Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2004  settembre 30 Giovedì calendario

Gli occhi acuminati di Faletti nei meandri della città dolente, Corriere della Sera magazine, 30/09/2004 Due anni sono passati dall’ultima volta che avevo visto Giorgio Faletti

Gli occhi acuminati di Faletti nei meandri della città dolente, Corriere della Sera magazine, 30/09/2004 Due anni sono passati dall’ultima volta che avevo visto Giorgio Faletti. Nel frattempo è diventato uno degli scrittori più venduti d’Italia. Allora l’incontro avvenne in una camera d’ospedale a Niguarda, in un’atmosfera da medici in prima linea. Faletti aveva appena avuto un coccolone che quasi se lo portava via. Con uno dei suoi strani giochi, il destino gli aveva teso un agguato proprio nei giorni che usciva Io uccido, il primo romanzo del comico di Asti, eroe tv all’epoca di ”Drive in” con il personaggio del vigilantes Vito Catozzo, vincitore morale di un festival di Sanremo con il rap antimafia Signor tenente. Fu in quell’occasione che nacque la scommessa (roba da associazione a delinquere). Sbattere il neoromanziere sulla copertina del magazine del ”Corriere” con il titolo: «Non ci crederete ma quest’uomo è il più grande scrittore italiano». Fu un azzardo ma Faletti ne uscì trionfatore. Il libro ha venduto, a tutt’oggi, un milione e trecentomila copie e sta per uscire la traduzione cinese da Shanghai Express. Faletti è ormai il re riconosciuto del thriller high-tech, prodotto tipicamente anglosassone, all’italiana. Come fece Sergio Leone con gli spaghetti western, sta insegnando agli americani il loro mestiere. Due anni dopo ci rivediamo all’Elba. Tutt’altro contesto dalla emergency room di Niguarda. L’appuntamento è in un albergo sulla baia di Porto Azzurro. Faletti arriva puntuale. Ha un anonimo fuoristrada grigio, un berretto blu con visiera e scritta ”Department of Defense Pentagon” («lo comprai prima dei fatti»), il pizzo bianco e una notevole somiglianza, non si capisce quanto voluta, con Anthony Hopkins, il dottor Lecter. Ha perso un po’ di capelli e è leggermente ingrassato (nonostante la maglietta blu strategicamente svasata). L’insieme è quello di uno che vive a Capoliveri e non più a Milano, beato lui. Nel mondo dell’editoria esiste una sindrome che non si capisce se dipende da una tradizione, da un serio studio statistico, da una semplice superstizione o da una insuperabile maledizione. Si chiama sindrome del secondo libro e funziona così: se al debutto narrativo hai successo, il romanzo seguente sarà un flop. C’è poco da fare. L’unico rimedio escogitato dopo decenni di studi dai santoni dell’editoria è quello di bypassare il secondo libro e scrivere direttamente il terzo, un po’ come succede negli alberghi quando dalla camera numero 16 si salta, a scanso di equivoci, alla 18, dimenticandosi della 17. Le bozze del Faletti 2 sono poggiate sul tavolo dove è stato scritto. Ci siamo trasferiti, per fare qualche chiacchiera e qualche foto, nella sua casa sulla collina di Capoliveri. Più che una casa, è un cantiere a cielo aperto che si protrae da mesi malgrado gli sforzi della moglie di Faletti, Roberta, che pure è architetto. Uno si aspetta che un autore di best seller eserciti il suo mestiere dentro una stanza con tutti i comfort, musiche di sottofondo e luci soffuse. Per non parlare, come accadeva a Simenon alla fine dell’impresa romanzesca, di bottiglie di champagne e ragazze seminude che ti aspettano in una accogliente limousine. Dimenticate tutto questo. Faletti ha scritto il suo secondo libro nell’unica stanza agibile, che fa da studio, cucina, tinello e palestra. Arredamento: qualche sedia, un tavolo con il computer e una panca gravitazionale, sorta di memento del mal di schiena, malattia professionale dei bestselleristi. L’unica sciccheria da scrittore è il paesaggio dietro la vetrata: un giardino con gli ulivi e il