Juan José Millás D, 02/10/2004, 2 ottobre 2004
Cronaca simpatetica di una giornata con l’enigma Zapatero, D, 02/10/2004 Alle tre e passa del pomeriggio, sotto un sole carnefice e con lo stomaco annodato dalla fame, mi tornano alla mente le raccomandazioni che qualcuno del protocollo mi aveva fatto partendo da Madrid: «Appena vedi del cibo mangia, appena vedi un gabinetto fai pipì, appena vedi una panchina siediti, perché non sai quando potrai rifarlo»
Cronaca simpatetica di una giornata con l’enigma Zapatero, D, 02/10/2004 Alle tre e passa del pomeriggio, sotto un sole carnefice e con lo stomaco annodato dalla fame, mi tornano alla mente le raccomandazioni che qualcuno del protocollo mi aveva fatto partendo da Madrid: «Appena vedi del cibo mangia, appena vedi un gabinetto fai pipì, appena vedi una panchina siediti, perché non sai quando potrai rifarlo». Ho disobbedito accuratamente ed eccomi qui, tre volte distrutto, nel cortile di un palazzotto di Algeri al cui interno José Luis Zapatero si intrattiene con il presidente Bouteflika più a lungo di quanto tutti noi avessimo immaginato. La mia avventura inizia alle 8.45 su un elicottero che dal palazzo di La Moncloa ci porta alla base aerea di Torrejón de Ardoz. In aereo ti senti strappato da terra, mentre in elicottero è la terra a staccarsi da te lasciandoti sospeso per aria alla mercé di pale che girano con disperazione perché non hanno nessuna fiducia in se stesse. Osservo dall’alto, come nei viaggi astrali, il corpo della città dove trascorre la mia vita. Il traffico, la massa boscosa della Casa de Campo e i campi da tennis delle ville di lusso. Poi i tetti e i cortili delle case popolari, le antenne tv e quel piccolo gruppo di edifici intorno alla Torre Picasso la cui vocazione newyorchese non riesce a togliere a Madrid la sua faccia di vecchio paesone mancego. E casa mia: la guardo con la perplessità di uno che guarda se stesso dal tetto. Se l’elicottero rallenta, forse posso vedermi mentre porto il cane a spasso nel parco, come tutti i giorni a quest’ora [...]. Mi hanno messo di fronte a Zapatero e mi sembra scortese non conversare, ma non vorrei perdermi questa esperienza extracorporea, forse l’ultima della mia vita. Credo che lui si renda conto del mio dilemma perché s’immerge nella lettura di un giornale lasciandomi godere le sensazioni paranormali a cui lui è abituato. «Questo percorso», mi dice gridando per farsi sentire, «lo facciamo ogni volta che usciamo». Meno di un giro in giostra, poi la terra ci viene incontro con la dolcezza con cui il palmo di una mano raccoglierebbe una piuma. Poco dopo siamo sull’Airbus 310 militare per Algeri. Anche se il mio lavoro consiste nell’essere l’ombra di Zapatero, dedico i primi minuti a bordo a curiosare per l’aeronave, nella cui parte anteriore c’è una specie di cabina con letto, doccia, sofà e scrivania che fanno venir voglia di viverci [...]. Mi dicono che Zapatero la usa solo nei viaggi transoceanici: di solito preferisce stare dietro, in uno scompartimento per otto persone, dove ora viaggia con i ministri Montilla e Moratinos, Nicolás Martínez Fresno, segretario generale alla Presidenza, e Miguel Sebastián, direttore dell’Ufficio Studi Economici del presidente. Appena raggiunta la velocità di crociera, tutti lasciano i posti assegnati [...]. Alcuni leggono i giornali alla velocità della luce: questa gente sviluppa nelle dita una sensibilità incredibile per scoprire al tatto la pagina in cui si parla di loro o del loro partito. In venti minuti consumano sette o otto quotidiani, con la tenacia con cui il tarlo fora il legno, evitando i nodi che non portano da nessuna parte. Noto che sull’aereo ci sono solo tre donne rispetto a quindici uomini, senza contare l’equipaggio, tutto maschile. L’età media è bassa, soprattutto scartando Montilla, Moratinos e me, i più vecchi. L’ambiente è disteso, e ne approfitto per avvicinarmi da dietro al presidente, che deve voltarsi e mettersi in una posizione un po’ scomoda per ascoltarmi. Gli dico che sembra felice e mi conferma che lo è. Cerco di fargli scappare qualche luogo comune sul peso delle responsabilità, ma è fatica sprecata: è veramente felice di governare, è ciò che