Mariano Maugeri Il Sole-24 Ore, 24/09/2004, 24 settembre 2004
Mister why not, la via anti-italiana al successo di Maurizio Colomban, Il Sole-24 Ore, 24/09/2004 «Ricordo che mia madre mi scaldava i sassi che mettevo nelle tasche del cappotto, in questo modo riuscivo a non sentire freddo»
Mister why not, la via anti-italiana al successo di Maurizio Colomban, Il Sole-24 Ore, 24/09/2004 «Ricordo che mia madre mi scaldava i sassi che mettevo nelle tasche del cappotto, in questo modo riuscivo a non sentire freddo». Se un giorno Massimo Colomban scriverà la sua autobiografia queste righe hanno una buona probabilità di diventarne l’incipit. Un incipit neorealista che perde improvvisamente il suo pathos di fronte al viso di questo imprenditore mentre racconta i suoi primi anni da scolaro nelle campagne di Santa Lucia di Piave, Veneto straprofondo. Perché è la faccia perennemente sorridente di questo cinquantenne che, da sola, racconta più di un trattato di fisiognomica di come dovrebbe essere l’imprenditore italico, se qualcuno si decidesse a trapiantare le «staminali» di alcuni esemplari di trevigiani, padovani e vicentini più americani degli americani. Degli americani hanno la mascella pronunciata, il sorriso che sembra quasi un tic, un’inclinazione all’ottimismo che se non fosse sostenuta dai loro successi imprenditoriali potrebbe pure passare per ottusità. Degli italiani hanno le storie minime delle campagne della Padania anni 50, l’avviamento precocissimo a lavori umili che oggi porterebbe all’arresto immediato dei loro datori di lavoro; le levatacce alle prime luci dell’alba per raggiungere a piedi le elementari. Luciano Benetton dodicenne che alle sei della mattina vende le copie de ”Il Gazzettino” alla stazione di Treviso, Ivano Beggio che ripara biciclette nella bottega paterna di Scorzé, Massimo Colomban che a otto anni aiuta suo padre in quella che lui chiama «officina» ma che in realtà assomigliava al bazar di Piton, uno dei maestri di Harry Potter, dove si costruivano e affastellavano scarpe per i paesani, serramenti in ferro battuto, mobili intarsiati. Storie minime che invece di immalinconirli o deprimerli li temprano. A 14 anni Massimo lavora da meccanico, lavoro di giorno, ma la sera frequenta un corso di disegno industriale: quel periodo lui lo chiama formazione on the job, lavoro di giorno, scuola di sera (o viceversa). Un modello in voga nei Paesi anglosassoni o in quelli nordici che per gli adolescenti dell’Italietta anni 60 era l’unico modo per spuntare una paga qualunque ogni fine settimana. Alla fine del corso arriva la proposta di assunzione della Ialf di Conegliano, un’azienda da 200 dipendenti che produceva serramenti in acciaio e alluminio. Massimo vorrebbe aprire un’officina per riparare automobili, ma alla fine cede. In nove anni scala tutte le posizioni possibili e a 23 anni si ritrova vicedirettore tecnico. una carriera fortunata e in parte fortuita. Un paio di passaggi in alto Massimo li deve a occasioni prese al volo. Qualunque domanda o richiesta gli pongano la risposta è sempre la stessa: «Perché no?». Colomban è un anglofilo inconsapevole, uno che si chiede cosa può ricavare dal non fare perché la sua curiosità insaziabile lo spinge nell’unica direzione che conosce: quella del fare. Una domanda accompagnata sempre da quel sorriso disarmante: due tic che sembrano uno solo, due tic amati dagli anglosassoni che qualche anno dopo gli affibbieranno il soprannome che vale più di mille biografie: «Mister why not». Dalla Ialf alla quotazione alle Borse di Singapore e Milano della sua Permasteelisa Colomban ha pronunciato miliardi di «Why not?». Perché (aveva già 23 anni, ndr) non iscriversi alle scuole serali e prendersi un diploma di perito tecnico? Perché non fondare un’azienda in serramenti di alluminio, la Isa, specializzata nei rivestimenti esterni degli edifici e sbarcare immediatamente sul mercato europeo? Perché non comprare un’azienda australiana, la Permasteel, di ottima tecnologia (aveva ricoperto la Sydney opera house) ma di pessima gestione? Perché non concorrere alla gara per il museo Guggenheim di Bilbao? (che vince). In 25 anni mister why not fa quello che altre aziende costruiscono in cento: venticinque partecipate in giro per il pianeta, una pattuglia multirazziale di ottanta manager, cui cede via via quote significative del pacchetto azionario, ricavi che superano i 500 milioni di euro. Nel pieno boom di Internet, il perito industriale Massimo Colomban si toglie la soddisfazione di mettere intorno al suo tavolo i guru del Mit e quelli dell’Harvard graduate school of design che a distanza di una settimana l’uno dall’altro gli avevano chiesto di studiare insieme un portale mondiale per l’archiettura. «Why not?», risponde lui, che con il solito, disarmante sorriso yankee riesce a piegare la storica inimicizia tra i due blasonati istituti di Cambridge. Per uno allevato da papà Piton-Colomban in una officina di Santa Lucia di Piave non sono esattamente quisquilie. Un papà citato spessissimo nel bel libro intervista (Massimo Colombari e la Permasteelisa) di cui sono autori Carmine Garzia e Andrea Moretti, due docenti di Economia della Bocconi e dell’Università di Udine. Dice Colomban: «Mio padre diceva che la differenza tra un uomo e un animale è solo la parola, intesa come impegno preso. Alla fine la lealtà alle persone e alle regole è premiante. Il bene trionfa e trionfano le persone leali: è questa la mia convinzione, che fa parte della mia visione positiva della vita». Siamo passati da Harry Potter al libro Cuore ma l’imprenditore trevigiano è un romantico che riconosce i furbi a miglia di distanza. Forse per questo non ha mai lavorato in Italia. «Trovo che nel mondo latino, italiano in particolare, le regole siano troppo spesso poco trasparenti, ci sono troppi che barano, il rispetto delle regole non premia». Uno così dovrebbe sognare di morire sul ponte di comando della sua multinazionale. Invece, tre anni fa, a cinquant’anni compiuti da poco, annuncia ai suoi manager e al suo alter ego, l’amministratore delegato Enzo Pavan, che avrebbe abbandonato definitivamente l’azienda. La motivazione di quella scelta non era mai stata pronunciata, prima da nessun imprenditore-fondatore, di un’impresa italica. Lui la racconta così: «L’azienda, per dirla in gergo sportivo, conquista il campionato del mondo distanziando di tre, cinque lunghezze il secondo in corsa. Insomma, non c’è più niente da conquistare, né concorrenti da combattere». Da allora, mister why not, che nel frattempo è diventato presidente di Sviluppo Italia Veneto, si è inventato un altro giocattolino: ricostruire, pietra dopo pietra, una specie di cattedrale gotica incastrata in uno sperone roccioso delle Alpi trevigiane con tre teatri, un centro congressi da 1.800 posti e 60 camere. Castello Brandolini Colomban, così si chiama oggi, è un luogo da fiaba travestito da albergo che Colomban lascia soltanto per incontrare i fan del mito della sua giovinezza: Jimmy Hendrix. A uno di loro, che un anno fa assistette all’esibizione dell’imprenditore veneto e del suo gruppo, i Brando Boys, sul palco di una discoteca di Milano svelò cosa l’aveva spinto ad abbandonare Permasteelisa: «Cercavo un rifugio in cui suonare rock and roll in santa pace». Why not? Mariano Maugeri