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 2004  settembre 16 Giovedì calendario

Reporter di guerra: gli articoli non sono migliorati (ma gli inviati vestono peggio), la Repubblica, 16/09/2004 Sono trascorsi centocinquant’anni da quando il giornalista inglese William Howard Russel inviò al ”Times”, dai campi di battaglia della Crimea, le prime corrispondenze di guerra

Reporter di guerra: gli articoli non sono migliorati (ma gli inviati vestono peggio), la Repubblica, 16/09/2004 Sono trascorsi centocinquant’anni da quando il giornalista inglese William Howard Russel inviò al ”Times”, dai campi di battaglia della Crimea, le prime corrispondenze di guerra. E un interessante articolo del ”Financial Times” descriveva l’altro giorno le trasformazioni che questo genere giornalistico ha conosciuto dai suoi inizi sino ad oggi. L’equipaggiamento dei reporter d’allora e quello degli inviati di questi giorni a Baghdad, l’evolversi delle tecniche di trasmissione, le diversità man mano intervenute nell’etica di questo particolare lavoro tra il XIX e il XXI secolo. Personalmente, non ho una gran pratica della materia. Ho fatto il corrispondente di guerra per poco, una quindicina d’anni sì e no, e non lo facevo volentieri per due ragioni principali: per paura di farmi male e per la pena di vedere le mie camicie - in certi luoghi e frangenti: dalle guerre mediorientali a quelle indopakistane, dal Biafra all’Uganda e all’Eritrea - stirate in modo vergognoso. E tuttavia qualcosa, in quegli anni, ho visto. D’una parte delle trasformazioni avvenute nell’ultima parte del secolo scorso, sono stato testimone. Comincerò dall’abbigliamento, anche perché è da qui che muove l’articolo del ”Financial Times”: da com’era vestito William Howard Russel quando scriveva le sue corrispondenze nella piana di Balaklava. Russel aveva sul capo un berretto di tipo militare, calzava stivali da cavallo e dal fianco gli pendeva una sciabola. Il risultato, se oggi guardiamo una sua fotografia, ci appare insieme marziale e pittoresco. Ma quando io m’avventurai le prime volte in situazioni per così dire di guerra - cinquanta, trenta o dieci chilometri da dove si sparava -, i giornalisti erano ancora vestiti da città. In quegli anni Sessanta tutto era rimasto infatti come nei Trenta e Quaranta, vale a dire i tempi di Montanelli e Piovene in Spagna, di Sandro Volta, Luigi Barzini jr. e Virgilio Lilli in Cina, di Giovanni Artieri e Curzio Malaparte in Finlandia. Le loro fotografie d’allora mostrano monopetti e doppiopetti di flanella o shantung o lino a seconda della stagione, cravatte, le stesse scarpe con cui passeggiare a via Veneto o in Galleria a Milano. A volte i vestiti appaiono un po’ stazzonati e le cravatte allentate, il segno di lunghi percorsi in automobile nelle retrovie dei vari fronti. Ma in sostanza, nessuna differenza dall’abbigliamento consueto. Ed era così, ripeto, ancora una quarantina d’anni fa. Alcuni (non io) cominciavano a non mettere la cravatta, altri già indossavano quelle brutte camicie col taschino in cui sistemare matite, occhiali e la ”press card”. Ma se da dove ci trovavamo fossimo passati fulmineamente in una strada italiana, nessuno avrebbe potuto dire che eravamo vestiti in modo particolare. E lo stesso, più o meno, era per i giornalisti stranieri: gli americani ovviamente più dégagés, ma francesi e inglesi anche loro in giacca e cravatta. Le cose cominciarono a cambiare nei Settanta. Apparvero infatti quei gilé con tante tasche per il passaporto, il taccuino, le sigarette e le penne, indossati sulle camicie a collo aperto, e dilagarono i ”jeans”. Reduci dai soggiorni in Vietnam, i reporter e i fotografi dei grandi giornali stranieri indossavano una specie d’uniforme verdastra con molte tasche anche lungo i pantaloni, e spalline sotto le quali far passare il laccio della Leica o del registratore. Non essendo stato in Vietnam, fu nelle visite al Canale di Suez organizzate dall’esercito israeliano durante la «guerra d’attrito» che mi venne offerto per la prima volta un giubbotto antiproiettili. Passò qualche altro anno, e all’assedio di Beirut nell’82 gli israeliani presero a distribuire, con il giubbotto, gli elmetti. Temendo il ridicolo più che di farmi male, io non indossavo né l’uno né l’altro. Ma il gruppo dei giornalisti cominciava a somigliare, ormai, ad una truppa d’irregolari. E molti di loro dovevano esserne entusiasti. C’era un inviato della Rai, per esempio, che nell’assoluta assenza d’un rumore di sparo si faceva riprendere dal suo cameraman sempre in giubbotto ed elmetto. Voleva tranquillizzare la madre, mostrando d’aver preso tutte le precauzioni necessarie, o commuovere un’amante intenzionata a lasciarlo facendo intravedere che era in pericolo di vita? Non lo so: la cosa certa è che il cannone sparava venti o venticinque chilometri più a nord. In quegli anni di Beirut, l’82 e l’83, il colpo d’occhio mutò radicalmente. La sera nei bar del ”Cavalier” e del ”Commodore”, o sotto gli oleandri del ”Grenier”, i giornalisti sembravano operai edili nella pausa pranzo. Indosso, cenci; barbe lunghe; scarpacce a