ha sempre voluto, nel senso che per lui governare significa cambiare le cose. Durante un breve incontro ai giardini di La Moncloa, avevo ironizzato sul luogo così scomodo in cui vive da quando ha vinto le elezioni: mi ha detto che probabilmente in Europa non c’è residenza più comoda di questa per un primo ministro. E Downing street? «Downing street va bene, è grande, ma non è tutto questo», ha aggiunto abbracciando con un gesto i giardini. Sostiene che lamentarsi di vivere a La Moncloa sarebbe una dimostrazione di irriconoscenza verso i contribuenti spagnoli, che lo mantengono. Mi trovo, insomma, di fronte a un uomo che ha una bella casa, un buon lavoro e una famiglia che ama, che è ciò a cui tutti aspirano. Anche se c’è molta gente che si deprime quando raggiunge ciò che desidera. Gli chiedo se c’è differenza tra le fantasie che aveva riguardo il potere e la realtà, e mi risponde di no, a parte il fatto che si può comandare più di quanto immaginava, il che significa che si possono cambiare più cose di quanto pensasse. In effetti, contro il pronostico generale, ha ordinato il ritiro delle truppe dall’Iraq il giorno dopo la salita al governo. E il suo è il primo governo della storia di Spagna a prendere sul serio il concetto di pari opportunità; ai suoi primi cento giorni, poi, si devono la legge contro la violenza sulle donne, lo sblocco dei negoziati per la Costituzione Europea, l’aumento dei salari minimi, il blocco degli aspetti più sinistri della riforma della scuola e della diga sull’Ebro, la nomina di cinque saggi per la riforma della televisione pubblica, la normalizzazione dei rapporti con le comunità autonome. Mi domando a voce alta se l’esercizio del potere non cambierà anche lui. «Questa», dice, «era l’unica cosa di cui avevo paura quando presi il potere. Ma ora so che non cambierò». In verità non si conosce nessuno che non sia stato cambiato dal potere. «Io no». E perché tanta sicurezza? «Perché l’ho demistificato. Non sento alcun fascino per gli aspetti esteriori del potere». Però è vero che il potere isola. «E anche che ci sono mille modi per mantenere vincoli costanti con la realtà. Io, ogni sera, dico a mia moglie: ”Sonsoles, non ti puoi immaginare le centinaia di migliaia di spagnoli che potrebbero governare”». Mi trovo [...] di fronte a un uomo convinto fino al midollo che il potere non farà a lui ciò che fa a tutti. Val la pena di scriverlo accanto al «non vi deluderò» della notte elettorale. Certo è che la felicità di Zapatero risulta contagiosa: la squadra che lo accompagna è quanto di più lontano si possa immaginare da un gruppo di funzionari. Solo il taglio e il colore dei vestiti, con predominio dei blu, svelano che si tratta di una delegazione governativa in visita diplomatica in un Paese straniero. Ad Algeri, Bouteflika riceve Zapatero con gli onori militari e il tempo si divide in frammenti che scorrono con una lentezza disarmante e frammenti che vanno a una velocità insopportabile. Un momento siamo fuori dalle auto governative a conversare indolenti e l’attimo dopo attraversiamo Algeri a 100 all’ora per non perdere il posto nella fila. Io occupo l’auto numero 5, il cui autista ha preso talmente alla lettera il fatto che 5 viene dopo 4 da non permettere che fra la nostra auto e quella davanti si frapponga una mosca. La visione che abbiamo di Algeri è un insieme di stampe più che di un film, perché ci muoviamo a scossoni. Fra queste stampe, emozionante e irreale, la visione del porto, che ci appare dietro a una curva e scompare dopo la seguente. Non c’è tempo per fermarsi perché dobbiamo correre dietro la comitiva per vedere, per esempio, Zapatero che fa un omaggio floreale al monumento ai martiri dell’indipendenza. Immagino che lui, sulla Limousine numero 1, abbia la mia stessa visione frammentata della realtà, e mi chiedo se una volta che ci si abitua a vedere la realtà in miniatura, dall’elicottero, o a pezzetti, dall’interno di una Limousine, si possa non cambiare, ma mi pare volgare insistere. Ricordo, però che, dopo aver vinto il 35° Congresso del Psoe, mi parve che osservasse le strade di Madrid, per le quali sicuramente non avrebbe mai più potuto passeggiare come un anonimo