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 2004  settembre 30 Giovedì calendario

Ascesa e caduta della Thatcher (nel giro di tre whisky), Vanity Fair, 30/09/2004  assolutamente provato: mentre muori ti passa davanti tutta la tua vita nel tempo di tre whisky & soda

Ascesa e caduta della Thatcher (nel giro di tre whisky), Vanity Fair, 30/09/2004  assolutamente provato: mentre muori ti passa davanti tutta la tua vita nel tempo di tre whisky & soda. Questo, stando ai ricordi che Margaret Thatcher ha della sera in cui morì. Era il 20 novembre del 1990. La città, incongruamente, era Parigi. Il luogo, una camera nello scantinato dell’ambasciata inglese. Cynthia Crawford, detta Crawfie, l’assistente di sempre, bussò alla porta prima di coricarsi. «Tutto bene?», domandò. Margaret Thatcher aveva abbassato le difese. Si era tolta le scarpe coi tacchi che le concedevano una statura, aveva raccolto le gambe sul divano, guardava nel vuoto e aveva gli occhi rossi. Rispose che niente andava bene, in realtà. «Posso fare qualcosa?», si preoccupò Crawfie. «Sì, compagnia». Non era un ordine, era una richiesta. La seconda fu: «Prepara i soliti whisky & soda. Lo sai che non si può bere gin & tonic di notte. Il whisky ti dà energia per stare su». La prima volta che aveva sentito quella frase era stata una notte d’aprile di otto anni prima. C’era la guerra con l’Argentina in un arcipelago lontano chiamato Falkland o Malvinas (i nomi, come la storia, li fanno i vincitori). Di notte, Maggie & Crawfie sedevano insieme sul pavimento della camera da letto al 10 di Downing street ad ascoltare il notiziario della Bbc. Il «primo marito» Denis beveva e poi russava in un’altra stanza. Il primo ministro se la prendeva con la malafede dei giornalisti, con i laburisti, i pacifisti, Ronald Reagan. Reggeva benissimo l’alcol e il sonno. Avrebbe vinto lei. Quella sera del ’90, invece, aveva perso. Mentre le passava il primo bicchiere, Crawfie capì che non avrebbero dormito affatto, sarebbero rimaste lì tutta la notte come due vedove inconsolate a rievocare perduti amori, tradimenti e mascoline viltà. «Alla salute!». I bicchieri tintinnarono. Tutto era crollato, Maggie non aveva un capello fuori posto. L’aveva trovata così, apparentemente inossidabile, già al risveglio. Si aggirava nell’ambasciata elegante e nervosa. A Parigi, fosse stato per lei, non sarebbe venuta. La prima volta c’era stata in viaggio di nozze, nel dicembre del 1951. Era, anche, il suo primo viaggio fuori dall’Inghilterra. Denis l’aveva trascinata per vigne portoghesi e poi a Parigi: champagne! In quel novembre del ’90 ci era tornata da sola, primo ministro al bivio dopo undici anni. In casa era sotto scacco: il suo partito aveva deciso di metterne ai voti la leadership. Ma non poteva rinunciare a quella trasferta. Doveva farlo per mettere un autografo sul libro della storia. Era lì per partecipare a una conferenza di tre giorni che avrebbe sancito formalmente la fine della Guerra Fredda e l’inizio di un’età di pace. Di fatto, un summit con qualche illuso e molti illusionisti: erano presenti Mitterrand, Gorbaciov e Bush padre. Maggie non poteva mancare. Restare in Inghilterra per elemosinare i voti necessari contro un qualunque Michael Heseltine sarebbe sembrato uno sgarbo alla grandezza della sua missione compiuta. Partì. Salutando Denis che restava, Crawfie disse: «Speriamo di tornare da Parigi e trovare il voto che ci aspettiamo». Lui, riferirà la figlia nella sua biografia, sollevò un grosso contenitore di gin e disse: «Ce l’ha in pugno». Aveva, ormai, una visione confusa. La matematica diceva che per essere confermata al primo turno di votazioni le servivano almeno 220 voti. Non ci sarebbe stato domani: arrivare al secondo turno sarebbe già stata una sconfitta per chi aveva fatto dell’indiscussa autorità il proprio marchio. Lei (così almeno riteneva) aveva portato la libertà e la democrazia nell’Europa orientale. Adesso doveva accettarne uno dei principi più semplici: governa chi i voti ottiene. Il risultato sarebbe stato annunciato nel tardo pomeriggio. La mattina era una lunga cerimonia. Appuntamento all’Eliseo con i sedici leader della Nato. «Istituzione ormai inservibile», scrissero i commentatori che nei Balcani andavano in vacanza. Partecipavano anche gli orfani del defunto Patto di Varsavia. Il Presidente bulgaro avrebbe fatto i complimenti a Maggie per il suo discorso. Lei l’avrebbe guardato con l’aria di chi pensa: «Abbiamo messo in sella questo qui e io rischio di essere sbalzata!». Cantarono il Te Deum tutti insieme. Per l’Italia gorgheggiava l’allora presidente del