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 2004  settembre 21 Martedì calendario

Andy Warhol o l’estetica del Nulla: un artista senza sudore con la mentalità imperturbata dei giornali popolari, Corriere della Sera, 21/09/2004 L’arte di Warhol ha il potente effetto di far sembrare importante il nulla

Andy Warhol o l’estetica del Nulla: un artista senza sudore con la mentalità imperturbata dei giornali popolari, Corriere della Sera, 21/09/2004 L’arte di Warhol ha il potente effetto di far sembrare importante il nulla. Warhol era un filosofo notevole e nel suo testamento, La filosofia di Andy Warhol (Costa & Nolan), leggiamo: «Dei critici mi hanno chiamato il Nulla Stesso e ciò non ha giovato molto al mio senso dell’esistenza. Poi ho capito che l’esistenza stessa era un nulla e mi sono sentito meglio». Warhol è maturato come artista nel tardo dopoguerra, inizio guerra fredda, l’era dell’esistenzialismo e dell’angoscia e si è sentito molto tranquillizzato dalla diffusione della televisione e del registratore. Le contestazioni politiche e il colorito clamore degli anni Sessanta non gli impedirono di vedere quel che è stata la rivoluzione più significativa del decennio: «Durante gli anni Sessanta, la gente ha dimenticato quel che dovessero essere le emozioni. E non penso che se ne sia più ricordata. Penso che dopo aver visto le emozioni in una certa prospettiva, non si possa più ritenerle reali». Quel che rimane reale, sembrerebbe, è il guscio semiotico, la massa di immagini con cui una società economicamente tesa a tenerci sulla corda fa appello alle nostre emozioni troppo sollecitate, analizzate, drammatizzate, liberate e in via di estinzione. Sul sesso, il nostro grande lubrificante sociale e incentivo alle vendite, Warhol è particolarmente fulminante: «Dopo quella di vivere, l’altra gran fatica è il sesso». Il sesso non è solo lavoro, «il sesso è rimpianto di quando se ne aveva voglia, a volte. Rimpianto del sesso». Le sue serigrafie ossessive di Marilyn Monroe (di un volto in particolare che lei offrì alla macchina fotografica, simile a una cameriera di drive in degli anni Cinquanta stanca di sfoggiare l’ennesimo invito sessuale rozzo ma non del tutto privo di interesse) trasformano Marilyn in una maschera tinta e ritinta, nel vistoso e triste teschio che rimane quando è vista senza desiderio. La ripetizione, che fu uno degli espedienti chiave di Warhol - due Liza Minnelli, dieci Elizabeth Taylor, 36 Elvis, 102 Troy Donahue - ha un effetto derisorio. Nato nel 1928 con il nome di Andrew Warhola, da un immigrato ceco, minatore di carbone, Andy Warhol arrivò a New York da Pittsburgh nel 1949, subito dopo essersi laureato alla Carnegie Tech. In Pre-Pop Warhol, Tina S. Fredericks, che ha dato il via alla carriera di Warhol nella rivista ”Glamour”, scrive: «Mi trovai davanti un ragazzo pallido, timido quasi fino a scomparire, ma per qualche ragione immediatamente e immensamente attraente. Sembrava tutto di un colore, calzoni pallidi, caschetto di capelli pallidi, occhi pallidi, una strana macchia beige sul lato del viso». Verso la metà degli anni Cinquanta non era solo più attraente e pallido, ma anche tenace e pieno di risorse ed era diventato un artista commerciale di gran successo. Era industrioso e veloce e non eccedeva mai, ma dava ai suoi lavori un tocco abile che faceva scomparire la mano dell’artista. In Pre-Pop Warhol si trovano molti degli espedienti trasferiti in seguito all’arte «seria» che Warhol cominciò a produrre nel 1960: la ripetizione, la monotonia da carta da parati, sfumature monocromatiche che attraversano i contorni e l’appropriazione di elementi già pronti come le decorazioni di carta in rilievo. Questi primi anni videro anche