Paolo Isotta Corriere della Sera, 26/08/2004, 26 agosto 2004
Profilo di Bergonzi, professionista eccelso che non è mai diventato ”Re di Carnevale” (Pavarotti), Corriere della Sera, 26/08/2004 Carlo Bergonzi, il più grande tenore verdiano del dopoguerra e possiamo dire il più grande tenore vivente, ha compiuto ottant’anni, chiattoncello com’è sempre stato senza mai provarne complessi in palcoscenico ma fresco come una rosa
Profilo di Bergonzi, professionista eccelso che non è mai diventato ”Re di Carnevale” (Pavarotti), Corriere della Sera, 26/08/2004 Carlo Bergonzi, il più grande tenore verdiano del dopoguerra e possiamo dire il più grande tenore vivente, ha compiuto ottant’anni, chiattoncello com’è sempre stato senza mai provarne complessi in palcoscenico ma fresco come una rosa. Non si tratta di un comune compleanno. Si tratta di un avvenimento capitale per la musica. Allora occorre fare una fondamentale premessa. Data la distanza storica che ci divide dal Melodramma ottocentesco, che il pubblico apprezzava allora come la forma di spettacolo di attualità, «di consumo» e addirittura come lo spettacolo popolare in parte fungente per ciò ch’è l’attuale «telenovela», ci si dovrebbe attendere dal pubblico di oggi un atteggiamento eminentemente storicistico e «colto» nei confronti di una grande forma d’arte pur se, in parte, lo sia divenuta per caso. A tal proposito sono sempre portato a fare il seguente paragone: col museo. Parlo del rapporto che col museo si dovrebbe avere: la coppia di sposi di media cultura che studia il catalogo ed eventualmente legge qualche libro su di esso e poi lo visita, catalogo alla mano, soffermandosi di fronte a ciascun pezzo. Per una National Gallery perfettamente posseduta ci vorrebbe una settimana; ma diciamo pure che un giorno pieno, dopo la preparazione, può esser considerato il minimo indispensabile. Ora, chiunque non frequenti abitualmente il teatro d’Opera ma forse possegga una profonda cultura musicale e fondi il suo rapporto con esso sulla riproduzione registrata, non solo in musica si comporta così, ma è convinto che a più forte ragione questo sia il comportamento dell’abbonato, per esempio, della Scala. E rimane sbalordito quando gli spiego la realtà effettuale essere opposta, nel senso che il rapporto col Melodramma del suo appassionato attuale è molto più rudimentale che centocinquant’anni fa. A prescindere dall’incompetenza musicale, ignorano persino le trame delle Opere (i visori col testo completo collocati agli Arcimboldi hanno fatto miracoli in questo senso). Costoro hanno coll’Opera una relazione meramente emotiva, nascente dalla piacevolezza delle melodie, dal carisma di alcuni personaggi o da alcune proiezioni fantastiche da loro prodotte. Ecco allora il Tenore, non c’è diva che tenga, riconquistare prepotentemente il centro dell’universo del pubblico. Si verifica quella che chiamerò, per la sua sistematicità, una vera e propria patologia del rapporto del pubblico col tenore. Esso coltiva un culto, necessariamente effimero, verso rappresentanti della categoria che in realtà se ne trovano ai margini, quando non addirittura al di fuori in senso stretto. Sono personaggi particolarmente pittoreschi che si dedicano a manifestazioni, come dire, così estreme della categoria della «tenorilità» da rappresentarne una sorta di deformazione grottesca; ovvero, senza di grottesco possedere nulla, ma anche per una organizzazione a tappeto dei mezzi di comunicazione di massa, divengono della «tenorilità» momentaneo emblema pur trovandosi, ripeto, di là da essa. Il primo caso, tutti lo indovineranno prima ancora ch’io l’abbia nominato, è il Pavarotti degli ultimi vent’anni, al quale io applicai il concetto, desunto dall’antropologia, di «Re di Carnevale». Certi allestimenti che con lui hanno visto prostituirsi anche tenori veri, come Domingo e Carreras, intendo la pagliacciata dei «Tre