mare. «Certe sere d’inverno vedi la Corsica e puoi distinguere i fari delle macchine che si inerpicano lungo i tornanti». Qui, in un anno di lavoro, tra calcinacci e martelli pneumatici, Faletti ha scritto le 500 pagine di Niente di vero tranne gli occhi. «Come per Io uccido, sono partito dal titolo. Ho acceso il computer e mi è tornato in mente quel titolo. L’avevo inventato per un regista che conoscevo e che stava girando il seguito del film Sotto il vestito niente, ma poi lui aveva optato con enorme fantasia per Sotto il vestito niente 2. Il titolo rimase a me. Non si butta via mai niente, il mestiere è come il maiale, diciamo noi cabarettisti. Ci sono titoli che sono titoli di canzoni, come Vita quotidiana di uno spettro o La regola del filo a piombo. Niente di vero tranne gli occhi, l’ho capito subito, non era una canzone. Una canzone è un colpo di fulmine. In Niente di vero tranne gli occhi invece c’era un lunghissimo filo da srotolare, giorni e giorni davanti al computer e i fari delle macchine sui tornanti della Corsica da guardare quando ti manca la parola giusta». Rivediamo la scena. Faletti seduto al tavolo che scrive le trentuno battute del titolo. Poi va a capo e comincia... «No, non comincio niente. Dopo aver scritto il titolo e deciso che andava bene, sono andato a letto». Subito una crisi, la sindrome del secondo libro che colpisce ancora? «No, è il mio modo di lavorare, mi stendo sul letto, chiudo gli occhi e nel dormiveglia mi vedo, come in un film, il capitolo da scrivere. Successe la stessa cosa con Io uccido, vidi subito il killer in azione, lo guardai in faccia». Stavolta Faletti ha visto un pittore d’avanguardia mentre dipinge il suo ultimo quadro con la sua personalissima tecnica che consiste nello scopare una ragazza, una sua fan, preventivamente cosparsa di vernice fresca, su una enorme tela poggiata sul pavimento dello studio. Completata l’opera, l’estroso pittore, un tipino perverso, manda a quel paese la modella e aspetta l’arrivo del suo mercante con la dose quotidiana di droga. Invece del pusher arriva un misterioso assassino che uccide il pittore e dispone teatralmente il cadavere in modo che somigli a Linus, il tenero e nevrotico personaggio dei fumetti di Schulz. Il fantasioso assassino lascia poi sulla scena del delitto un messaggio che indica la prossima vittima in Lucy, la sorella di Linus. Scatta una caccia in grande stile al maniaco anche perché il pittore è il figlio del sindaco di New York. Qui Faletti si è assopito sull’immagine di una bella donna (Maureen Martini), figlia di un celebre ristoratore italiano e di una potente avvocatessa newyorchese, che di mestiere fa il commissario di polizia a Roma e che è diventata cieca (gli occhi del titolo sono i suoi), dopo essere stata violentata e malmenata da un boss della mala albanese e che ha lo strano potere di ricordare ricordi di altri... Ma ormai Faletti sta dormendo un sonno di sicuro popolato da incubi. («Niente affatto, dopo essermi proiettato il film, faccio dei torridi sogni erotici in cui sono il portentoso protagonista»). La mattina seguente lo scrittore si è alzato e ha copiato sul computer il film dell’uccisione del pittore. «Dopo il boom di Io uccido, un pochino di apprensione ce l’avevo. Anzi, parecchia. Riprendere a scrivere è stato come spostare macigni. Io dico che scrivere è come andare in palestra. A sollevare pesi ti rompi le palle. Ci vuole molta autodisciplina. E poi anche scrivere produce una forma di acido lattico. Mentale. Stai male. Io non pensavo di avere questa autodisciplina. Forse si deve al fatto che mi sono dato alla scrittura in età matura. Come amo dire: uno comincia a dare buoni consigli quando non ha più il fisico per dare cattivi esempi». A vederlo ora, che è il ritratto di un soddisfatto e leggermente inquartato cinquantaquattrenne ritiratosi all’Elba, che si rivolge alla moglie con