Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2006  gennaio 12 Giovedì calendario

ZIZOLA

ZIZOLA Francesco Roma 20 dicembre 1962. Fotoreporter. «I volti si fanno strada nel buio, sfondano l’opacità della carta, spessa e pregiata. Sono volti tristi, duri, drammatici, che denunciano un passato, un presente terribili e un futuro senza speranze. Immagini spesso scontornate, dove ogni dettaglio è prezioso, per capire o far intuire una realtà che sprofonda nel buio e che tristemente accomuna foto scattate ai lati opposti del globo. Somewhere in Somalia, Afghanistan, Iraq, Brasile, Indonesia, Sudan, Libia, Kosovo, Cina, Kurdistan, Angola, Stati uniti, Italia, Venezuela, etc, etc. Una faccia della globalizzazione che non lascia spazio alle illusioni. Tante facce delle guerre. Generazioni perdute. Donne e bambini le principali vittime delle guerre e delle miserie che comportano per i poveri mortali. L’obiettivo di Francesco Zizola a volte indugia impietoso su poveri corpi dilaniati dalla fame, dalle mine antipersona, dalle malattie, raggiungendo un alto livello di professionalità, ma senza compiacimenti sulla miseria delle vittime, fino a provocare in chi si sofferma su queste immagini tutta la repulsione che simili atrocità dovrebbero indurre in ogni essere umano. Altre volte l’orrore è più sfumato, come se l’obiettivo si schernisse per pudore. [...]» (Giuliana Sgrena, ”il manifesto” 4/1/2006). «[...] le prime foto - realizzate a proprie spese in Brasile nel ”93 e poi raccolte nel libro Ruas [...] poi, via via, altre tappe, un progetto impossibile che comincia a farsi concreto: gli orfanotrofi del Sud-est asiatico, l’Africa delle bidonville keniote e delle mine antiuomo angolane, che gli fa vincere, primo italiano, il premio per la Foto dell’anno, per un ritratto dei bambini dell’ospedale di Kuito. Nel ”97 Zizola pubblica Sei storie di bambini, prima parziale raccolta delle sue foto sull’infanzia, e infine arriva la proposta di un catalogo più ampio, da parte del prestigioso editore francese Delpire, che lo insegue, tra soste e ripartenze, fino al 2005. ”Alla fine dei 90 ero quasi pronto, le storie mi sembravano abbastanza complete - racconta - ma all’improvviso ho avuto la sensazione che mancasse qualcosa. Queste centinaia di bambini che mi rimandavano il loro sguardo dalle foto mi stavano raccontando qualcos’altro, qualcosa che non riguardava soltanto la loro singola vita e la loro presenza in un luogo specifico. C’erano assonanze e ritmi che facevano emergere con forza le domande che questi bambini ponevano attraverso queste fotografie. Allora bloccai la pubblicazione e, con grande disappunto del mio editore, provai un’altra strada, un libro diverso. Nel tempo che ho impiegato a convincerlo di questo nuovo libro, il nuovo libro è venuto fuori”. Perché raccontare il mondo attraverso i bambini? ”Ho lavorato molti anni come fotoreporter per i giornali, seguendo le hot news, la cronaca onesta che rimaneva sulla superficie delle cose. Ma camminando per le strade mi rendevo conto che chi più assorbiva i problemi, o rifletteva le inquietudini di un futuro incerto, erano i bambini. Nell’89, a Berlino, seguendo la caduta del muro, sono stati i bambini a darmi la percezione che, al di là degli entusiasmi che venivano proiettati sulla caduta, quel crollo avrebbe lasciato un trauma profondo sulle società la cui struttura sociale e economica si disintegrava. Attraverso i bambini si potevano raccontare storie più vere, e la conferma è arrivata col primo lavoro in Brasile: cercavo da loro delle risposte, delle chiavi di lettura del presente, ma loro mi hanno fatto capire che la cosa più importante non è la risposta, è la domanda. Ciò che si può chiedere ai bambini è una domanda, ed è una domanda difficile da ascoltare, perché ci chiama a una corresponsabilità. [...] Se si vogliono ottenere foto di bambini sorridenti, allora fotografarli è facile, perché ai bambini viene naturale interagire con la macchina. Se invece il fotogiornalista non vuole condizionare la scena con la sua presenza, allora sono i soggetti più difficili, perché davanti a loro non si riesce a rendersi invisibile. La questione dell’invisibilità è al centro del mio modo di fare fotogiornalismo: come capacità di cogliere le situazioni per quelle che sono, senza che la presenza dell’operatore ne influenzi in alcun modo lo svolgimento. L’occasione di avere un testimone spesso scatena l’avvenimento : ad esempio, nelle fotografie scattate in Palestina, quando si vedono i ragazzini dell’intifada lanciare pietre ad uso dell’obbiettivo del fotografo, l’immagine è viziata da questa interferenza. Io ho cercato di sviluppare una tecnica di invisibilità per ”assuefazione”, cerco di abituare il soggetto alla macchina fotografica fino a che la sua presenza diventa ininfluente. C’è da aggiungere che in situazioni di alta drammaticità si diventa invisibile per naturale corso dei sentimenti umani. E questo è un altro motivo per cui ai fotografi che seguono realtà drammatiche è spesso permesso di avvicinarci in punta di piedi e di partecipare. [...] In Giappone [...] ho indagato il fenomeno del suicidio di bambini e adolescenti, di cui il Giappone detiene il record mondiale. E lì ho scoperto quanta parte ha nel fenomeno che il particolare sistema scolastico del paese. Avrei potuto continuare, ma ho preferito fermarmi, perché non ho mai avuto l’intenzione di essere esaustivo, ma di offrire degli esempi significativi della condizione dell’infanzia nel mondo. [...] Non credo nell’autocensura, ma bisogna stare attenti a non essere gratuiti e a rispettare il diritto di cronaca senza che questo travalichi la dignità delle persone. La nostra ”presunzione di necessità” della cronaca è già un gesto violento, non bisogna aggiungere violenza a violenza. Io ho fotografato tantissime volte la morte, ma quello che mi interessa è metterla in relazione con la vita: non ho mai lavorato sulla morte tout court, ma ho sempre cercato di calarla nella complessità di un contesto. [...]» (Irene Alison, ”il manifesto” 4/1/2006).