Maria Laura Rodotà Amica, novembre 2004, 12 gennaio 2006
La femminilità molto milanese di Grazia Neri, la donna e l’agenzia, Amica, novembre 2004 Tantissime immagini che gli italiani vedono abitualmente sui giornali, una bella parte del gusto per le immagini che gli italiani hanno sviluppato negli ultimi decenni vengono da Grazia Neri, l’agenzia e la persona
La femminilità molto milanese di Grazia Neri, la donna e l’agenzia, Amica, novembre 2004 Tantissime immagini che gli italiani vedono abitualmente sui giornali, una bella parte del gusto per le immagini che gli italiani hanno sviluppato negli ultimi decenni vengono da Grazia Neri, l’agenzia e la persona. Una persona di taglia 38-40, di energia pazzesca per una nonna di due nipoti che dopo una vita di lavoro e un figlio che sta con lei in agenzia («chiedi a Michele, è lui che lo sa», è il suo intercalare finto vago da mamma orgogliosa e da intervistata che non vuol essere distratta dal suo ragionare) potrebbe tirare il fiato. Ma non lo fa e non potrebbe. Perché è una di quelle rare donne italiane (milanesi, molto milanesi) che hanno influito sullo stile nazionale, sul modo in cui vengono presentati personaggi e notizie; e perché come molte donne dice in continuazione «io sono insicura», e quindi deve continuamente fare qualcosa per rassicurare sé stessa e gli altri. La prima cosa che racconta è materno-logistica: « stata una fortuna abitare dall’altra parte del cortile dell’ufficio» quando Michele era piccolo. Quando ha cominciato era una giovane mamma neoseparata da un giornalista, una nata nella piccola borghesia da un papà morto giovane che le insegnò a leggere da piccolissima - legge giornali nonstop da allora - e da una mamma preoccupata per il suo futuro che si raccomandava finisse presto e bene il liceo linguistico «altrimenti finisci a fare la piscinina da una sarta». Primo impiego a 18 anni al palazzo dei giornali di piazza Cavour. Erano quattro neodiplomate in corsa per quel posto, lei sapeva tre lingue e aveva già letto migliaia di giornali, si era appassionata a infinite fotografie. A fare didascalie delle foto fu la più brava, ovvio. «Mi ha sempre aiutato la capacità di inventare storie. All’inizio ero più attenta alla storia che alla forma. Allora non sapevo come si legge una foto». Iniziò a fare l’agente in modo casuale, per intraprendenza e per bisogno, rappresentando fotografi a Milano, poi diventando il referente italiano di grandi agenzie internazionali. Aprendo un ufficetto, scrivendosi da sola una lettera di raccomandazione per ottenere il telefono, facendo corse alla stazione per ricevere le foto, girando per le redazioni. Sempre «con la paura di non essere abbastanza brava, però do il meglio di me quando ho paura». L’agenzia è nata nel 1967; ora rappresenta decine di fotografi italiani e no, e molte agenzie estere. Non ha più la sede dall’altra parte del cortile, sta in una bella casa del centro con quadri tutti belli tranne forse due («quei paesaggi me li ha dati la mia mamma, mi dice lo so che quando muoio tu li togli»), foto del secondo marito scomparso, il grande medico Renato Boeri, del figlio e dei nipotini e poi forse due sue («odio essere fotografata, volete proprio?»), ma non è che ci passi tanto tempo («che strano trovarmi a casa in una mattina feriale, in genere sto in agenzia»). Neri è il cognome del primo marito. Lei si chiama Maria Grazia Casiraghi, in realtà. «La mia agenzia la volevo chiamare Contact, ma era un nome già registrato. Così ho scelto Grazia Neri». Con un po’ di imbarazzo, ma poi «ho visto che funzionava». Funzionava il nome, e anche i primi fotografi: «Be’, erano Gianni Berengo Gardin, Uliano Lucas, Carla Cerati... Poi ho cominciato a conoscere i francesi, siamo diventati amici. Ho fatto un mitico viaggio a New York nel 1967, un anno straordinario, lì stava succedendo tutto, ho imparato tantissimo». Anni dopo, Grazia Neri è diventata la rappresentante europea dell’International Center of Photography newyorkese. Aveva imparato parecchio, benché tuttora dica di non saperne abbastanza. Ora se una foto è buona o cattiva lo decide lei. Farselo spiegare è uno dei motivi per cui si va a trovare Grazia Neri, tra l’altro. Ci vanno in tanti a mostrare