formule di quasi settecentesca cortesia («Robi, posso chiederti una gentilezza gentile, mi porti il giubbetto, quello senza maniche»), che la mattina fa colazione al bar di Angelica nella piazzetta di Capoliveri e compra il pane nel forno di Pierana, accolto ogni volta dalla frase tormentone che introduce il fatto del giorno («Giorgio, la gente sono impazzite»), nessuno direbbe che Faletti è stato un fegataccio, un tipo inquieto. Invece. Invece, è stato pilota di rally (nella squadra ufficiale della grande Lancia), ha preso lezioni di elicottero («ma delfinavo troppo»), ha scorrazzato all’imbrunire in sella a moto enduro su spiagge dalle dune sabbiose, in un suo personale Camel Trophy, fino a quando quasi tranciò di netto due ragazzi che si scambiavano tenerezze («Li vidi all’ultimo istante, non so come li evitai. Non sono più salito su una enduro»), ha sfrecciato sulla Milano-Asti a bordo della sua Ferrari Testarossa per stabilire il record casello casello («Venti minuti; scesi dalla macchina che ero fradicio di sudore, mi buttai sul letto ma il rigurgito di adrenalina mi fece tremare tutta la notte»). Non proprio una biografia da scrittore italiano tipico questa. Lo scrittore italiano tipico non distingue una Thesis da una Cayenne (come fa Faletti assegnando a ogni personaggio del romanzo la giusta vettura secondo temperamento e censo), lo scrittore italiano tipico non sa che l’orologio adatto a un avvocato newyorchese di una certa età con studio legale avviatissimo non può essere che un Rolex ”Stelline”. (Forse anche per questo, e l’argomento potrebbe essere decisivo, lo scrittore italiano tipico non campa del proprio mestiere come fa Faletti). E lo scrittore italiano tipico non avrebbe mai la faccia tosta di Faletti che ha ambientato Niente di vero tranne gli occhi a New York, una città dove non aveva mai messo piede prima del sopralluogo di due mesi seguito alla decisione di farne la location della storia. Perché New York? «Perché cercavo una città dolente e New York oggi lo è. Perché avevo voglia di mangiare all’Oyster Bar. Perché volevo abitare vicino alla Grand Central Station e ripensare a tutti i film ai quali ha fatto da set. Perché so a memoria il monologo della 25esima ora di Spike Lee, quello in cui se la prende con tutti gli abitanti della città, dai pakistani con i turbanti agli ebrei con i cappelli neri. E perché, te lo dico papale papale, volevo strizzare l’occhio al mercato. Non bisogna mai dimenticare che la mia è letteratura di genere e l’America è la sua patria». Si rischia grosso (forse più che fare Asti-Milano casello casello in venti minuti su una Testarossa) a sfidare i maestri yankee in casa loro. Il diario del soggiorno americano di Faletti annota fatti apparentemente banali. Primo giorno: «Allucinante corsa in taxi con il conducente, presumibilmente indiano, che ha appena fatto una scorpacciata di aglio. Porca miseria, abbiamo dovuto viaggiare tutto il tempo sporti dal finestrino. E faceva un freddo cane». Secondo giorno: «Conosciuto un ristoratore italiano che si vergogna di dover mettere la panna nel ragù e che è sposato con una ginecologa del Samaritan Hospital. Simpaticissimi». Terzo giorno: «Cena ad Albany con degustazione di vini del Sudafrica. Che tipi questi americani! Gli uomini sono arrivati tutti in tenuta da safari, le donne in abiti leopardati. Uno stile ”Me Tarzan, you Jane”». Quarto giorno: «Visita a Ground Zero. Mi sono appuntato una frase che metterò nel romanzo: ”Per la prima volta i riflettori non servivano per mostrare quello che c’era, ma per ricordare quello che non c’era più”». Quinto giorno: «Andati al Metropolitan. Appena entrati, Robi si è messa a correre come attirata da un magnete, l’ho seguita anche io, ci siamo fermati ansimanti davanti alla ”Zattera della Medusa” di Géricault qui in prestito. L’abbiamo fissata per un tempo infinito. Sarebbe bello