Consiglio, Andreotti Giulio. Il capo dello Stato, Cossiga Francesco, scrisse un telegramma di congratulazioni per l’opera svolta a favore della pace al ministro degli Esteri, De Michelis Gianni. Cantarono anche i rappresentanti degli Stati neutrali. Si firmavano trattati sul disarmo degli armamenti convenzionali. Andreotti citò Hugo: «L’Europa unita stringerà la mano all’America attraverso i mari». Risultò poi una delle sue migliori battute. Mitterrand ringraziò e concluse: «Abbiamo scritto una bella promessa». Di tutti, fu il più realista. Maggie continuava a guardare l’orologio. A Londra stavano contando le schede: chissà se erano già arrivati a 220. Salutò in fretta gli ungheresi, rumeni e polacchi sulla sua strada e si fece riportare in ambasciata. Sedette al tavolino davanti al letto. Il telefono era lì, muto. Di fianco a lei il suo segretario privato, Peter Morrison, incaricato di rispondere al primo squillo. Lo fece, ascoltò in silenzio, riappese. Disse: «Non è buono come speravamo». Maggie disse: «Oh dear». Aveva avuto 204 favorevoli, 152 contrari, 16 astenuti. Era condannata al ballottaggio, alla perdita del prestigio, alla sconfitta. Aveva cominciato la sua carriera due volte perdendo, a Dartford. Denis ricorda che nella seconda occasione gli pianse sulla spalla e lui le chiese di sposarlo. Stavolta pianse lui. Al telefono trovò la forza di dirle: «Congratulazioni, tesoro. Hai vinto, è solo una questione di regole», ma un amico notò le lacrime sulle sue guance. Lui si era arreso. Lei voleva ancora combattere. Incombeva la cena di gala. «Farò tardi, ho cose più importanti», annunciò salendo al piano di sopra. La scena seguente è entrata negli annali della televisione. John Sergeant, il cronista politico della Bbc era nell’atrio e stava facendo uno stand-up dal vivo annunciando che «il primo ministro aveva fallito l’obiettivo e adesso era pericolante, forse dimissionario». Lei gli apparve alle spalle. Lui racconterà poi che gli parve di sentire e vedere tutto il pubblico, invisibili milioni, sbracciarsi e gridare: «è dietro di te!». Non si voltò, si limitò a passarle il microfono. Lei annunciò che non si sarebbe ritirata. Voleva cadere in piedi. Un corteo di 350 auto aveva raggiunto Versailles. Mitterrand, che era un gentiluomo, fece ritardare la cena aspettando l’arrivo dell’unica donna al tavolo dei leader. Bush padre, che veniva dal Texas, l’accolse dicendole: «Quel che è successo deve farle male, deve farle molto male». Maggie rimase impassibile. Lui raccontò poi: «Non lasciò trasparire un briciolo di autocommiserazione. Si mostrò come eravamo abituati a conoscerla: una donna forte, anche se aveva preso una botta tremenda». Servirono un menu di circostanza: minestra di crostacei, aragoste di Bretagna, cappone di Bresse al foie gras, formaggi e nougat glacé. Il vino bianco era Puligny-Montrachet dell’85, il rosso Château Margaux del ’78. Brindarono a Comte de Champagne dell’85. L’orchestra suonò. Per Maggie era l’ultimo tango a Parigi. Dirà poi: «Quando entri in politica ti aspetti di essere pugnalata alla schiena. Quel che non perdonerò mai è che lo fecero mentre ero a Parigi, dopo undici anni in cui avevo portato l’Inghilterra dalle stalle alle stelle. Fu la notte peggiore della mia vita. Non dimenticherò mai. Non perdonerò mai». Il calice le tremò per un istante nella mano, poi lo alzò spavalda. Dopo che aveva ordinato l’irruzione nell’ambasciata iraniana occupata dai terroristi, uno degli agenti speciali, il volto ancora mascherato, le disse: «Non credevo ce l’avrebbe lasciato fare». Lei lo prese come un gran complimento. «Non credevo che mi avrebbero fatto questo», confidò a Crawfie chiedendole un altro whisky & soda. «è davvero la fine?», le chiese l’assistente. Maggie non rispose, preferì parlare degli inizi. Le ricapitolò una vita e una carriera. Cominciò da un negozio di alimentari a Grantham e suo padre con il grembiule bianco che tagliava la pancetta. Finì con Mitterrand che l’aveva congedata dai palazzi di Versailles come una regina al tramonto. Per lei non c’era più una «bella promessa». Molti esultarono all’annuncio della sua sconfitta. L’Europa cambiava e, credeva, in meglio. Né muri né cariatidi. Né ideologie né guerre. Presto sarebbe arrivato John Major per guidare l’assalto all’Iraq con Bush padre. Poi Tony Blair per portarlo a termine con Bush figlio. Mitterrand è morto. Gorbaciov ha pianto al ”Costanzo Show”. Andreotti è stato processato e assolto, ma non fa più battute. Margaret Thatcher è rimasta sola, da qualche parte in Inghilterra. Non ha dimenticato. Non ha perdonato. Gabriele Romagnoli