le proprie, a volte lei ancora si sorprende: « venuto un chirurgo tempo fa, mi ha detto devo fotografare sempre, mi aiuta a superare gli orrori del mio lavoro, e le foto erano stupende». Comunque, ci sono tre modi di vederle. «In una mostra è diverso, la foto è isolata, prendi tempo per capire la storia, analizzare gli elementi, e nell’osservarla ci metti la tua cultura. Poi ci sono i libri fotografici: ti sdrai, leggi l’introduzione, vedi gli elementi, hai delle sensazioni, rifletti di più. Con i giornali è un’altra cosa. Il lettore ha piacere che un giornale abbia un linguaggio omogeneo, deve poter pensare che le foto corrispondano veramente al testo. E secondo il suo livello di cultura sceglie giornali e foto. Sui rotocalchi vorrà vedere la ruga dell’attrice, o l’attrice con un nuovo uomo, o l’attrice ritratta bene ma con una sua autenticità. Sui quotidiani è un’altra storia, e negli ultimi anni le foto sono migliorate moltissimo. Anche quelle che raccontano tragedie come l’11 settembre; penso a quelle del nostro Jim Nachtwey (grande reporter di guerra, ndr), colpiscono più di tante altre per la composizione perfetta; penso a quella con la croce, il rosso delle fiamme, il pompiere rosso, un inferno dantesco». «Devono essere belle le foto dei giornali, devono raccontare l’ambiente, la storia e avere una bella composizione. Altrimenti uno neanche le guarda, le immagini del giorno, comincia a vederle alla tv col caffè la mattina. Una foto o è diretta, deve appagare la voglia di informazione del momento, o deve soddisfare la curiosità sui personaggi; per questo ci sono ritrattisti come Annie Leibovitz, che li fanno posare ma li reinterpretano, e fanno sognare. Quello che manca ora in Italia però non sono i bei ritratti, sono le belle foto di cronaca, delitti, scene di rapine, non se ne fanno più tante». «E poi c’è il linguaggio sofisticato delle riviste. A volte mi chiedo, il lettore lo apprezzerà? Non sempre lo farà, a volte è ermetico, a volte la forma è molto privilegiata rispetto al contenuto. Quando ho tempo di editare un servizio lo spiego e rispiego ai fotografi: devono far capire dove si trovano magari da qualche dettaglio sullo sfondo, dare un ritmo al racconto, ricordare che se sulla scena ci sono varie persone quelle persone vanno viste. E per raccontare ogni tanto bisogna andare dove gli altri non vanno. Del Medioriente, per esempio, si vedono sempre foto di esterni. Invece c’è un giovane, Zijah Gafic, che va nelle case a fotografare le donne, e sono foto magiche, le conseguenze di una guerra le vedi nella vita delle persone, nei dettagli. Un fotografo bravo deve saper raccontare le ragioni di un evento». «Io continuo a vedere portfolios, di professionisti e di principianti. Ci sono quelli che capisci subito che non ce la faranno mai, quelli che vanno indirizzati, e quelli che lo fanno da tanto a cui devi rifare la carriera, spiegare dove va ora la corrente. E sono sempre incontri che mi turbano, guardando le loro immagini entri in intimità. Per fortuna, oggi c’è una curiosità forte per la fotografia anche da noi, e ci sono tanti italiani bravi. Alex Majoli e Paolo Pellegrin che erano da me e ora sono alla Magnum, Gianni Giansanti che più passa il tempo più mi piace, Massimo Sestini che ha una velocità e delle prestazioni tecniche pazzesche, sa fare tutto, dalla paparazzata al reportage, Giorgia Fiorio che ha una perseveranza incredibile. E poi molti giovani, non li nomino per non lasciare fuori nessuno. Certo che è un mestieraccio; sei pagato a giornata, se non scatti la foto giusta non guadagni, appena ti affermi devi guardarti alle spalle, ci sono sempre nuovi talenti, nuove tendenze. E c’è la paura di perdere lo stile, ed è un lavoro che ti isola. Se riesci lasci in continuazione la famiglia, gli amori, i figli. I veri fotografi sono felici sono quando possono ritrovarsi tra loro e parlare di fotografia. In più la maggioranza guadagna poco, e molti non ce la fanno. Io sono dalla loro parte, e capisco perché così spesso sono tristi. Forse anche per questo continuo a lavorare tanto. Anche se a volte penso che vorrei rallentare, fare solo consulting, fare delle mostre. Poi però continuo, perché sono fatta così». Maria Laura Rodotà