l’inizio della famosa «Factory» (il luogo delle sue performance e delle sue feste). Fino al 1963 Warhol accettava ancora più commissioni per la pubblicità di quante ne rifiutasse. Capì, però, che le gallerie e i musei rappresentavano il vero cammino verso la ricchezza e la fama. Passò, secondo le sue parole, dall’affare dell’arte all’arte dell’affare. «I soldi americani sono veramente ben disegnati» disse Warhol esprimendo uno dei pochi giudizi estetici della sua Filosofia. «Mi piacciono più di qualsiasi altra banconota». I dollari li ha disegnati a mano libera, ne ha fatte delle serigrafie e se li è messi in tasca. Aveva la mentalità imperturbata dei giornali popolari; i suoi occhi si fissavano naturalmente dove c’era quel che ci interessa maggiormente: soldi, pubblicità, belle ragazze, titoli sensazionali, foto di dive, di sedie elettriche e di terribili incidenti automobilistici. Ci piace pensare che l’arte stia alla frontiera tra la realtà e la nostra consapevolezza. Le serigrafie multiple possiedono, nelle inevitabili irregolarità e nel sovrapporsi dei colori, qualità che possiamo definire pittoriche e che ci rassicurano. Ma quando arriviamo alle foto ingrandite e monocromatiche degli incidenti di macchina e delle sedie elettriche e dei tumulti razziali, un alito dello zolfo degli anni Sessanta offende le nostre narici. C’è qualcosa di troppo estremo e nudo. Ci chiediamo quanto del nostro interesse sia attribuibile a Warhol e quanto alla morbosa curiosità che suscitano le foto originali. Dov’è l’artista in tutto questo? Sta lavorando abbastanza sodo o sta semplicemente diffondendo delle foto truculente? Durante la sua vita Warhol ha suscitato molte critiche ostili, perfino in tempi in cui passava di tutto e l’ostilità si collega, credo, all’idea veramente radicale che sta alla base delle sue opere: la scomparsa dell’artista dalla vita moderna, il suo cedere alla meccanicità e alla casualità. Senza sudore, come si dice, e Warhol ha perfezionato l’arte senza sudore: film senza montaggio, libri senza editing, quadri senza pennellate. Dalla classe operaia Warhol è arrivato a essere il direttore della Factory. E il suo tocco abile ha continuato a produrre nuove ondate di immagini replicate. Quando un’idea faceva il suo breve corso di scandali e scalpori, lui ne escogitava un’altra e bisogna ammettere che per tutti gli anni Sessanta e molti dei Settanta Warhol ha mantenuto il controllo della qualità. Quasi tutto ciò che ha prodotto era perfetto a modo suo, eseguito con la precisione e la raffinatezza dell’artista commerciale. Nonostante alcuni esponenti minori della sua Factory si siano degradati in orge e in rovinose dipendenze da droghe, lui è rimasto avvolto in un’innocenza asettica; ogni sera tornava a casa dalla madre (questo fino al 1971). Non rinunciò mai del tutto al cattolicesimo della sua infanzia, di quando andava tutti i giorni nella chiesa di St. Vincent Ferrer su 66th Street e faceva del bene anonimamente ai senza tetto. L’ultimo paragrafo di un saggio di Robert Rosenblum collega in modo convincente il cattolicesimo di Warhol al suo senso dell’iconico; i dittici simili a pale d’altare, la predilezione per gli ori e i memento mori. Ma anche il vuoto profondo che sentiamo dietro le tele deriva da un senso di negatività cattolica, l’abisso della perdita della fede. Nella Filosofia alcune delle sue osservazioni hanno la penetrante desolazione che associamo ad autori di massime come La Rochefoucauld e Chamfort. «Penso che vivere sia una gran fatica che non sempre si desidera fare. Nascere è come essere rapiti. E poi venduti come schiavi». Lui ha lavorato facendo finta di non far niente. Ed è divenuto, come deve aver sempre desiderato, un’icona. John Updike