Panorama 12/01/2006, pag.62 Giancarlo Dotto, 12 gennaio 2006
Ho parato tutto in una vita spericolata. Panorama 12/01/2006. Incrociare un vecchio cowboy di 1 metro e 88 con il naso da pugile sotto le Apuane, un Gary Cooper meno ovvio, più canaglia, appena sceso da cavallo, che nel suo caso si chiama Artù, il cane da guardia, un mastiff extralarge iniettato di sangue o di rosolio, secondo chi capita a tiro
Ho parato tutto in una vita spericolata. Panorama 12/01/2006. Incrociare un vecchio cowboy di 1 metro e 88 con il naso da pugile sotto le Apuane, un Gary Cooper meno ovvio, più canaglia, appena sceso da cavallo, che nel suo caso si chiama Artù, il cane da guardia, un mastiff extralarge iniettato di sangue o di rosolio, secondo chi capita a tiro. Un quintale e passa sempre pronto alla carica. L’ultima volta che è sceso da un cavallo vero, maggio 2004, Ricky Albertosi, il cowboy delle Apuane, era un uomo morto. Una botta al cuore. Lo danno per spacciato, resta in coma tre giorni: «Era una gara di trotto. Mi hanno detto che sono arrivato secondo, ma non ricordo nulla, la partenza, poi il buio». Gli piacciono, eccome, i cavalli, ma non ne ha mai montato uno: «Mi terrorizza solo l’idea». Gli piace guardarli da dietro, tenerli al passo, redini in mano, dal calesse. Ha bazzicato le tv private di tutta la Toscana per prendere il tesserino e partecipare alle gare di trotto dei giornalisti. Gli piace puntare sui cavalli: accoppiata, vincente, piazzato. Il sabato, alla vigilia della partita, allenatori e compagni andavano al cinema in comitiva, lui da solo all’ippodromo. Gli piacciono i cavalli, ma ancora di più gli allibratori. Facce come la sua. Per un periodo ha avuto anche un paio di cavalli, in società con un amico. Oggi niente ippodromi. «I medici non vogliono, dicono che mi emoziono troppo». Quando gesticola e allarga le manone quadre, Albertosi è un’olografia che copre tutto il camino di casa. Abita con la moglie in una villa di Forte dei Marmi, lungo un viale che è il suo Sunset boulevard. Trecento metri dal mare, 200 dal negozio di giocattoli del figlio Alberto e dalle focaccine di Valè. Interni da set western, rustici, l’enorme corazza di tartaruga marina, comprata alle isole Mauritius, incastrata in un sostegno d’oro a fianco del televisore, 60 o forse 90 pollici. Albertosi prova a spiegare perché i portieri di oggi sono scarsi, mezze cartucce. Ma poi l’istinto prende il sopravvento, si alza, va davanti al camino, la simulata porta, e s’intosta come fanno i portieri quando la palla è da quelle parti e l’antenna si drizza. «I portieri di oggi fanno errori madornali, elementari, prendono i gol sul loro palo, inconcepibile, il tuo palo lo devi coprire così quando esci ... Togli Gigi Buffon, il migliore al mondo, togli Francesco Toldo, incredibile che Roberto Mancini gli preferisca quel brasiliano, è il deserto, altro che Italia terra di portieri. Non c’è nessuno, Lippi deve chiamare Peruzzi». Sembra enorme Ricky Albertosi. Più della tartaruga e più del televisore. Il cuore così così, ma tutto il resto una meraviglia. Per quanto...Giornate tutte uguali. «Faccio vita da pensionato, passeggiate a mare, una bistecca a pranzo, una minestrina a cena, molta televisione, sono 66 anni, mica pochi». Anche Ciandi, la governante nera e robusta dello Sri Lanka che serve il caffè, sembra una da set. Mi viene in mente l’epitaffio di Charles Bukowski: «Seppellitemi vicino all’ippodromo, così sentirò l’ebbrezza della volata finale». Lui non arriva a questo lirismo. I cavalli passano, come tutto il resto. Le donne, le carte, l’alcol, il fumo, quantità smodate. «Tutto ciò che era proibito mi attraeva. Era più forte di me. Con Gigi Riva, amico di sempre, compagno di stanza al Cagliari e in nazionale, erano non meno di 40 Marlboro rosse a testa al giorno. Le nostre camere d’albergo sembravano delle fumerie. L’anno dello scudetto, era un venerdì sera, antivigilia di Lazio-Cagliari, decisiva, imbastiamo un poker a quattro nell’albergo del ritiro romano. Io e la mia fortuna sfacciata, l’impenetrabile Riva, Angelo Domenghini e Sergio Gori, che bastava guardarlo in faccia per capire cosa aveva in mano. Intorno al tavolo, il resto della squadra a tifare. Assatanati. Litri di birra e decine di sigarette. Alle 2 e mezzo ci viene fame. Ordiniamo panini. Bussano alla porta, mi trovo davanti Manlio Scopigno, l’allenatore, che avanza nella stanza facendosi largo in una nuvola di fumo. Rimaniamo tutti col fiato sospeso. Lui ci guarda e fa: «Dà fastidio se fumo?». Ecco, a uno così in campo davi l’anima. Infatti poi alla Lazio gliene facemmo quattro. «Scopigno beveva tanto, più di noi, soprattutto champagne, ma non si ubriacava mai. Era una mente acuta. Mangiavamo tutti insieme. Lui a capotavola, io sempre alla sua sinistra. Quando c’era troppo casino faceva tintinnare la forchetta sul piatto. Di colpo un silenzio di tomba. Incuteva timore e rispetto, senza fare mai il sergente di ferro. Riva, per esempio, andava gestito con cautela. La domenica, se giocavamo in casa, mangiavamo tutti alle 10. 