che il libro trasmettesse la sensazione che oggi nel mondo siamo tutti passeggeri di quella zattera». Sesto giorno: «Saliti sull’Empire State Building. Sceso, mi sono precipitato al molo e mi sono seduto. New York preferisco vedermela da qui». Settimo giorno: «Atroce mal di schiena. Sarà stata l’umidità al molo o le ore in coda all’Empire? Ma soprattutto che ci faccio in un albergo tra Madison e la 48esima?». Ottavo giorno: «Le fate esistono. Ne ho incontrata una. Si chiama Victoria Smith, è deliziosa e, soprattutto, chiropratica. La mia schiena non è più a pezzi. New York a noi due! ». Da questi appunti in apparenza banali Faletti ha costruito il suo libro. Géricault è diventato Jerry Kho, il pittore assassinato. La visita a Ground Zero ha ispirato questo pensiero di Maureen: «Lei che aveva passato la sua vita a cavallo fra l’Italia e gli Stati Uniti, riusciva a capire l’entusiasmo di Connor per Roma. Lì, a ogni passo, si respirava il profumo di quello che gli americani avevano con ostinazione cercato di costruirsi: un passato. Nessuno aveva considerato che il passato non si può costruire a proprio piacimento ma a volte viene imposto da fatti estranei a qualunque volontà. Ora, purtroppo per loro, chiunque si trovasse davanti alle rovine di Ground Zero poteva capire come ci si sentisse passando di fianco a quello che restava del Colosseo. Rovine. Solo rovine. E il ricordo del dolore che a poco a poco sbiadiva e le rendeva immagini da cartolina». Così Faletti ha fotografato lo stato d’animo, forse l’anima, dell’America e della New York di oggi. Dall’11 Settembre, l’America, forever young per definizione, costituzione e ideologia, ha cominciato a invecchiare, a riempirsi di rughe, ad avere un passato. L’America è invecchiata. Ed è stata oltraggiata. E per dirlo Faletti ha avuto la strana, geniale, idea di fare dei ”Peanuts”, di Charlie Brown & company, le vittime metaforiche. Nel libro Linus, Lucy, Snoopy vengono uccisi in serie. una nuova strage degli innocenti. Viene da pensare che Faletti ha scelto Charlie Brown e compagni perché sono uno dei simboli dell’innocenza americana, una innocenza violata per sempre. «Ho pensato ai Peanuts perché amo i fumetti e perché sono una cosa eminentemente americana. Ma anche perché nelle strisce di Schulz non compare mai un adulto. Al massimo la ruota posteriore della bicicletta della mamma di uno dei ragazzini. Per il resto, onestamente non lo so perché l’ho fatto». [...] [Il thriller] è crudele e pretende tributi di sangue, sacrifici umani. Giorgio Scerbanenco, scrittore milanese di origine ucraina, che fu uno dei primi giallisti italiani (tendenza scuola dei duri), all’ora dell’aperitivo serale diceva agli amici al bar: «Oggi ne ho ammazzati tredici». Faletti fa qualcosa di simile al bar di Angelica, nella piazzetta di Capoliveri, dove ci siamo spostati a bere un Crodino (lui): «Chandelle Stuart l’ho ammazzata con gusto e ho anche infierito sul cadavere. Era proprio insopportabile. Uno di quei tipi sempre con un leggero velo di sudore addosso». Chandelle è uno dei personaggi più riusciti del romanzo: miliardaria sessualmente perversa, la sua passione è di farsi violentare da branchi di sconosciuti mentre un poliziotto privato la scorta di nascosto, pronto a intervenire in caso di eccesso. Con tocco falettiano, si scopre che il poliziotto era perdutamente innamorato della pazza assatanata. «Solo il male ha una fantasia senza limiti», si legge verso la fine del romanzo. Nel mondo d’oggi è una verità che vale più per la realtà che per la fiction. Ma scrivere di ammazzamenti in un contesto del genere, e guadagnarci anche, non crea problemi di ordine morale? Faletti vuota l’ultimo goccio di Crodino prima di rispondere: «No. La letteratura di genere, il thriller nel nostro caso, è in qualche modo sempre un po’ sopra le righe. Nelle descrizioni della morte c’è un briciolo