stivaletto. Com’erano lontani, ormai, dai loro predecessori che avevano assistito all’assedio di Madrid o all’«incidente di Mukden»: dalle foto - per fare un esempio - di Auden e Isherwood alla vigilia dell’ingresso dei giapponesi a Shanghai. E con quale deliziosa ferocia li avrebbe descritti Evelyn Waugh, che sui giornalisti (in Scoop, Black mischief e Waugh in Abyssinia) ha scritto tante e sferzanti verità. Ma è vero che molte cose, nel giornalismo, erano intanto cambiate. Adesso succedeva che i reporter morissero sul lavoro: ciò che a Montanelli o a Piovene o a Malaparte, ma anche ai giornalisti italiani della mia generazione, non sarebbe mai potuto succedere. Per le scrupolose cautele con cui ci muovevamo, per le lunghe, accorte distanze che mantenevamo da ogni pericolo, e grazie alle scarse, sommesse richieste di vere notizie che ci venivano dai nostri giornali. Ma la massima trasformazione nel lavoro del reporter di guerra, non è stata quella dell’abbigliamento. nelle comunicazioni, nel ricevere qualche notizia sugli eventi che stavamo, come si dice, «coprendo», e poi nel trasmettere i nostri articoli ai giornali, che le nuove tecnologie hanno rivoluzionato il mestiere. Cerco di chiarire. Trovandosi al Cairo durante la guerra del Kippur, un giornalista non poteva affidarsi, è ovvio, alle sole informazioni di fonte egiziana. Doveva perciò ricorrere alla radio, al suo transistor, per cercare di capire come stessero andando davvero le cose tra le sabbie del Sinai. Ma captare il miglior giornale radio del mondo, il World service della Bbc, non era facile. Mai o quasi mai, infatti, l’ascolto era nitido. A volte la voce dello speaker giungeva troppo flebile a causa della lontananza del ripetitore, altre volte saltellava per le scariche elettriche nell’atmosfera, altre volte ancora era «scrambled» (confusa, mischiata di rumori) dalle apparecchiature dei governi che praticavano la censura delle informazioni, impedendo l’ingresso dei giornali stranieri e l’ascolto delle radio. Ma un orecchio allenato riusciva comunque a cogliere qualcosa: due o tre parole, una cifra, il nome d’un leader o d’un luogo, il tanto che bastava a ricostruire - o soltanto a immaginare - ciò che stava accadendo sul versante di guerra opposto a quello in cui ci si trovava. Inutile dirlo, da questi ascolti s’usciva estenuati: lo sforzo d’attenzione, il timore di non aver capito bene, i lunghi silenzi o le scariche assordanti che ogni tanto si sovrapponevano alla voce dello speaker, erano una tortura. Oggi invece, con la sola pressione d’un tasto del suo computer, il reporter ha a disposizione - ovunque si trovi e in qualsiasi circostanza - pagine e pagine di notizie, commenti, analisi. Non sarà al riparo dall’autobomba di Baghdad o dal fuoco incrociato israelo-palestinese nelle strade di Gaza, ma per il resto è come se fosse seduto alla sua scrivania in redazione. Sa tutto, non gli sfugge niente. E infatti molti reporter si limitano a inanellare le notizie d’agenzia, qui tot morti, lì l’oleodotto danneggiato, a Kirkuk un attentato contro questo o quello. Uno strano lavoro, visto che per farlo s’è dovuto viaggiare varie ore in aereo e spendere molti soldi, mentre avrebbe potuto essere espletato ugualmente in una stanza del proprio giornale. Con la stessa facilità o quasi, i telefoni satellitari consentono oggi di collegarsi alle redazioni per trasmettere i pezzi quotidiani. Mentre un tempo era diverso: trasmettere costituiva un altro strazio. Ottenere una linea telefonica con l’Italia da Kinshasa o da Lagos, poter mettere le mani su una telescrivente ad Amman durante il Settembre nero, spedire una pila di telegrammi dalla posta centrale del Cairo in guerra, sono state le sole cose faticose che ho fatto nella mia vita. E non a caso ne ho avuto abbastanza così presto. Beninteso, non mi sogno affatto di sostenere che ai miei tempi il compito d’un reporter in zona di guerra fosse più severo d’adesso. I kamikaze, le autobombe, i rapimenti, lo rendono oggi, infatti, assai più pericoloso. Ma per ciò che riguarda le comunicazioni, non c’è dubbio: oggi sono facili, ieri erano logoranti. Quanto a quel che è cambiato nell’etica della professione, che dire? Con una flanella grigia tagliata da Ciro Giuliano come Luigi Barzini jr., o in tenuta leopardo come i reporter della Cnn, i giornalisti si dividono come sempre in bravi e non bravi. E la bravura non si ferma certo (almeno per gli articoli di giornale) all’esattezza della cronaca, al controllo delle fonti, all’aver visto con i propri occhi. Quando leggevo gli articoli del mio amico Alberto Cavallari, non mi chiedevo se fossero esatti, se avesse controllato le fonti o se avesse visto con i propri occhi quel che raccontava. Quegli articoli erano stupendi e basta. Ed erano tali perché davano il senso, l’atmosfera, la profondità della prospettiva di questo o quell’evento. Dopo tutto, nessuno ricorre alle collezioni dei giornali per capire una guerra del passato. Ci s’avvicina agli scaffali della libreria, e si prendono i libri di Tolstoj, di Crane, di Junger, Cèline e Solzenicyn, di Hemingway, Mailer e Greene. Sandro Viola