Angelo Allegri Il Giornale, 02/09/2004, 2 settembre 2004
Le Fs accendano un cero alla Ue, Il Giornale, 02/09/2004 «Ma lei lo sa quale è la differenza tra Alitalia e le Ferrovie dello Stato? Bruxelles, l’Unione Europea
Le Fs accendano un cero alla Ue, Il Giornale, 02/09/2004 «Ma lei lo sa quale è la differenza tra Alitalia e le Ferrovie dello Stato? Bruxelles, l’Unione Europea. Ha vietato i finanziamenti pubblici per il trasporto aereo, ma non per i treni. Tolga i soldi dello Stato alle Fs e vedrà che buco». Marco Ponti, docente di Economia dei trasporti al Politecnico di Milano, ama le provocazioni. Sogghigna mentre rievoca uno dei peggiori incubi dei ministri del Tesoro della Repubblica italiana: l’idrovora di Piazza della Croce Rossa, la sede romana delle Ferrovie, in grado di mangiasi, solo nei 10 anni tra il 1992 e il 2001, non meno di 200 mila miliardi delle vecchie lire in finanziamenti dello Stato (calcolo del ”Sole-24 Ore”). Dopo le pensioni e la sanità, probabilmente il pozzo più profondo in cui sono precipitati i soldi del debito pubblico. Eppure da qualche anno le parole d’ordine sono risanamento, efficienza, e dal 2001 i bilanci segnano un utile, sia pure risicato. Tutta immagine e pubbliche relazioni? «Ma no, ma no», tranquillizza Ponti. «Anzi, sia chiaro: negli ultimi anni le Fs hanno fatto passi importanti, sia pure a costi esorbitanti per lo Stato. Voglio dire solo che il problema trasporto su ferro è ancora lì, tutto da risolvere, in particolare per quanto riguarda la liberalizzazione. E non riguarda solo l’Italia». La lunga marcia delle Fs verso la normalità inizia poco dopo la metà degli anni 90. Nel bilancio del 1996 la società raccoglie i frutti della gestione di Lorenzo ”il Munifico” Necci e di quella dei predecessori. Il deficit supera di slancio la cifra di 3mila miliardi (di allora), i contributi dello Stato rappresentavano, ed è un record, ben il 76,2% dei ricavi complessivi. Necci guida una azienda che ha conti da stato pre-fallimentare, ma raccoglie e perfeziona un sofisticato sistema di potere: stretti legami con i politici in grado di procurare i necessari finanziamenti, sindacalisti nominati dirigenti per garantire il consenso interno, società del gruppo che si occupano di editoria e pubbliche relazioni, non di far viaggiare i treni. Con lui la corsa arriva al capolinea: i conti pubblici non reggono più. Nell’ottobre del 1996 arriva Cimoli: inizia un percorso che terminerà nel maggio di quest’anno, quando l’ex manager di Montefibre ed Edison assumerà la guida di Alitalia. I risultati più evidenti della sua gestione sono quelli legati all’aumento degli investimenti e, soprattutto, alla diminuzione del costo del lavoro. Nel 1996 i dipendenti del gruppo sono poco meno di 130 mila (il record, però, è del 1985, quando toccano quota 216.000). A fine 2003 sono ridotti a 100 mila. Quelli che mancano all’appello hanno scelto il prepensionamento (pagato dallo Stato). L’esodo ha innalzato i parametri di efficienza: nel 1996 il costo del lavoro è pari al 131% del fatturato netto. In pratica la Ferrovie versano solo in stipendi il 30% in più di quanto incassano. Nel 2002 il dato è precipitato all’85%. Anche i bilanci si spostano progressivamente verso il bel tempo. Nel 1988 il risultato netto è negativo per 1,246 miliardi di euro e di 1,438 nel 1999. Nel 2000 il primo utile: 29 milioni, che nel 2002 diventano 77 e 31 nel 2003. Il nero nei conti è però un giochetto contabile o poco più. Unica azienda italiana, le Ferrovie possono, grazie a una legge del 1998, cancellare con un semplice colpo di penna buona parte degli ammortamenti (costi contabili legati alla perdita di valore dei