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 2004  settembre 05 Domenica calendario

Voci dalla palestra di Beslan, dove tutti sono morti (anche i sopravvissuti), La Repubblica, 05/09/2004 Beslan

Voci dalla palestra di Beslan, dove tutti sono morti (anche i sopravvissuti), La Repubblica, 05/09/2004 Beslan. «Mercoledì i bambini di Beslan avevano fatto colazione prima che il sole risalisse le montagne. Era festa. Il primo settembre, a scuola, ci si va con i fiori freschi per fare gli auguri alle maestre. E ci si mette il vestito pulito, mentre le nonne portano i neonati tra i banchi per far sorridere i più grandi. Era una giornata tiepida, luminosa: i miei figli correvano per essere i primi al raduno nel cortile, e prendere poi il banco migliore. C’erano tutti i figli della nostra città, le mamme e i padri più giovani, nel cortile pulito dagli anziani. Si sentiva un profumo di torte calde. Ma la festa non è mai iniziata». Irina Mitzievi, 32 anni, è tornata a casa, parla seduta in cucina e comincia il suo racconto rivedendo la folla dei bambini che portava mazzi di fiori alle maestre. La sua testimonianza ripercorre due giorni di terrore e sofferenza che si chiudono con i mazzi di tulipani deposti a coprire la macchie di sangue sul cortile della ricreazione. Irina era uscita di casa con i due figli, Farma di 9 anni e Azama di 7. Con loro anche la nonna Zara di 65 anni. «Nessuno ha capito cosa stava succedendo quando i terroristi sono piombati nella scuola scaricando i mitra nel vento come la notte di Capodanno. Il raduno degli scolari era iniziato da un quarto d’ora. C’era un sole tiepido, eravamo felici perché l’istituto durante l’estate era stato ristrutturato. All’improvviso due camion «Ural» sono piombati sul piazzale. Sopra uomini con le barbe lunghe, alcuni con il viso coperto dai passamontagna. Sparavano. Ci hanno gridato di entrare a scuola, di fare presto. Eravamo oltre 1.200, bambini ma pure nonne e neonati: qualcuno si è messo a correre, altri non ce la facevano. I terroristi hanno ammazzato una vecchia e un uomo che ha cercato di fermarli. Allora ci siamo messi a correre e ognuno, istintivamente, ha raggiunto la propria classe. Così siamo stati risucchiati in un incubo». «I guerriglieri ci hanno subito ordinato di raggiungere la palestra. Sparavano, gridavano, una decina di cadaveri di uomini erano già stesi nell’ingresso. Le donne kamikaze erano nascoste da lunghi vestiti neri, con il velo sugli occhi. I guerriglieri indossavano le tute mimetiche e i passamontagna. Nessuno ha compreso che ci fossero anche degli arabi: parlavano tutti ceceno. Erano una trentina, ma contarli è stato impossibile: si sono sparsi subito occupando tutta la scuola, nella palestra dove ci hanno rinchiuso si davano il turno di guardia in una decina. La sorpresa è venuta dalla cantina. Il commando si è diretto con sicurezza nei sotterranei della scuola, riemergendo presto con un arsenale. Avevano nascosti mitra, pistole, fucili, lanciagranate, bombe a mano. E poi chili e chili di tritolo, tutto il materiale per l’innesco. In mezz’ora hanno assemblato davanti a noi quelle bombe spaventose: decine di sacchetti di nylon riempiti con chili di esplosivo e farciti di bulloni, chiodi, biglie d’acciaio. Dicevano che ogni pezzo di ferro era uno di noi ammazzato. Hanno appeso le borse-bomba ai canestri, al soffitto, ai neon, agli attrezzi per la ginnastica. Erano tutte collegate, i fili coprivano il pavimento della palestra come capelli su un capo. In due, mediante una tastiera, potevano azionare quell’unico e gigantesco ordigno». Dal racconto di Irina emerge così che l’assalto alla scuola di Beslan non è stato un obiettivo casuale: «Hanno detto che in luglio avevano già preparato tutto. Durante i lavori nell’istituto avevano stivato le armi negli scantinati e sotto il pavimento della palestra, fatto di grandi piastre sollevabili. Un terrorista ha raccontato che volevano far saltare una scuola di Vladikavkaz, frequentata dai figli delle famiglie più ricche. Poi i soldi per corrompere la polizia non sono bastati e hanno ripiegato su di noi, povera gente di una piccola borgata. Devono aver frequentato la scuola per molti giorni. La conoscevano alla perfezione: ogni passaggio, ogni classe, i corridoi, le soffitte. Nessuno li ha fermati». «Il caldo è stato presto insopportabile - ricorda Irina - e molti si sono tolti i vestiti. I neonati piangevano per la fame. Le madri e i bambini liberati poi giovedì, sono stati separati da noi. Gli indipendentisti ci hanno detto subito che se la Russia non avesse ritirato le truppe dalla Cecenia, noi saremmo morti. Hanno aggiunto però anche di stare tranquilli: qualcosa sarebbe successo e allora ci avrebbero lasciati andare. Il commando voleva un incontro diretto con i presidenti di Inguscezia e Ossezia del Nord, Zazhikov e Zasokhov, con l’uomo di Putin nel Caucaso, Aslakhanov, e con il pediatra Leonid Roshal. A parte Roshal, non si è presentato nessuno. Non so se sarebbe servito, ma l’assenza dei politici resta un