cittadino, con una nostalgia infinita. Vale la nostalgia di ciò che siamo stati come antidoto alla durezza di ciò che saremo? Vedendolo salire e scendere dall’elicottero, salutare, camminare, mi sembra che non abbia perso quella goffaggine da adolescente che mostrava quando divenne famoso. Forse quei movimenti sgraziati, di chi non si è ancora abituato alla lunghezza delle sue braccia o delle sue gambe, fanno parte di una strategia. Qualcosa di simile all’insicurezza ostentata dal giocatore professionista di bigliardo per non spaventare l’avversario novellino. Di certo, se riesci a non farti ipnotizzare dalla sua goffaggine e ti concentri sui suoi occhi, ti accorgi che il suo sguardo è calcolatore. Misura continuamente la forza morale dell’avversario, del collaboratore, della sua propria ombra. Una volta fatto questo calcolo, prende la stecca da bigliardo e fa la mossa vincente, che consista nel ritiro delle truppe in Iraq, o nel creare un governo con pari opportunità o nel pronunciare la frase giusta al momento giusto, come quella che gli fece vincere il Congresso del Psoe, dopo i catastrofismi degli avversari: «Non siamo messi poi così male». Finalmente Zapatero riappare sulla porta, sale sulla Limousine e la comitiva parte verso un altro palazzo dove finalmente potrò fare pipì, sedermi, mangiare, nell’ordine. C’è da risolvere un piccolo problema di vestiario: mi sono presentato senza cravatta e con una polo sportiva, non mi è neppure passato per la testa che avrei fatto parte del gruppo invitato a condividere la mensa di Zapatero e Bouteflika. Angelica Rubio, assistente personale dei presidente, mi dice di non preoccuparmi: Zapatero ha sempre una camicia bianca di riserva e me la presterà. La situazione mi ricorda un racconto popolare in cui i medici prescrivono a un re che muore di tristezza di indossare la camicia di un uomo felice. I suoi ministri fanno il giro del mondo cercando un uomo felice, e quando finalmente lo trovano, risulta che non ha una camicia. La camicia di Zapatero laverà senz’altro questa tristezza che mi uccide dall’adolescenza (lentamente, perché oppongo resistenza). Ma, proprio come nel racconto, risulta che Zapatero non ha la camicia di scorta, o l’ha lasciata sull’aereo, così devo accontentarmi di quella di un consigliere dell’Ambasciata spagnola ad Algeri, che comunque non pare nemmeno lui proprio un disgraziato. In sala mi hanno sistemato tra un esperto di terrorismo, che scivola dall’inglese al francese ogni volta che cambia posizione, e un diplomatico canadese che si ostina a rimanere silenzioso [...]. è un tavolo da sei, cinque se non contiamo il canadese, ma restano subito in quattro perché io adotto la stessa strategia e mi dedico a osservare Zapatero, alla destra di Bouteflika. Dalla mia prospettiva i presidenti sembrano mostri a due teste, perché vicinissima a ciascuna, come se uscisse dalle stesse spalle, appare quella dell’interprete. Vedo quattro teste che sostengono un’animata conversazione fra due corpi. Forse è un’allucinazione, ma vedo che Bouteflika ora porta il cucchiaio alla sua bocca ora alla testa di scorta. Dopo esserci alzati da tavola entriamo in un luogo pieno di giornalisti dove Zapatero deve tenere una conferenza stampa. Ci sono tutti meno Zapatero. Mi pare che i suoi siano in preda al panico, nessuno sa dove si trovi. Vedo uscire precipitosamente Angelica Rubio e la seguo astutamente. Nelle dépendance del palazzo, Angelica apre una porta dietro la quale appare una specie di salotto [...]. C’è anche un televisore acceso e una poltrona su cui Rodríguez Zapatero, con una sola testa sulle spalle - per fortuna la sua e non quella dell’interprete - si sta tranquillamente fumando una sigaretta (fuma come un adolescente inesperto, forse con panico, dà l’impressione di non mandar giù il fumo). Quando ci vede entrare, mi strizza un occhio: «Sono qui», dice, «a verificare il livello di colonizzazione della televisione algerina». I collaboratori gli dicono di affrettarsi, Zapatero si alza con espressione ironica e dice qualcosa come «andiamo». Durante il tragitto, Angelica continua a sparargli notizie a raffica, a mano a mano che consulta le ultime notizie attraverso il cellulare. In sala, ogni volta che si prepara a rispondere a una domanda compromettente, Zapatero sembra volersi infilare le mani nelle tasche dei pantaloni, anche se poi non lo fa. Lo spettatore, preoccupato per la destinazione finale di quelle mani, smette di interessarsi ai suoi tentennamenti verbali. Dà, insomma, una dimostrazione gratuita di come la comunicazione non verbale debba coprire le insufficienze di quella verbale [...]