Tenori», suscitano ripugnanza. Per equità va aggiunto che Pavarotti, incapace di leggere la notazione musicale, è stato tuttavia per un certo periodo quasi un buon tenore: la natura gli aveva donato un meraviglioso organo vocale che, avesse egli posseduto un minimo di tecnica e minor megalomania, si sarebbe conservato invece di divenire coacervo di ex-voce, e di lui non poteva non apprezzarsi, oltre al timbro bello e fresco, la chiarezza di dizione. Esempio del secondo caso è l’oggi celeberrimo Bocelli. Bergonzi, che ha festeggiato il compleanno il 13 luglio, se li è visti passare davanti, con infiniti altri, tutti, ed è ancora qui. Ma, a tutti sopravvivendo con assoluta facilità, non è stato mai, in alcun singolo momento della sua carriera, famoso e popolare come costoro. Sono costretto alla fastidiosa ripetizione, ma i casi umani sono in fondo semplici e pochi. La spiegazione risiede nel fatto che quest’uomo che ha mandato in delirio le platee del Metropolitan e del Covent Garden, dell’Opera di Vienna e del Festival di Salisburgo con Karajan, della Scala e del san Carlo, è una persona seria e intelligente, un professionista di uno scrupolo spinto ai limiti del sacrificio vero, uno che non ha mai accumulato recite vivendo in jet e mescolando repertorio, giacché l’avarizia è qualità del cantante lirico difficile da sondare se non si è conosciuta davvero; uno che fuor del palcoscenico ha coltivato un riserbo per fortuna non morboso e ha anche saputo vivere e vivere bene, ma mai s’è accostato alla figura del personaggio pittoresco. Dunque, se patologico è il rapporto del pubblico col Tenore, certe cose si pagano. Ho incontrato Bergonzi pochissime volte. è d’irresistibile simpatia, di finissimo senso del humour e indimenticabili sono certi lampi birichini che gli ho colto nello sguardo; dalla sua conversazione c’è sempre da apprendere; è uno squisito commensale; infine, è uomo di bontà d’animo e generosità memorabili. Ma affascinante è lo smontare e poi il rimontare il meccanismo del Bergonzi tenore e artista. Perché qui si entra nel più geloso dominio della tecnica del canto, centro d’irradiazione del tutto e quindi, come non mi stancherò di ripetere, anche della cosiddetta «espressione», del cosiddetto «pathos». Bergonzi è il tenore più «espressivo» del dopoguerra perché, con Alfredo Kraus, i mezzi del quale lo portavano a un repertorio che solo in piccola parte con quello di Bergonzi s’interseca, è quello dotato della tecnica più perfetta, quello che alla tecnica più s’è applicato per ottenerne i risultati i quali secondo i più scaturiscono dal «cuore», dal «temperamento». Ma quanto più freddo un cantante si tiene durante la prestazione, tanto più calda essa sarà. Il giovanissimo Bergonzi non dovette costruirsi la tecnica, dovette prima addirittura costruirsi la voce. L’avevano fatto nascere baritono: e quando s’accorse di essere tenore, se ne conquistò l’estensione con studio matto e disperatissimo, semitono dopo semitono. Vi è riuscito a un punto tale da possedere non solo uno dei timbri più pieni e dolci insieme, una voce ricca di «armonici» sapientemente disciplinati, ma da eludere addirittura una delle principali difficoltà per qualsiasi cantante, il cosiddetto «passaggio». Per chi lo soffra, non solo l’intonazione diviene incerta sulle fatidiche note, il timbro incerto e variabile anche per la tendenza a sforzare la voce proprio lì, ma bene spesso, superatolo, il soggetto dispone nell’altro territorio di una voce completamente diversa. Grazie a una raffinatissima tecnica di emissione «mista» quasi inavvertibile, per Bergonzi il «passaggio» non esiste. Meravigliose sono in lui le note che lo precedono, i centri, denotanti tipicamente il tenore «eroico»: e infatti non s’è trovato (facciamo sempre astrazione da Caruso, il più grande cantante di tutti i tempi) un Ernani, un Manrico, un Radamès che gli possa esser accostato; nemmeno