fatto». « proprio da quel momento che sono iniziate le violenze. I terroristi ci dicevano che fuori dalla scuola non c’era nessuno, che i nostri cari ci avevano dimenticato. Dicevano che i politici avevano risposto che di noi non importava, che Mosca non avrebbe mai ceduto la Cecenia. Alcuni si sono messi a piangere: sono stati fucilati. Gli uomini si sono offerti come vittime in cambio della liberazione dei bambini: li hanno ammazzati nel bagno. Due donne kamikaze, dopo un litigio nella notte, sono uscite sul cortile e si sono fatte esplodere. Eravamo terrorizzati, nessuno fiatava. Fino a quando, dopo che i banditi non hanno più distribuito qualche sorso d’acqua, sono cominciate la fame e la sete». «Giovedì, nella palestra, la situazione è precipitata. C’erano oltre quaranta gradi, un’aria irrespirabile, i bambini piangevano per l’assenza di cibo. I terroristi hanno annunciato che l’acqua era stata avvelenata dalla polizia, per ucciderci e accusare loro. Abbiamo cominciato a urinare nei bicchieri, o in qualche bottiglia. Ognuno beveva la propria. Un bambino mi si è avvicinato e mostrandomi la bottiglietta mi ha detto che era sua e che non l’avrebbe mai data a nessuno. Sempre con l’urina bagnavamo i vestiti per rinfrescarci. Il pavimento era ormai una latrina». Irina comincia a singhiozzare, ma non vuole fermarsi. «Non posso dimenticare. Alcune ragazze dell’ultimo anno, ragazze di 17 anni, sono state portate in bagno e violentate a turno. Due giovani sono stati costretti a buttare nel cortile i cadaveri dei padri dei loro compagni. I terroristi sparavano e ridevano, ci chiamavano troie e dicevano agli uomini che erano delle nullità. Le umiliazioni ci gettavano nello sconforto. Poi, giovedì sera, hanno detto che se ancora avessero trovato qualcuno con il cellulare, avrebbero ucciso lui e tutti quelli seduti accanto. Ormai avevamo perso la speranza». «Venerdì mattina era tornata un po’ di speranza: i capi del commando avevano detto che, se tutti stavano zitti, entro un’ora sarebbe arrivata l’acqua. Uno ha aggiunto che forse i sequestrati sarebbero stati liberati. La direttrice, Albina Alikova, faceva coraggio. Ci siamo sorpresi addirittura a sorridere - continua Irina - una mamma ha ringraziato. Poi c’è stato lo scoppio». Erano le 12.35. «è successo per caso - e su questo concordano le versioni di decine di ostaggi ascoltati - o per un errore. A un terrorista è caduto qualcosa a terra: un telefono, o il comando delle bombe. Si è messo a cercare, forse ha toccato i fili sbagliati. Improvvisamente un’esplosione interna ha sventrato la parte centrale della palestra». «Mi è caduto qualcosa in braccio - piange la mamma di Beslan - . Ho visto carne viva, senza pelle. Un torso privo di braccia e di gambe. Ho pensato fosse una parte di me. Mi sono resa conto che erano i resti di un bambino, un piccolino. Azama mi ha chiesto se quella fosse Farma, la sorella. Invece lei era stesa sotto la nonna. Ho lasciato scivolare quel corpicino sul pavimento e mi sono girata: nella palestra c’erano decine di corpi immobili. Lo scoppio è stato assordante. Per qualche minuto nessuno si è mosso. I terroristi, sorpresi, si sono messi a sparare. Una kamikaze ci ha detto di andare vicino a lei, che i nostri altrimenti ci avrebbero ucciso. Poi si è fatta esplodere. Il botto ha innescato un altro ordigno, attaccato al canestro del basket. stata una strage. Abbiamo cominciato a fuggire, molti si buttavano dalle finestra. I guerriglieri sparavano alla schiena dei bambini che correvano chiedendo pietà, scaricavano i mitra sulle mamme che cercavano di proteggerli. Uno con il cappuccio ha buttato una bomba a mano sul gruppo dei neonati. Strisciavamo verso le finestre, mentre le fiamme e un fumo incandescente cominciavano a far crollare tutto. Il teatro Dubrovka è stato nulla, rispetto a questo: decine di bambini fucilati alle spalle sono un orrore senza possibilità di paragoni». «A quel punto i soldati hanno fatto saltare un pezzo di muro - racconta ancora la signora Mitzievi - e così molti si sono buttati nell’apertura. Gli ”speznaz” sono arrivati subito. Sparavano per coprire chi scappava. Era difficile farsi strada tra cadaveri e feriti. I terroristi sono scappati nell’altra ala della scuola e la guerra è cominciata». «Alcuni terroristi si erano tagliati la barba e avevano rubato i vestiti ai morti. Una kamikaze, con un camice bianco, è corsa verso un’ambulanza con un bambino ferito in braccio. I guerriglieri, in tuta da ginnastica, si sono mescolati ai soccorritori. Chissà quanti sono riusciti a scappare». Irina ha finito, della salvezza sua e dei suoi figli non vuole parlare. «Ho visto anch’io la processione senza fine delle barelle con i cadaveri e i feriti. Ho visto i morti stesi sulle vie e nelle aiuole, davanti alle loro case. Non posso gioire di essere viva - conclude - non ho più posto per la felicità. Nemmeno desideri. Vorrei solo che il mondo non si girasse dall’altra parte. Il sacrificio inutile dei nostri bambini sarebbe la sua vergogna». Giampaolo Visetti