Pierluigi Battista La Stampa, 29/09/2004, 29 settembre 2004
Colletti, filosofo del disincanto, scelse di «ingaglioffirsi» sui divani del Transatlantico, La Stampa, 29/09/2004 I giornalisti parlamentari si divertivano con lui
Colletti, filosofo del disincanto, scelse di «ingaglioffirsi» sui divani del Transatlantico, La Stampa, 29/09/2004 I giornalisti parlamentari si divertivano con lui. E lui, Lucio Colletti, sembrava compiacersi dei suoi stessi fuochi d’artificio in cui la battuta sarcastica, il motto mordace, la sentenza caustica camuffavano malamente l’amarezza dell’ennesima delusione, regolarmente interpretata dai cronisti come una presa di distanze dal suo schieramento da parte del professore voluto dal «Berlusca» (lo chiamava solo così) sui banchi della Camera. Ma Colletti aveva preso quei divani del Transatlantico come le bettole di San Casciano per il Machiavelli costretto all’esilio: un luogo in cui volontariamente «ingaglioffirsi», lontano dal mondo togato dei classici e degli studi. Una manifestazione di estremo disincanto autodistruttivo di un intellettuale che del disincanto filosofico era stato maestro e (suo malgrado) profeta. Oggi il filosofo scomparso tre anni fa, e a cui la casa editrice Ideazione dedica un monumento biografico e intellettuale a cura di Pino Bongiorno e Aldo G. Ricci, può essere finalmente restituito al suo ruolo particolarissimo nella storia culturale italiana. Riportato al «collettismo» metodologico ed esistenziale che distillò nella sinistra come nella destra. A quella lezione di anti-ideologismo radicale, di chiarezza teorica insofferente delle formule elettrizzanti e autoconsolatorie che è stata la cifra vera di Lucio Colletti. Protagonista di una minoranza culturale che per vie sotterranee si ritrova al di là degli schieramenti politici in cui il collettismo (raramente) ha fruttificato. Un maestro della demolizione dei luoghi comuni e del conformismo dominante. Per guadagnarsi un posto nel Pantheon dei padri della patria filosofica occorre mettersi in sintonia profonda con lo spirito di una comunità. Ma lo stile mentale di Colletti si esaltava piuttosto nella pars destruens del discorso, nella denuncia delle falle e delle aporie della vacillante argomentazione altrui. Allievo del Galvano Della Volpe feroce antagonista della versione scolastico-umanistica del marxismo, Colletti, giusto trent’anni fa, uscì fragorosamente dall’orbita marxista con la sua Intervista politico-filosofica, pubblicata da Laterza nel 1974, dopo aver demolito mattone per mattone il sontuoso ma intimamente fragile edificio concettuale che pretendeva di conferire al marxismo uno statuto scientifico. Il marxismo ne usciva a pezzi, e a pezzi ne uscirono tanti suoi studenti che si erano abbeverati alla lezione collettiana nelle aule dell’Università di Roma e che ora, se volevano restare collettiani, non potevano che condividerne l’uscita dalla casa madre, senza la possibilità di incontrare più nessun’altra appartenenza filosofica. Forse politica, ma non politico-filosofica. Paolo Flores d’Arcais (che era uno dei giovani dioscuri della cattedra romana di Colletti, l’altro era Tito Magri) compirà in seguito un percorso politico diametralmente opposto a quello del maestro. Ma, sul piano filosofico, basta leggere un qualunque fascicolo della sua rivista ”MicroMega” dedicato alla filosofia redatto assieme a un altro collettiano doc come Angelo Bolaffi, oppure la predilezione di Flores per una esponente di punta del pensiero anti-totalitario come Hannah Arendt, per accorgersi che l’aura di disincanto è la stessa che si respirava nelle stanze fumose ma intellettualmente trasparenti di Lucio Colletti. Bongiorno e Aldo G. Ricci raccontano bene come l’itinerario filosofico di Colletti abbia condotto alla teorizzazione disperata della «fine della filosofia». Un disincanto estremo, che spiega anche come mai Colletti, per questo criticatissimo dai suoi colleghi di accademia, abbia scritto pochissimo di filosofia dopo quell’Intervista che aveva segnato un punto di non ritorno nella sua stessa esistenza umana, intellettuale e politica. L’uscita dal marxismo coincideva anche necessariamente con l’uscita dal comunismo. Con una differenza: che se l’addio al marxismo non è mai approdato a una forma di antimarxismo militante («studiate il Capitale, come da sempre vi invita a fare Alberto