un Alfredo il quale, pur appartenendosi per convenzione alla categoria dal tenore «lirico», insiste in particolare su quella zona. D’altronde, come testimonia una straordinaria incisione della Traviata diretta da Georges Prêtre con Montserrat Caballé, la delicatezza di sfumature ostesa dal grande Carlo fa di lui sicuramente l’Alfredo più elegante che vi sia mai stato. Dopo il Sol, gli acuti di Bergonzi possono essere energici e squillanti come anche morbidi e duttili; fino al Si bemolle compreso siamo nella perfezione, il Si naturale e il Do sono a volte, al confronto, lievemente meno felici. La sua tecnica riposa sopra un dominio del fiato unico in ambito virile. Immagazzinatolo, Carlo riesce a emetterlo comandandolo a suo piacere e addirittura, in certe lunghissime frasi verdiane, a respirare in modo del tutto impercettibile senza minimamente spezzarle. Tutto il suo canto è «appoggiato» sul fiato. Non si sentirà da lui mai una nota sforzata, giacché la quantità di fiato da dedicarle è prevista e realizzata con esattezza matematica, donde quell’intonazione e quel timbro, pur variatissimo, peraltro, d’inalterabile perfezione. La prima ragione della morbidezza e duttilità degli acuti è proprio quest’appoggio, e la forzatura nel «forte» degli acuti non fa parte del vocabolario del sommo Carlo. Ma così l’appoggio realizza anche miracoli impensabili per altri, i «crescendo» e le «smorzature» oltre il «passaggio» che fanno restare letteralmente a bocca aperta. Cantare «piano», specie nella tessitura acuta, implica uno sforzo decuplo rispetto al «forte». Il caso da manuale è il Si bemolle «piano» e poi ulteriormente smorzato con che egli chiude Celeste Aida. Un Si bemolle p-i-a-n-o e non in «falsettone», ma per la tecnica del fiato! Ma toccata l’Aida è impossibile tacere di O terra addio. Quei Sol bemolle e quei Si bemolle «piano» (Verdi pretende «dolcissimo») sono un autentico miracolo. Poche cose sono più commoventi di questo finale cantato insieme con la somma Renata Tebaldi nell’incisione discografica diretta da Karajan, che ne era particolarmente fiero. Premesso che esistono pochi cantanti attenti come Bergonzi alla precisione del solfeggio e perciò capaci dell’elasticità nel violare la lettera quando lo stile chiede allargamenti e restringimenti di tempo nella frase, ancora resta da dire, della tecnica di Carlo, la perfezione nella fonazione articolata. La chiarezza della dizione è tutt’uno con la linea melodica, sì che non ti riesce di distinguere l’una dall’altra. Allora cominci a percepire che cosa Bergonzi faccia della sillaba: la pronuncia con un’energia ma anche una varietà dinamica e una ricchezza di sfumature che, se sono straordinarie nelle Arie, ove i suoi colleghi paiono sovente timorosi di tanto lusso quasi dovessero uscir di strada, e così sconoscono il fraseggio, nel più semplice dei Recitativi sono una delle più importanti lezioni di canto e di espressione mai avutesi. E così egli dona a ottant’anni autentiche emozioni nei distanziatissimi concerti che si concede. Ho nominato solo Verdi anche per una insuperabile affinità ideale e di radici: praticamente, nei due, le stesse. Ben vero, Bergonzi ha dominato gran parte del repertorio tenorile, essendo per esempio un formidabile pucciniano e un Edgardo nella Lucia come la Storia ne ha dati pochi. Lo spazio mi impone purtroppo di fermarmi qui, quando ho la sensazione di aver appena sfiorato l’argomento. Farò dunque una considerazione finale. L’espressione «tenore italiano» può esser considerata intrinsecamente offensiva. Siamo portati ad attribuirle una connotazione di gallismo, vanità, vacuità, poca intelligenza. Storicamente abbiamo esempi di Uomini tenori italiani che come pochi altri dovrebbero farci fieri di esser loro compatrioti: Caruso, Gigli, Schipa. Bergonzi è della stessa pasta, è di quelli per i quali il nome Italia è ancora grande nel mondo. Paolo Isotta