11 gennaio 2006
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Tuttle Richard
• Nato a Rahway (Stati Uniti) nel 1941. Artista. «’Sono uno studente del mio proprio lavoro”. [...] ha raccolto l’eredità di Fontana per andare oltre: ”Più che il suo taglio mi interessa il fantasma nero dietro la tela”. [...] ciò che più l’attrae sono le fessure tra le superfici geometriche dai contorni irregolari, che lasciano intravvedere il buio: ”Sono spazi importanti e una volta creati dall’artista appartengono a tutti”. A 22 anni, nel 1963, Tuttle ha scoperto i tagli di Fontana e ha cominciato a lavorarci sopra. Diventarono il pretesto per esplorare tutto quello che ha a che fare con l’opera. La luce che la colpisce, l’ombra proiettata sul muro, la tonalità della parete, lo spazio circostante. Raccontare il suo lavoro, vederlo con occhi nuovi, gli piace. Lo fa con l’entusiasmo di un ragazzino che costruisce un castello di sabbia in riva al mare. [...] Da quando ha cominciato le sue prime esplorazioni nel mondo dell’arte a New York, all’inizio degli anni 60, usa tutto per eliminare le barriere, ampliare il campo d’azione delle sue opere, dare a ognuna una dignità, nonostante la povertà dei materiali usati. Nello stesso tempo permette loro di interagire col pubblico, col contesto in cui l’ha messa. Per lui disegno, scultura, pittura, installazioni sono parole di una stessa lingua. Frammenti dei materiali più disparati, tela, corda, filo di ferro, legno, plastica, polistirolo diventano nelle sue mani forme misteriose e universali, capaci di raggiungere tutti. Anche una palla da tennis, un tubo vuoto di carta igienica o uno schizzo di colore su un foglio a righe sono strumenti per raccontare. Per questa attenzione alla semplicità degli oggetti qualunque, e insieme per la libertà dalla simmetria del minimalismo, i critici lo hanno incasellato nel post-minimalismo, assieme a Eva Hesse, Bruce Nauman, Richard Serra. Ma un artista come lui non può accettare di fare parte di una corrente. ”Ogni opera d’arte è come un premio per la mente, che è la capitale dei sensi”, osserva. ”Lo diceva pure Leonardo. E questo è il lavoro dell’artista. Devi creare, non capire. Creare situazioni, momenti che possano fare viaggiare, provocare chi guarda, permettergli di contribuire all’esistenza di quell’opera [...] Noi artisti viventi abbiamo il compito di mantenere in vita l’eredità di quelli che ci hanno preceduto e andare oltre”. Il suo maestro del passato è Jan Van Eyck perché sperimentava il colore. Parlando con Tuttle si ha la netta sensazione che quest’uomo [...] considerato negli Stati Uniti come uno degli artisti che più ha influenzato le generazioni successive, non dà nessuna importanza al successo, al protagonismo. Il suo io è grande come un granello di sabbia. Il che gli permette di ricominciare daccapo ogni giorno, di sentirsi soddisfatto nel dare forma a un filo di ferro. L’ambizione dei giovani che arrivano a New York e pretendono di raggiungere subito la cima della piramide non la capisce. ”Invece di mettere l’energia nel lavoro, la spostano fuori. Guardano in alto e nel frattempo non sanno quello che fanno”. Lui, però, a 24 anni, ebbe la prima mostra alla galleria di Betty Parsons, quella che aveva fatto conoscere al mondo l’Espressionismo astratto di Mark Rothko e Jackson Pollock. Poi nel 1975 il Whitney Museum gli dedicò una personale. Ma questo non ha scalfito la sua semplicità. Preso com’era a esplorare le infinite possibilita delle forme e dei materiali, a stupirsi e a ridere del suo lavoro, gli rimaneva poco tempo per alimentare l’orgoglio delle mete raggiunte» (Fiamma Arditi, ”La Stampa” 29/12/2005).