Ronchey, inascoltato dagli stessi comunisti», era l’esortazione di Colletti fino alla fine dei suoi giorni), l’addio al comunismo divenne subito la base di un radicale e intransigente anticomunismo di stampo liberale. Però Colletti, forse anche a causa del suo corrosivo snobismo, non volle mai mischiarsi con gli intellettuali che in Francia avevano voltato le spalle alla Chiesa comunista dopo la lettura sconvolgente dell’Arcipelago Gulag. Chiamato da Valerio Riva in una tavola rotonda de ”L’espresso” coi nouveaux philosophes Bernard-Henri Lévy e André Glucksmann, Colletti non fece altro che marcare il dissenso con i giovani e baldanzosi ex sessantottini francesi. Non nascose le sue simpatie per il nuovo autonomismo socialista di Bettino Craxi come base per la costruzione di una cultura di sinistra ma non comunista, progressista ma non marxista, e collaborò volentieri al cenacolo «revisionista» di ”Mondoperaio”, dove intrecciava discussioni con Giuliano Amato, Luciano Cafagna e Ernesto Galli della Loggia. Ma nel 1988, come riferiscono Bongiorno e Ricci, non lesinò commenti sferzanti allo «stato deplorevole» in cui versava il Psi, «una vecchia e maleodorante carretta, dedita alla piaggeria e povera di cultura». Negli Anni Settanta, il suo anti-ideologismo ebbe il destino di incontrarsi anche con il pragmatismo laico di Ugo La Malfa. Anzi, sebbene la circostanza non sia stata mai rivelata, fu proprio il La Malfa della «solidarietà nazionale» con il Pci a trovare nella conversazione con Colletti, auspice un amico e sodale culturale di entrambi come Ronchey, una stanza di compensazione in cui la ferrea cultura anticomunista di La Malfa poteva ritemprarsi in un libero e informale sfogo.Furono anni di solitudine culturale per Colletti, che amava frequentare quei pochi intellettuali e giornalisti, da Ronchey a Enzo Bettiza, da Gilmo Arnaldi a Rosario Romeo, da Renato Mieli a Renzo De Felice, che non condividevano l’attrazione dominante del ceto dei colti nei confronti dell’allora trionfante Pci. Aveva trovato ne ”L’espresso” di Livio Zanetti (e la scelta di Zanetti suonava come implicita polemica con la direzione di marcia culturale impressa da Eugenio Scalfari) una tribuna per i suoi interventi, incontrando nelle stanze del settimanale di via Po la collaborazione di Paolo Mieli, matrice di un sodalizio che si prolungherà fin nelle pagine del ”Corriere della Sera”. Colletti, maestro distruttore, destabilizzatore, devastatore, trovò amichevole udienza in Giuliano Ferrara, la cui uscita dal Pci coincise con la riscoperta di un vecchio amore filosofico per Leo Strauss, ma Colletti ammoniva che non era possibile, di fronte al soggettivismo relativistico della modernità, abbracciare una filosofia, come quella straussiana, desiderosa di «restaurare le condizioni antiche». Nel suo itinerario liberale incontrò anche Marcello Pera, ma due cose lo dividevano dall’attuale presidente del Senato: il disamore per Popper, una bestemmia per il popperiano Pera, e un rapporto distruttivo con la politica, anche questo molto diverso da quello coltivato da Pera. Colletti era un maestro, ma un maestro della distruzione. E così come De Felice ha rivoluzionato il modo di fare storia del fascismo, anche se la scuola defeliciana è apparsa tutt’altro che compatta, Colletti ha contagiato con il suo «collettismo» filosofico una discepolanza fatta di scetticismo, di allergia anti-ideologica. Di disincanto, appunto. Oggi, a tre anni dalla morte, si può cominciare a rileggere quel Colletti provocatorio e pungente che davanti a un platea di allibiti ex dissidenti dell’Est comunista, invitati nel ’91 a Napoli in un convegno organizzato da Vittorio Strada, si produsse in un inusitato elogio filosofico del Lenin di Materialismo ed empiriocriticismo. Colletti era già sospinto verso lo schieramento berlusconiano, che non fu un «oscuramento» morale del Colletti precedente - come scrisse con lo stupore del vecchio compagno tradito Nello Ajello su ”Repubblica” dopo la morte del filosofo -, ma l’ultimo capitolo di una elaborazione politica che non doveva necessariamente coincidere con il rigore delle scelte filosofiche. Il Colletti filosofo del disincanto e dello scetticismo, quello delle lezioni su Kant e Hegel pronunciate a braccio e senza appunti nelle aule di filosofia, è ancora tutto da riscoprire. Pierluigi Battista