Varie, 12 gennaio 2006
VERGINE
VERGINE Lea (Lea Buoncristiano) Napoli 5 marzo 1936. Critica d’arte • «[...] è una bella donna, piena di fascino, spigolosa ma anche affettuosa. Parla come scrive: ti porge le parole in modo che esista sempre una distanza, mentre il suo eloquio elegante, forbito, persino manierato, pare voler cancellare con le sue aderenze, le sue sinuosità, il medesimo intervallo. La vicinanza è senza dubbio intollerabile, tuttavia il desiderio di contatto, farsi capire e capire l’altro, è per lei assoluto. Aristocratica,ma plebea; napoletana, prima di tutto. La sua città d’origine è il luogo delle contraddizioni, e Lea Vergine lo incarna in un modo perfetto. Ha iniziato il mestiere di critica d’arte giovanissima, a 19 anni, scrivendo per riviste e giornali napoletani, ma non solo. A 23 aveva già organizzato una mostra di Lucio Fontana, per cui scrisse un testo a catalogo che scatenò l’indignazione di Luigi Compagnone: il suo parlare di buchi, scrisse, rivela una perversione sessuale. Lea reagì con un’azione legale. Fiera della propria bellezza e dell’intelligenza, orgogliosa di sé, non le deve essere stato facile attraversare mezzo secolo d’arte italiana, sempre ad alto livello, con interlocutori di primo ordine - Argan, Battisti - e mostre decisive - memorabile ”L’altra metà dell’avanguardia 1910-1940” nel 1980, a Palazzo Reale a Milano. Ha scritto diversi libri, tra cui uno in cui ha raccolto le interviste con personaggi diversi e curiosi, da Cioran a Rossana Rossanda, da Gina Pane a Leonardo Sciascia. S’intitola Gli ultimi eccentrici, ed è del 1990. ”Chi è l’eccentrico? [...] Un fallito. Per esserlo davvero bisogna essere disinteressati, distaccati, eleganti. Saper fermare l’ironia prima che diventi sarcasmo [...] Bisogna essere indipendenti, e io dipendo dagli affetti, dal tabacco, dai farmaci. Mia nonna lo era [...]Una Ruffo di Calabria. La persona che mi ha allevato, insieme con mio nonno”. E sua madre? ”L’ho conosciuta solo a dieci anni. Quando nacqui fui depositata da mio padre presso i nonni. Mia madre veniva considerata una reietta totale. Ma io mi sono sempre considerata figlia di mia madre: cedo all’istinto, all’emotività, a tutto ciò che non si dice, che non si deve provare. Sono cresciuta con il cuore separato, diviso in due parti”. Il modo di presentarsi di Lea Vergine a tratti suggerisce qualcosa di dandystico. Ma l’eccentrico non può essere un dandy? ”Il dandy deve sempre stupire. Come Ruspoli che veniva a Capri con il corvo nero sulla spalla. O il garofano verde di Wilde. L’eccentrico è qualcosa d’altro, un maestro, non un piacevole compagno di gita”. Che studi ha fatto? ”Il liceo classico, poi mi sono iscritta a filosofia; ma ho piantato lì tutto. Volevo scrivere. A 19 anni, nel 1955, mi sono sposata. Vergine è il cognome del mio primo marito. Mi chiamo Buoncristiano. Quando ci siamo separati ho continuato con il suo cognome, ero conosciuta così [...] ho avuto la possibilità di scrivere presto; ero bravina. Ma dall’altro mi contrastavano: è bella, è benestante, è giovane, scrive d’arte, ma perché non fa qualcosa d’altro nella vita? Una volta ho fatto una conferenza all’Accademia di Belle Arti sui giovani artisti, dall’astrattismo all’informale. Paolo Ricci scrisse sull’Unità che la gente era venuta numerosa non per l’argomento ma perché c’era il tavolo aperto: era lì per le mie belle gambe. Lo citai in giudizio, e il giudice mi disse: ”Si alzi e si metta con le gambe dritte; e adesso si giri. No, non c’è niente di speciale in queste gambe’. E così vinsi. Era il 1960, mi sembra [...] Quando si è giovani si è intolleranti, si pretende, si afferma, si enuncia. Intorno ai trenta ho cominciato a capire i miei difetti[...]”. Lea Vergine ha seguito da critica militante in successione due linee artistiche del secondo Novecento, antitetiche e opposte: l’arte programmata e cinetica, e quindi la body art. La prima esprime le istanze razionali. L’altra è tutto il contrario: il corpo come luogo dello scatenarsi delle forze irrazionali. Come è stato possibile che lei abbia coltivato entrambe? ”Su di me ha avuto grande influenza Argan. Era infatuato dell’arte programmata, in funzione anti-pop. La vedeva come un ponte tra il Bauhaus e il contemporaneo. Non capiva nulla delle singole opere, ma era straordinario: un filosofo, uno scrittore prestato all’arte. stato lui a farmi conoscere Enzo Mari, che poi ho sposato. Verso la metà degli Anni Sessanta. Volevo fare una rivista, Linea struttura. E Argan mi disse: ”Ho l’uomo che fa per lei, le farà la grafica”. Negli ultimi anni della sua vita voleva che gli dessi del tu, che lo chiamassi per nome, ma non ci riuscivo. Una volta mi ha anche detto: ”Non le avrò fatto fare delle sciocchezze nella vita?’”. E la body art? ”Per Enzo mi sono spostata a vivere aMilano, lasciando Napoli. Ho avuto modo di vivere il Sessantotto in modo conflittuale, avevo già 30 anni. Così in quegli anni ho fatto una mostra alla Galleria Milano. S’intitolava ”Irritarte’. Questo è stato l’inizio. Ci misi dentro una serie di mostruosità, delle schifezze, o che allora venivano ritenute tali. In quel periodo Marco Ferreri mi voleva come attrice per un suo film.Non accettai, ma gli dedicai la mostra”. [...] sostiene che quella prima mostra è stata una reazione alla politica, al rapporto problematico tra arte e politica: ”Era una risposta, una reazione, un’apertura sull’umano. Cadevano i primi pezzi dell’usbergo [...] Forse sono attratta dalla disarmonia. Avessi un metodo! Quando sento la parola ”strategie’, provo schifo; ma se sento ”metodo’, allora penso che lì si nasconda una pace, un empireo. Il mio problema è di non stare ad auscultarmi tutto il tempo, tutta la notte [...] Forse, nella vita, mi ha salvato l’istinto plebeo di mia madre, una forza vitalistica che si nega a ogni decenza, a ogni condizionamento [...] Burri, Vedova, Fontana, già vecchi per me, erano belli; così anche Festa, Schifano, Mario Merz, Castellani, di 5 o 6 anni più di me. Portavano in giro la bellezza. Poi tutto è cambiato. Oggi sono tutti mediamente bravi, mediamente belli. Nessuno sembra più avere la maestà dell’orrore. [...] Una volta Enzo mi ha detto: ”Sei troppo. Vestiti di marrone scuro’. Mi ha disegnato un vestito e io, come una monaca, l’ho portato per un anno intero” [...]» (’La Stampa” 28/12/2005).