Bush. Spera nella vittoria di John Kerry. Nel programma dei democratici, infatti, ci sono trattative per far cadere le accuse di proliferazione d’armi atomiche, a patto che siano rispettati determinati standard nell’uso delle centrifughe». [8] Arthur M. Schlesinger, che all’inizio degli anni Sessanta visse da assistente speciale di Kennedy la crisi della Baia dei Porci, è convinto che se Bush vincerà le elezioni del 2 novembre interpreterà il successo come un mandato per fare una nuova guerra preventiva: «Già oggi da Washington cominciano ad arrivare inquietanti segnali sull’Iran. Ricordano pericolosamente le voci incontrollate che circolavano prima dell’invasione dell’Iraq». [9]

Dominio militare sul petrolio del Medio Oriente, eliminazione di ogni minaccia alla sicurezza d’Israele. Tra quanti pensano siano questi i veri motivi della guerra all’Iraq, c’è l’ex agente della Cia Ray McGovern, che l’ha scritto su ”Common Dreams”. Joseph Halevi: «Senza il controllo dell’Iran il dominio sulla regione e sul petrolio è altamente incompleto, mentre nessuno minaccia Israele. Il gergo della ”sicurezza” serve solo a collegare militarmente Washington e Tel Aviv contro l’Iran. Su questo terreno viene reso operativo l’asse strategico Usa-Israele, la cui valenza è interamente antieuropea perché l’Iran è ormai l’unico paese del Medioriente ad avere rapporti autonomi con l’Europa. Teheran è anche un fattore importante in un’altra zona energetica che gli Stati Uniti cercano di arraffare con l’intervento in Afghanistan, in un ravvicinato conflitto geopolitico con la Russia: la zona che va dal Mar Caspio all’Asia centrale ex-sovietica. Così bombardando e arraffando Washington arriva faccia a faccia con la Cina sul punto più vulnerabile per Pechino, quello energetico appunto». [10]

Al vertice di novembre sull’Iraq, al Cairo, Colin Powell si vedrà faccia a faccia con il ministro degli Esteri iraniano. Cándito: «La politica fa il proprio mestiere, non sempre le sue parole significano quello che sono; però quel missile, intanto, sta sulla rampa di lancio». [6] Sofri: «Dire sì alla pace e no alla guerra, dirlo sul serio, nella propria vita personale e nel proprio impegno in solido, è una magnifica cosa. Un magnifico privilegio della vecchia Europa, finché dura. Ma non è un punto di arrivo, al contrario. Bisogna farsi lo stesso tutte le domande. C’è quella dannata situazione, in Iraq. C’è la faccenda delle armi nucleari nell’Iran dei mullah. Riguarda l’Aiea, gli americani, Israele, l’Onu. E noi?». [5] Blondet: «Questa è la partita, queste le mosse dei giocatori. Ciascuna intesa a distogliere l’avversario dalla successiva, ciascuna conduce ad una nuova sfida che esige una sfida ulteriore. Ad ogni mossa, l’impensabile orrore appare più vicino». [4]