beni dell’azienda) per la rete: infrastrutture, impianti, binari. Con questo sistema nel conto economico del 2003 figurano quasi due miliardi di euro in più. di poco inferiore sarebbe il deficit se la legge del 1998 non ci fosse. Per valutare il bilancio di Fs bisogna poi tenere conto anche dei 3 miliardi abbondanti di trasferimenti da parte dello Stato (senza contare quelli per l’Alta velocità). Anche se circa la metà, precisano alle Ferrovie, sono corrispettivi e non contributi, sono frutto cioè delle prestazioni rese dalle Ferrovie alle amministrazioni centrali e regionali, in base a un contratto di servizio. Ancora lo Stato, insomma. A dire la verità non è una caratteristica solo italiana. Anche nel resto dell’Europa, tanto per cominciare in Francia e Germania, i trasferimenti pubblici continuano a salvare i bilanci della società ferroviarie. Secondo dati della banca d’affari Ubs Warburg i contributi statali sono di 4,5 centesimi per passeggero o tonnellata di merce trasportata in Italia, contro i 4,4 della Francia, i 4,0 della Germania e i 6,5 della Gran Bretagna. Nonostante la mano tesa dei governi, aziende come la francese Sncf hanno perso nel 2003 trecento milioni di euro, mentre la tedesca Db deve fare i conti con un debito di 38 miliardi di euro, un fardello forse troppo pesante per poter rispettare l’obiettivo fissato: la quotazione in Borsa nel 2006. «In Europa tutti gli operatori fanno fatica a trovare un equilibrio economico», spiega Marco Andreassi, vicepresidente della società di consulenza At Kearney. In più in Italia c’è il problema delle tariffe, oggetto di un recente scambio di battute tra il nuovo numero uno delle Fs Elio Catania, che ne chiedeva l’aumento, e il ministro dell’Economia Domenico Siniscalco, che per il momento ha rifiutato di esaminare il tema. Nella Penisola la qualità percepita del servizio offerto ai clienti è bassa. Ma sono bassi anche i prezzi dei biglietti: per il viaggiatore i costi a chilometro sono più o meno la metà di quelli tedeschi e francesi. Anche per questo i ricavi che le Ferrovie dello Stato riescono a ottenere dalla loro ragione sociale, trasportare cose e persone, non riescono a decollare. Tra il 2003 e il 2002 sono stati praticamente invariati, passando da 3.005 a 3.006 milioni di euro. Tra questi una parte arriva dal trasporto merci, il vero buco nero delle Fs: 250 milioni di perdite su 800/900 milioni di ricavi. Il fatto è che le linee più interessanti, come la Milano-Venezia o la Roma-Milano, quelle che potrebbero svilupparsi e su cui la società guadagna, sono poche e sovraffollate e non è facile allargare l’offerta. Per molti altri percorsi è, invece, ancora valido quello che disse a suo tempo, Mario Schimberni: «Converrebbe trasportare i passeggeri in taxi». La svolta, dicono gli esperti del settore, arriverà solo con l’Alta velocità. Non solo si creeranno fonti di reddito alternativo, legate a una clientela d’affari disposta a pagare prezzi più alti per un servizio di qualità e con tempi di percorrenza ridotti. Ma si libereranno spazi sulle linee normali che potranno essere utilizzati per migliorare il traffico regionale e per adeguare velocità e organizzazione del traffico merci. Anche su questa rivoluzione, attesa non prima del 2008, pesa però un’incognita. «Il problema è il ritardo con cui arriva l’Italia», spiega Andreassi. «All’estero si è dimostrato che i treni veloci sono in concorrenza più con l’aereo che con l’auto. Chi ha iniziato a introdurre l’Alta velocità per tempo ha guadagnato bene. Poi è arrivato il fenomeno dei voli low cost. E anche per il futuro Tgv italiano la competizione sarà molto più difficile». Angelo Allegri