30 e poi andavamo allo stadio. Lui si svegliava alle 12. 30, perché la sera prima aveva fatto le 3 alla spiaggia del Poetto. Si faceva portare cappuccino e brioche, scendeva in campo e ci faceva vincere le partite. In Italia è stato lui il più grande. Nel mondo, Pelè. Me lo sogno ancora la notte, sospeso in aria, prima di incornare quel gol incredibile nella finale di coppa del mondo». Bere, fumare, giocare a poker fino all’alba: bello perché proibito. Albertosi non si è negato nulla. Una decina di giorni in carcere a Roma insieme a Bruno Giordano e gli altri del calcio scommesse. Si commuove ripensandoci. «A Regina Coeli ho mangiato i migliori bucatini all’amatriciana della mia vita. Li cucinava un truffatore che stava nel nostro braccio». Si tenevano in forma allenandosi in cortile nell’ora d’aria. «Bruno tirava, io paravo, tutto qui, non mi è mai piaciuto allenarmi troppo. Non mi serviva». Nient’altro? Incubi? Rimorsi? Notti bianche? «Sì, un rammarico, la squalifica a vita m’impedì di aggregarmi a Pelè e Giorgio Chinaglia con i Cosmos a New York». In compenso finì in tournée al seguito degli Harlem Globetrotters. Nell’intervallo del basket improvvisavano una porta di calcio. Per una modica cifra gli spettatori potevano calciare un rigore ad Albertosi. Imbarazzo? Zero. Consapevole della sua grandezza, se ne infischiava. Smette a 47 anni in C2 a Sant’Elpidio: il portiere di riserva gli frana addosso in allenamento. Fine del ginocchio. Fine della storia. Il ginocchio come il naso, lo zigomo, le dita. Parava senza guanti Ricky. Poteva diventare una grande levatrice di giovani portieri ma il calcio gli ha chiuso le porte in faccia. Per quella storia del calcio scommesse. Una lettera scarlatta. «Hanno massacrato gente a fine carriera come me. All’epoca avevo un ristorante a Milano, il Tatum. Mi telefona Giordano che mi passa questo Massimo Cruciani. Dovevamo giocare a San Siro con la Lazio, per noi c’era in ballo lo scudetto. «Con 80 milioni, la vittoria è garantita» mi fa sapere Cruciani. . Giro la cosa a Felice Colombo e a Gianni Rivera, presidente e vice del Milan. Ci accordiamo per 20 milioni. Il Milan vince, ma altro che amichevole. Io devo anche parare una gran botta di Giordano. Poi tutto frana perché Cruciani vuole altri soldi, partono le denunce». La Corea e Dino Zoff, le altre due obiettive disgrazie. Italia-Germania 4 a 3, lui c’era;1966, Mondiali inglesi, il dentista Pak Doo Ik che lo buca. I nani asiatici che si moltiplicano, svettano, si arrampicano l’uno sull’altro. Un incubo. «Sembravano tutti uguali. Sbucavano da tutte le parti. La partita prima avevo incrociato Lev Yashin, il mio mito. A fine partita si tolse la panciera, aveva una trippa enorme. Dopo la Corea Edmondo Fabbri entra nello spogliatoio e ci fa, tremando: ”Io in Italia non ci torno, parto per il Ghana”. Fu Artemio Franchi a prendere in mano la situazione. ”Siamo partiti tutti insieme e tutti insieme torneremo”. Sbarcammo a Genova invece che a Roma o Milano, ma non bastò a salvarci da pomodori e uova marce. «Quattro anni dopo va meglio in Messico. Paro tutto in quella semifinale con la Germania. Sento il fiato di Gerd Müller sul collo. Supplementari. Sul 3 a 2 per noi la mia strepitosa deviazione in angolo. Rivera si avvicina al palo. Non capisco. Non fa per lui. Gli urlo di stare attento. Sul colpo di testa di Müller si ritrae goffamente e lascia sfilare la palla in rete. Lo avrei divorato.”Stronzo, figlio di puttana! Sei venuto sul palo per toglierti dalla mischia e guarda che hai combinato! ”. Rivera si abbracciò al palo, quasi in lacrime.”Ora posso solo segnare” mi calmò solo così». Zoff era Gino Bartali. Lui Fausto Coppi. Il talento allo stato puro contro la disciplina, l’applicazione feroce e secchiona. «Il più forte dei due? Non scherziamo. Io, naturalmente. Zoff era uno che se saltava un allenamento, o il venerdì faceva l’amore, la domenica aveva le gambe molli. Io facevo l’amore il sabato e la domenica mi esaltavo. Lui sempre musone e poco appariscente, io votato alla platea. La Juventus voleva acquistare me e Riva in blocco, gli inseparabili. Gigi rifiutò e a Torino ci finì Zoff. Fu la sua fortuna. Da bianconero sarei stato nazionale a vita, forse anche nel 1982. «Quattro anni prima, quasi quarantenne, avevo chiuso un campionato strepitoso con il Milan. Enzo Bearzot voleva portarmi come terzo portiere in Argentina. Sarebbe stato il mio quinto Mondiale, un record. Zoff mise il veto. Disse a Bearzot che la mia presenza lo turbava. Prese due gol da 40 metri. Lo criticai di brutto. Lui se la legò al dito. Per anni non ci salutammo. Un giorno, mentre salgo le scale di un albergo, quasi gli finisco addosso. Ci siamo guardati un po’ e poi ci siamo abbracciati. Come due veri nemici». Giancarlo Dotto