di epica, c’è un nefando romanticismo che nella realtà non c’è mai». Una volta si chiamava catarsi. Eugenio Scalfari ha osservato di recente che oggi ci si rilassa vedendo telefilm pieni di morti ammazzati mentre ci si turba e inquieta guardando la fìnale di Miss Italia. La gente sono impazzite. La conversazione continua a cena da Pilade, un altro dei posti di Faletti all’Elba. Mentre ordiniamo gli chiedo che differenza c’è tra Io uccido e Niente di vero. «Una differenza speculare, di struttura, filosofica si potrebbe dire. Io uccido era basato sulla psicopatia di un assassino, questo invece è basato sull’estremo degrado e l’estrema perversione delle vittime». Non si salva nessuno nel mondo secondo Faletti. Che però ha uno scrupolo, che lo deve tormentare dall’inizio dell’intervista: «Sto parlando da scrittore, come se fossi onnisciente, in realtà molte cose trascendono le intenzioni, sono occasionali, ti arrivano, le trovi per caso». E non si butta via mai niente, come il maiale. Sei stato a casa di Gigliola Cinquetti a Roma, una casa magica, dove la sera puoi mangiare in terrazza guardando il Colosseo e quasi lo tocchi se allunghi un braccio? Ecco che ne fai l’abitazione romana di Maureen. Circola su di te, autore di Io uccido, una leggenda metropolitana secondo la quale non l’hai scritto tu? Ecco che la scarichi sul personaggio dello scrittore Alistair J. Campbell, diventato famoso con un romanzo rubato a un amico morto. Intanto, da Pilade, siamo arrivati al secondo (calamari delle dimensioni di quello gigantesco di Ventimila leghe sotto i mari, a confronto dei quali quelli che servono a Milano sembrano bianchetti), e Faletti avanza un’altra preoccupazione: «Non farmi fare la figura dello scrittore che guarda il mare, guarda talmente il mare che poi scrive stronzate». La vera preoccupazione è quella dell’intervistatore che si chiede come fare a rendere le mille sfaccettature del personaggio e dell’uomo Faletti. Il romantico poeta della Canzone della donna che voleva essere marinaio e il cabarettista che, al momento del sorbetto, si lancia in un mini show per il divertimento degli astanti: «Lo sapevate che i Pooh si sono sottoposti a tanti di quei lifting che con la pelle avanzata hanno fatto un bambino di sei anni?». L’uomo che oggi pomeriggio in giardino parlava all’orecchio del vecchio gatto Rufus e il ragazzaccio che confessa: «Come mi fa ridere una scoreggia, non mi fa ridere niente». Lo scrittore che inscena una gag sulla faccia dell’editore quando ha letto le due scene di pompini di Niente di vero (una, tra due uomini, di particolare trucidezza, l’altra addirittura mortale) e la persona che confida: «Tutto quello che faccio, lo faccio per star bene con me stesso. Sembra una frase fatta ma è così. Io sto qui, in questa isola meravigliosa e sto bene. Come quello della pubblicità che beveva la Fanta ed era felice». Faletti, ci faccia una gentilezza gentile, risponda alla domanda: lei chi è davvero? «Io sono due fotografie che non possiedo più. In una avevo una decina d’anni, era il giorno di Natale e ballavo, sull’aia della fattoria dei miei zii, un valzer con mia nonna. Nell’altra avrò avuto tre, quattro anni e stavo con le gambe accavallate e una sigaretta in mano». Romantico ballerino, impunito scugnizzo. Si è fatto tardi. Pilade chiude i battenti. « ora di andare a letto», dice Faletti. Hai in mente di scrivere qualcosa stanotte nel dormiveglia? «No, stanotte ho in programma solo sogni erotici». Mi disse una volta un vecchio guru dell’editoria: «C’è un test infallibile per capire come è fatta davvero una persona. Fagli scrivere un libro, fagli vendere quarantamila copie. Superata quella cifra, di solito diventano tutti stronzi». Un milione e trecentomila copie dopo, Faletti non è ancora uno stronzo. E anche il suo secondo libro, alla faccia della sindrome, si merita una copertina. Antonio D’Orrico