. Sono circa le cinque dei pomeriggio e, da lontano, non pare particolarmente sfinito, malgrado il calore, un ricevimento con onori militari, tre o quattro riunioni lunghissime con Bouteflika, un incontro con impresari spagnoli, un omaggio floreale, due o tre sfilate delle truppe, una riunione plenaria (probabilmente non sapete cosa sia, ma immaginatevi il peggio), un pranzo ufficiale con interpreti, una conferenza stampa delicata se teniamo conto che il tema centrale era il Sahara, un congedo di nuovo con gli onori militari. Un paio d’ore dopo la conferenza stampa, a bordo dell’aereo sulla via del ritorno, constato con sollievo che tutti, dopo la giornata sfibrante, hanno i vestiti stropicciati e puzzano di sudore: sono umani senza aver smesso di essere ministri e sottosegretari e direttori generali. [...] Chiedo a Zapatero che voto darebbe alla giornata, e mi risponde che ha portato a casa gli obiettivi prefissati, dunque: distinto. Insisto e gli chiedo per quanto tempo crede che manterrà l’atmosfera gioviale e semiassembleare che si respira in aereo. Sorride di fronte a una battutaccia che in effetti anche a me inizia a sembrare manifestazione di un pregiudizio, e torna a spiegarmi che l’unico aspetto che lo eccita della politica è la possibilità di cambiare le cose, e che quel desiderio di modificare la realtà ce l’ha fin da piccolo. «Da quando vidi, a casa mia, la frustrazione dei miei, non solo perché con la fucilazione del nonno mio padre era rimasto orfano e mia nonna vedova, ma perché erano rimasti senza un Paese». Dà l’impressione che la vicenda del nonno abbia agito davvero sul nipote come antidoto contro l’arroganza, contro gli eccessi dei potere, l’insolenza o la vanità gratuite. Spesso vediamo ciò che è stato programmato per essere visto, ciò che desideriamo vedere, ciò che abbiamo bisogno di vedere per confermare i nostri pregiudizi. Credo di essermi messo fin dall’inizio gli occhiali per vedere in Zapatero l’immagine stereotipata di un politico. [...] Temo di essere vittima di un pregiudizio generazionale, però. Come lo stesso Zapatero ha spiegato tante volte, la sua generazione non ha dovuto lottare per cause forti e il suo linguaggio è la democrazia. Per dirlo con le parole di un amico mio della generazione di Zapatero, «nessuno ha dovuto convincerci che le cinture di sicurezza sono bene e le sigarette male, perché siamo cresciuti in un mondo in cui le verità evidenti si davano per scontate». Decido di abbassare le difese. Mi dico che se non mi vergogno di raccontare le sensazioni che mi provoca l’elicottero, nemmeno mi devo vergognare della vertigine morale che inizia a darmi il personaggio. Ripasso i capitoli più significativi della biografia di Zapatero e penso al Congresso del Psoe di quattro anni fa come all’attacco frontale di una generazione giovane alle linee strategiche di un’altra definita «generazione tampone», a cui appartengo anch’io. Non si può negare che quell’attacco abbia qualcosa di epico: ciò che nei partiti di sinistra è sempre stata chiamata «la maledetta base» ha strappato il potere a un gruppo di gerarchi la cui funzione storica era irripetibile. Il candidato della «maledetta base» si chiamava José Luis Rodríguez Zapatero e da due mesi percorreva la Spagna in autobus convincendo i socialisti che era necessario dare un giro di vite a un partito in stato di depressione storica. Se è vero, penso, che quest’uomo crede a ciò che dice, ho davanti a me, più che un politico nel senso convenzionale del termine, un enigma. Se ascoltassi la mia esperienza, risolverei il dilemma con un moto di scetticismo. Ma siccome non è raro che i pregiudizi si camuffino da esperienza, ascolto il mio desiderio, e mi permetto di dirvi: seguitelo attentamente. Juan José Millás